Dopo gli attacchi terroristici del 22 marzo a Bruxelles, gli aeroporti di tutto il mondo hanno aumentato i loro livelli di sicurezza. L’Europa naturalmente è in testa. La Francia ha destinato altri 1.600 agenti di polizia al rafforzamento della sicurezza alle frontiere e alle infrastrutture, compreso l’aeroporto Charles de Gaulle.

La Nigeria ha fatto ricorso a dei cani per controlli speciali. In Egitto i controlli di sicurezza negli aeroporti e nelle loro vicinanze sono gestiti personalmente da alti ufficiali dei servizi di sicurezza, anche se tutto questo non ha impedito il dirottamento di un aereo partito dal Cairo diretto ad Alessandria (l’incidente si è concluso senza una catastrofe e il dirottatore, che indossava una falsa cintura esplosiva, è stato arrestato). Perfino nell’aeroporto internazionale di Jacksonville in Florida – il 55° in ordine di grandezza negli Stati Uniti e di sicuro non un bersaglio prioritario per i terroristi – adesso ci sono agenti di polizia con lunghi fucili.

Dopo l’11 settembre 2001 il ciclo del rafforzamento dei controlli di sicurezza è diventato fin troppo familiare. Tuttavia, il campo di battaglia è in un certo senso cambiato. Gli avvenimenti dell’aeroporto di Bruxelles non sono accaduti a bordo di un aereo, ma nella sala del check-in, prima dei varchi di sicurezza.

Spostare il rischio

Negli ultimi anni gli spazi degli aeroporti accessibili a tutti sono diventati spesso un bersaglio. Nel 2007 una jeep piena di esplosivo è riuscita a entrare dall’ingresso principale dell’aeroporto di Glasgow, in Scozia. Nel 2011 un attentatore suicida ha ucciso 37 persone nella sala degli arrivi dell’aeroporto Domodedovo di Mosca. Dopo Bruxelles, alcuni esperti hanno invocato una maggiore sicurezza all’ingresso degli aeroporti.

Un ex direttore della Transportation security administration (Tsa), negli Stati Uniti, ha riferito al New York Times che gli aeroporti dovrebbero fare di più per passare al vaglio i veicoli che si avvicinano agli aeroporti. Il sistema in uso in Israele è stato indicato come modello. Lì gli aeroporti hanno almeno cinque livelli di sicurezza, a partire dal momento in cui agenti armati fino ai denti interrogano gli aspiranti viaggiatori quando sono ancora nelle loro automobili.

Questo approccio però presenta dei problemi. In primo luogo, potrebbe semplicemente far arretrare il punto in cui i terroristi possono colpire senza essere individuati. Prima per loro era più facile salire sugli aerei. Adesso possono entrare facilmente negli atri degli aeroporti. Se questi spazi vengono messi in sicurezza e le code cominciano fuori, a quel punto i terroristi potrebbero attaccare lì. “Lo definiamo rischio spostato”, ha detto a Nbc News Simon Bennet, direttore dell’Unità per la sicurezza civile dell’università di Leicester, in Gran Bretagna. “Il punto di vulnerabilità non viene eliminato, ma solo spostato”.

Il secondo problema sono i costi. “I politici non possono dirlo, ma gli esperti di sicurezza sì: avere degli ulteriori varchi di sicurezza dotati di personale agli ingressi degli aeroporti avrebbe dei costi proibitivi”, afferma Bennett. “I costi sarebbero superiori ai benefici”.

Un altro ex amministratore della Tsa, John Pistole, ha dichiarato alla Nbc News che Israele spende per la sicurezza degli aeroporti dieci volte a passeggero quello che spendono gli Stati Uniti. Ha inoltre evidenziato un altro problema relativo al sistema israeliano. “Tel Aviv ricorre in modo massiccio alle tecniche di profiling per ridurre i rischi, ma la nostra costituzione ci impedisce di farlo”. Anche se alcuni viaggiatori ritengono che valga la pena controllare la gente negli aeroporti in base ai tratti razziali o religiosi, secondo altri si tratterebbe di un’inaccettabile violazione dei diritti civili.

Se cominciamo a mettere sotto chiave gli atrii degli aeroporti, dovremmo poi passare alle stazioni, alle sale per concerti, e poi alle piazze, alle chiese

C’è poi un problema più sostanziale: oggi qualsiasi ampio luogo di incontro è un possibile obiettivo per i terroristi. È stato giusto mettere in sicurezza gli aerei, visto che essi stessi sono stati usati come armi di distruzione di massa. Ma se cominciamo a mettere sotto chiave gli atrii degli aeroporti, dovremmo a rigor di logica passare alle stazioni ferroviarie e degli autobus, alle sale per concerti, e poi alle piazze, alle chiese, alle scuole. E la lista continua.

Questo, scrive Patrick Smith, autore del blog Ask the pilot, è “proprio il modo di pensare sbagliato. È reazionario nel senso letterale del termine e gioca direttamente a favore della strategia dei terroristi, una strategia che sollecita una reazione basata sulla paura piuttosto che sulla ragione. Alla fine questo approccio è un autogol”.

Smith prosegue: “La realtà è che non potremo mai rendere i nostri aeroporti, o qualsiasi altro luogo affollato, a prova di attacco. E se magari a voi non importa di vivere in una società in cui qualsiasi terminal, centro commerciale, struttura sportiva e stazione della metropolitana è stata militarizzata e riempita di dispositivi di sorveglianza, be’, a me importa eccome”.

I governi possono fare ancora molto per migliorare il coordinamento tra agenzie – e tra paesi – per cercare di impedire simili attacchi in futuro. Nei possibili luoghi di questi attacchi, però, non c’è molto altro da fare senza spostare altrove il punto di vulnerabilità o sacrificare i princìpi che si ripropongono di difendere.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo di A.W. è apparso nel blog Gulliver dell’Economist.

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