Questa settimana il ritorno dei parlamentari a Westminster non avrebbe potuto essere più drammatico. Boris Johnson ha cominciato il suo 3 settembre con una maggioranza e un progetto per lasciare l’Europa a ogni costo entro il 31 ottobre, ma alla fine della giornata aveva visto bocciare dalla camera dei comuni il suo piano per la Brexit con il sorprendente margine di 27 voti. Dopo la plateale defezione di Philip Lee, che durante l’intervento di Johnson ha attraversato l’aula per sedersi tra i banchi dei liberaldemocratici, la rivolta di altri 21 conservatori ha trasformato una maggioranza di un seggio in una minoranza di 43.

Il voto dei parlamentari per assumere il controllo dell’agenda politica britannica è stato soltanto il primo passo. Il giorno successivo i deputati hanno votato in tutti i passaggi alla camera dei comuni il cosiddetto decreto Benn-Burt, il cui obiettivo è impedire che il Regno Unito lasci l’Europa senza un accordo (no deal). Secondo il testo in caso di mancato accordo con l’Unione entro il 19 ottobre, si dovrà chiedere una proroga della scadenza del 31 ottobre, probabilmente al 31 gennaio 2020. Ora il testo approda alla camera dei lord, dove dovrebbe essere approvato. A questo punto la maggior parte degli osservatori prevede che il Benn-Burt diventerà legge all’inizio della prossima settimana.

Johnson e i suoi consulenti hanno dimostrato poca dimestichezza con la gestione della camera dei comuni. Il primo ministro ha sostanzialmente ignorato le domande rivoltegli dal leader laburista Jeremy Corbyn e da altri parlamentari a proposito della sua strategia sulla Brexit, preferendo attaccare quello che ha definito “il documento di resa di Corbyn” e che, a suo dire, avrebbe compromesso la sua capacità di negoziare con Bruxelles impedendogli di ottenere nuove concessioni. Le affermazioni del primo ministro non hanno convinto gli oppositori, tra cui diversi Tory, secondo cui non esiste alcun negoziato anche perché Johnson non ha avanzato alcuna proposta chiara per sostituire il backstop (ovvero una garanzia che il confine resti aperto dopo la Brexit) ed evitare un confine vero e proprio con l’Irlanda.

Le elezioni possono anche riservare brutte sorprese, come ha scoperto Theresa May

La tattica di agitare la minaccia di una Brexit senza accordo non è servita a ottenere nuove concessioni dall’Europa, e altrettanto inutile si è rivelato il tentativo di forzare i parlamentari. L’autoritaria decisione di Johnson di sospendere le attività del parlamento a partire dal 9 settembre e per quasi cinque settimane è stata seguita dalla minaccia di ripristinare la disciplina svanita sotto Theresa May, estromettendo i parlamentari Tory che osassero sfidare il capogruppo del partito (cosa che Johnson ha fatto due volte nei mesi scorsi). Ma l’effetto è stato soltanto quello di rafforzare i ribelli. Ad aprile May era stata sconfitta su una prima versione del decreto Benn-Burt per un solo voto. Johnson, come detto, ha perso per ben 27 voti.

Il primo ministro ha reagito alla sconfitta con la consueta belligeranza. Nonostante abbia ammesso di essere vincolato al rispetto della legge, ha aggiunto che in nessun caso chiederà una proroga della scadenza del 31 ottobre. La soluzione suggerita da Johnson è il ritorno alle urne a ottobre per lasciare al popolo la possibilità di decidere chi dovrà negoziare con l’Unione europea. Il primo ministro aveva suggerito la data del 15 ottobre.

Il problema è che in base al Fixed-term parliaments act (Ftpa) del 2011 il primo ministro non può convocare le elezioni a suo piacimento, ma ha bisogno di una maggioranza parlamentare dei due terzi. Questo significa che a Johnson serve il sostegno dei laburisti. Corbyn ha chiesto a lungo il ritorno alle urne, ma ora ha cambiato orientamento e sostiene che prima di tutto sia necessario approvare il decreto Benn-Burt per evitare la Brexit senza accordo. Nel pomeriggio del 4 settembre una mozione presentata da Johnson per chiedere elezioni anticipate è stata bocciata per mancanza della maggioranza necessaria. Tuttavia è ancora possibile aggirare l’Ftpa. Per esempio il primo ministro potrebbe usare un cavillo per ottenere l’autorizzazione di nuove elezioni, per cui sarebbe sufficiente una maggioranza semplice. In alternativa Johnson potrebbe architettare una sconfitta programmata attraverso un voto di sfiducia. In ogni caso, persa la maggioranza, le elezioni sembrano inevitabili. Quali sono le possibilità di vittoria di Johnson?

Il primo ministro sfoggia ottimismo, anche perché i sondaggi gli concedono un vantaggio di dieci punti percentuali sui laburisti. Ma le elezioni possono anche riservare brutte sorprese, come ha scoperto Theresa May perdendo un vantaggio ancora più consistente nel 2017. Senza un accordo con il Brexit Party (potenzialmente molto difficile), la formazione di Nigel Farage potrebbe rosicchiare molti voti ai Tory. I conservatori potrebbero perdere seggi in Scozia, a Londra e nel sud. Per ottenere una maggioranza dovranno fare incetta di preferenze nel centro e nel nord dell’Inghilterra, regioni in cui vivono molti sostenitori della Brexit che però sono istintivamente avversi ai Tory. Per Johnson, insomma, le elezioni potrebbero rivelarsi molto più insidiose di quanto prevedano i suoi consulenti.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

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