Boris Johnson era di un umore effervescente quando si è rivolto alla stampa di Bruxelles, la sera del 17 ottobre, parlando con entusiasmo anche dei suoi programmi per la cena. Ma il suo principale obiettivo era persuadere quanti stavano guardando, soprattutto a Westminster, di aver raggiunto quello che chiamava “un grande accordo per il nostro paese e per l’Unione europea”. Ora ha meno di 36 ore per convincere i parlamentari che dovrebbero votare per l’accordo il 19 ottobre, in una rara seduta di sabato.
Il risultato del primo ministro è notevole, poiché molti suoi detrattori sostenevano che fosse destinato a fallire. Ha costretto l’Unione europea a riaprire l’accordo sull’uscita del Regno Unito ottenuto dal suo predecessore, Theresa May. Ha raggiunto un nuovo accordo con Leo Varadkar, il primo ministro irlandese, parlandogli di persona. Ed è riuscito a ignorare i consigli di quanti gli dicevano che l’Unione non avrebbe mai accettato un’intesa dell’ultimo minuto, spingendo i leader dell’Ue a sostenere un patto raggiunto solo poche ore prima. Li ha persino spinti a esprimere ottimismo sul fatto che tale accordo sarà ratificato in tempo perché la Brexit abbia luogo il 31 ottobre, un obiettivo che aveva da sempre promesso di raggiungere, all’insegna del motto “do or die” (costi quel che costi).
Eppure Johnson è arrivato a questo punto perlopiù facendo concessioni. Quando ha cominciato era determinato a stralciare il backstop irlandese, che mirava a evitare la creazione di un confine a pieno titolo tra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, mantenendo tutto il Regno Unito in un’unione doganale con l’Ue. Il piano alternativo di Johnson prevedeva che l’Irlanda del Nord continuasse a rispettare alcuni aspetti del regime amministrativo dell’Ue, per esempio per i beni agroalimentari e i prodotti finiti, ma nel quadro di una zona doganale britannica separata. La proposta è stata respinta dall’Ue, sostenendo che sarebbe servita una qualche forma di controllo doganale tra il nord e il sud, nonostante Johnson sostenesse che questi avrebbero potuto essere effettuati in maniera non invadente, lontano dal confine.
Johnson ha invece ormai accettato il principio alternativo di avere una dogana e controlli normativi tra Irlanda del Nord e Gran Bretagna, per esempio nel mare d’Irlanda. Anche se sostiene che l’Irlanda del Nord sarà ancora legalmente parte del territorio doganale del Regno Unito, la conseguenza di questa concessione è trasformare quello che era un backstop (rete di protezione) per tutto il paese in una sorta di frontstop (muraglia difensiva) per la sola Irlanda del Nord.
Johnson ha anche rinunciato al suo tentativo di concedere ai suoi alleati politici nordirlandesi del Partito unionista democratico (Dup) il diritto di ridiscutere ogni quattro anni se aderire o meno a quest’accordo. L’Ue ha accettato che mantenere l’Irlanda del Nord permanentemente allineata alle stesse regolamentazioni e normative doganali richiede una qualche forma di consenso politico. Ma ha attribuito questo ruolo all’intera assemblea dell’Irlanda del Nord, e non a un voto separato di unionisti e nazionalisti, negando al Dup il potere di veto.
Al di là delle disposizioni per l’Irlanda del Nord, l’accordo di ritiro di Johnson è sostanzialmente lo stesso di quello di May. Ma le sue ambizioni per la futura relazione, incarnata da una nuova dichiarazione politica, sono differenti. L’accordo di May mirava a un ampio accordo di libero scambio dalle caratteristiche molto simili alle regole del mercato unico dell’Ue. Johnson mira invece a un accordo di libero scambio più essenziale, simile a quello con il Canada. Creando delle barriere normative e commerciali più forti con il principale mercato d’esportazione britannico, i costi della Brexit saranno più elevati. Secondo le stime effettuate questa settimana da Uk in a changing Europe, un centro studi accademico, nel corso dei primi dieci anni l’accordo di Johnson ridurrà il reddito pro capite di ogni cittadino britannico del 6,4 per cento rispetto a quanto accadrebbe mantenendo la situazione attuale, mentre quello di May lo avrebbe ridotto del 4,9 per cento: una differenza di cinquecento sterline a persona.
Johnson è un miglior venditore di May, il cui accordo sulla Brexit è stato respinto tre volte. Eppure i numeri sono contrari anche a lui
La principale domanda relativa all’accordo di Johnson è se potrà essere ratificato in patria o no. Lui ha sostenuto a Bruxelles di essere “molto fiducioso” che i parlamentari lo approveranno. È un miglior venditore rispetto a May, il cui accordo sulla Brexit è stato respinto tre volte quest’anno. Eppure i numeri sono contrari anche a Johnson.
A cominciare dai dieci parlamentari del Dup, che si sono pronunciati contro l’accordo perché contrari a un confine nel mare d’Irlanda e anche al meccanismo di consenso nell’Ue. La stessa opposizione potrebbe trovarsi anche in alcuni falchi del Partito conservatore appartenenti allo European research group, che in passato hanno mutuato la propria posizione dal Dup. Anche alcuni dei 21 parlamentari sospesi dal Partito conservatore per aver sfidato Johnson sostenendo il Benn act (che bloccava la Brexit senza accordo che il premier aveva minacciato di autorizzare) potrebbero votare contro di lui. Ma anche se tutti questi dovessero decidere alla fine di sostenere Johnson, il premier avrebbe comunque bisogno del sostegno di una dozzina di parlamentari laburisti per vincere la votazione.
È possibile che ce la faccia, non da ultimo perché molti parlamentari laburisti rappresentano circoscrizioni favorevoli alla Brexit. Ma sir Keir Starmer, segretario ombra alla Brexit, sostiene che l’accordo di Johnson è peggiore di quello di May perché potrebbe provocare un indebolimento degli standard ambientali, delle condizioni di lavoro e non solo. Il labour potrebbe ricorrere alla minaccia di sospensione verso i propri parlamentari pur di opporsi all’accordo di Johnson. Rischiare una sospensione per salvare un primo ministro conservatore, quando le elezioni sono alle porte, è una sfida dura anche per i parlamentari laburisti più desiderosi di vedere compiersi la Brexit.
Downing street cercherà di spingere i parlamentari a votare per l’accordo, sostenendo che l’unica alternativa è una Brexit senza accordo. A Bruxelles ci sono state alcune discussioni sul fatto di spingere l’Ue a rifiutarsi di prorogare di nuovo la scadenza del 31 ottobre. Ma in pratica il Benn act è chiaro: se l’accordo sarà bocciato in parlamento, Johnson dovrà chiedere all’Ue di rimandare la data limite per la Brexit al 31 gennaio. E i dirigenti dell’Ue non rifiuteranno una simile richiesta.
Finora, nel corso del suo breve mandato da primo ministro, Johnson ha perso tutte le votazioni che si sono tenute nella camera dei comuni, tranne una. A meno di un miracolo, sembra che perderà di nuovo questo fine settimana.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato dal settimanale The Economist.
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