Cosa vuol dire vincere un World press photo
I fotografi dell’Agence France-Press (Afp) sono stati nuovamente premiati quest’anno al World press photo, la più prestigiosa competizione fotografica al mondo, ottenendo anche l’ambita “Foto dell’anno”. Ecco chi sono i premiati, nelle loro stesse parole.
Yasuyoshi Chiba, foto dell’anno
Uno dei motivi per cui amo essere un fotografo è la possibilità di visitare posti nuovi.
Quando ho chiesto il visto per andare in Sudan, ero molto emozionato: non solo perché sarebbe stata la mia prima volta nel paese, ma anche perché era un momento nel quale il Sudan era su molti notiziari, con migliaia di manifestanti che organizzavano sit-in pacifici.
I disordini erano cominciati dopo che il governo aveva triplicato il prezzo del pane. L’esercito aveva rovesciato il presidente che da lungo tempo era al potere, ma i manifestanti hanno continuato i sit-in davanti ai quartieri generali dell’esercito, chiedendo l’instaurazione di un governo civile. Poi un gruppo militare sconosciuto li aveva dispersi. Alcuni medici legati al movimento di protesta hanno dichiarato che almeno 128 persone sono morte durante le violenze, mentre le autorità hanno fatto un bilancio delle vittime di almeno 87 persone e hanno negato di aver ordinato la dispersione dei manifestanti.
Sono arrivato a Khartoum circa due settimane dopo. I manifestanti erano scomparsi dalle strade, ma le forze di sicurezza erano ovunque. Internet era stato oscurato e le persone non erano in grado di condividere informazioni tramite i social network.
Una sera io e i miei colleghi siamo andati in un’area residenziale, dove i leader dell’opposizione avrebbero dovuto incontrarsi con i manifestanti per una riunione.
Il posto era totalmente al buio. Mentre gli organizzatori preparavano i generatori, i giovani raccoglievano pietre per creare barricate nelle strade che portavano al luogo dell’incontro.
Poi, all’improvviso, le persone hanno cominciato ad applaudire al buio. E hanno usato i loro telefoni cellulari per illuminare un giovane al centro che recitava un testo, mentre le persone intorno a lui gridavano: “Thawra”. Più tardi un collega mi ha spiegato che il giovane stava recitando una famosa poesia e che gli altri stavano gridando “rivoluzione”.
Anche se non capivo le sue parole, l’espressione del suo viso e la sua voce mi avevano impressionato. Non potevo smettere di concentrarmi su di lui per cogliere quel momento. Non ho fatto il suo nome, preoccupato per l’incolumità dei manifestanti.
Durante il mio soggiorno, ho avuto la sensazione che ci fosse sempre qualcuno a osservarmi. Ma c’era anche chi si prendeva cura di me: le persone m’invitavano a casa loro per offrirmi un tè o una bottiglia d’acqua.
Dobbiamo fare i conti con tanti ostacoli imprevedibili, soprattutto quando lavoriamo in Africa. Ma, d’altro canto, viviamo momenti di generosità inattesa che ci compensano di tutte queste difficoltà.
A volte, quando lavoro, mi sembra di registrare la storia. Posso solo sperare che ogni immagine sia un messaggio per un futuro migliore.
Mi piace essere un fotografo, perché le mie esperienze in diverse parti del mondo convergono per creare una nuova percezione. È questo che mi motiva ad andare avanti.
Nicolas Asfouri, primo premio, categoria general news, singole
Ho deciso di abbandonare la fotografia di guerra dopo che il mio amico Sardar Ahmad, giornalista presso l’ufficio di Kabul dell’Afp, è stato ucciso durante un attacco nel 2014. La sua morte mi ha profondamente colpito. Così mi sono detto che forse era giunto il momento di smettere di fotografare la guerra.
Si potrebbe dire che sono nato in guerra, essendo nato a Beirut, epicentro di un conflitto che ha lacerato la mia famiglia e il paese.
Nel 2004 sono andato in Iraq per il mio primo incarico come fotografo di guerra. Ma dieci anni dopo, quando è morto Sardar, ho deciso che ne avevo abbastanza. Era arrivato il momento di cambiare. Da allora mi sono concentrato sui diritti umani e la povertà. Attraverso le mie immagini, voglio dare una voce a quanti si battono per i loro diritti, e mostrare la loro lotta.
A Hong Kong avevo raccontato il movimento degli ombrelli del 2014. Le manifestazioni del 2019 sono state molto diverse. I manifestanti erano perfino più giovani. Si vedevano un sacco di studenti, anche delle scuole medie. Stavolta le manifestazioni erano molto più organizzate e anche più radicali.
I fotografi dell’Afp hanno raccontato il movimento fin dall’inizio, in tutti i suoi aspetti e da tutte le angolazioni. Eravamo in strada giorno e notte. Quando lavoro, a volte mi concentro a tal punto sul compito del momento, che è come se mi trovassi in uno stato di meditazione. Soprattutto quando sono più teso. Non voglio perdermi nessun momento fondamentale.
Una delle immagini che preferisco è quella del manifestante a terra, con il poliziotto che gli tiene un ginocchio sul collo. Avevo visto il manifestante, che indossava degli occhiali, negli istanti precedenti. Il suo arresto è stato così violento che ero sicuro che gli occhiali si fossero rotti. Ma quando ho rivisto le immagini, mi sono accorto che erano intatti e che sulle lenti era riflessa lo skyline di Hong Kong. Il che rendeva la foto ancora più potente. In quegli occhiali si poteva riconoscere Hong Kong.
Un’altra delle mie preferite è quella della ragazza che tiene la mano di un ragazzo, scaraventato a terra dalla polizia proprio in quel momento. Non erano altro che due adolescenti, brutalmente buttati a terra dalla polizia. Da quel che ho potuto capire, il loro unico peccato era quello d’indossare delle maschere. La scena è durata probabilmente solo pochi secondi: se non fossi stato così concentrato, probabilmente l’avrei mancata. Per me quell’immagine sintetizza davvero lo slogan dei manifestanti: “Come together, leave together”, arriviamo insieme, ce ne andremo insieme. Lei semplicemente non voleva lasciare andare la mano di lui. La cosa mostrava davvero quanto fossero determinati questi giovani.
E poi c’è l’immagine di un gruppo di ragazzi circondati dalla polizia dopo aver abbandonato i locali del politecnico, dove erano rimasti per una settimana. Si può leggere una profonda stanchezza nei loro volti. Esausti. Fuggiti dai locali, un poliziotto gli ha gridato “fermi o sparo” due volte, e loro hanno alzato le mani.
Vorrei sapere dove sono oggi queste persone. Sarebbe interessante scoprire se il movimento troverà nuova linfa. Quel che è importante, per me, è che queste immagini saranno viste in tutto il mondo, e aiuteranno a capire la situazione delle persone che ho fotografato.
Sean Davey, secondo premio, categoria contemporary issues, singole
Il 31 dicembre 2019 si è diffusa la notizia che alcuni grandi incendi avevano colpito le città australiane della costa meridionale del New South Wales. Abitando a tre ore di strada, a Canberra, e avendo già preparato la mia auto per raccontare la crisi degli incendi boschivi in corso, mi sono diretto a Bega, dove sono arrivato nel tardo pomeriggio.
Molte strade erano chiuse, e ampie porzioni della costa meridionale erano totalmente isolate, senza elettricità, carburante o acqua. Anche semplicemente arrivarvi era un’impresa ardua.
Abitanti e turisti erano stati trasferiti nell’area fieristica di Bega, per sicurezza, mentre gli incendi erano ancora attivi ed era grande il timore che potessero essere colpite altre città. Non sarebbe esagerato dire che la situazione era caotica.
Quando sono arrivato ho visto centinaia, forse più di un migliaio, di persone accampate, con le loro tende e roulotte. Il fumo era spesso, e trasformava il giorno in notte, con un forte bagliore arancione. Molte persone avevano maschere sul viso per proteggersi dal fumo, e l’accesso alle informazioni su quanto stava accadendo era scarso o impossibile. Molte persone si chiedevano da dove venissi e come avessi fatto ad arrivare, evidentemente valutando i modi in cui avrebbero potuto portare al sicuro loro stessi e le loro famiglie.
Ho visto un gruppo di bambini che giocavano al centro dell’area fieristica, e mi sono fatto strada verso di loro. Ho avvicinato una donna la cui figlia giocava nel gruppo, e le ho chiesto come stava, presentandomi come fotografo. Il suo nome è Kath Ferris e sua figlia Abigail è la ragazzina che indossa una maschera nella foto.
Anche Kath e la sua famiglia erano di Canberra. Erano state evacuate nello spazio fieristico da un campeggio vicino. Erano dirette verso la vicina città di Candello, per visitare altri familiari. I bambini sembravano molto felici e, in quel microcosmo, la gravità della situazione che li circondava sembrava sospesa dalla loro innocenza.
Sapevo che era possibile scattare un’immagine potente in quella situazione, e attraverso l’obiettivo della macchina fotografica ho osservato la scena in quanto fotografo, oltre che come persona che si trovava lì, nella vita reale. Quando ho questo tipo di sensazione con la fotografia, è come fare una specie di viaggio nel tempo, surreale, ed è qualcosa che accade solo di rado. Quando ho rivisto le immagini che avevo scattato quel pomeriggio, per inviarle in redazione, sapevo che quella sarebbe stata la foto scelta, anche se ho inviato due varianti della stessa scena. Il senso surreale che ho percepito mentre scattavo quell’immagine sopravvive quando la guardo oggi.
È innegabilmente un grandissimo onore professionale essere riconosciuto dalla giuria del World press photo. Ma pensando a quel che moltissime persone hanno vissuto nella scorsa estate australiana, celebrare un simile riconoscimento ha anche un sapore agrodolce.
Oli Scarff, terzo premio, categoria sport, singole
Già prima della finale della Champions league di calcio del 2019, avevo chiesto ad alcuni colleghi fotografi dei consigli in prospettiva di una parata per la vittoria su un bus scoperto. Quelli che avevano raccontato la parata successiva al trionfo del Liverpool nel 2005 mi hanno detto di aspettarmi delle folle come non ne avevo mai viste.
Non avevano torto. L’altissimo numero di tifosi allineati lungo i 17 chilometri di parata era incredibile, circa 750mila secondo la polizia, e sembrava che tutta la città (o almeno, la metà rossa tifosa del Liverpool) fosse uscita per partecipare al trionfo della squadra.
Anche gli sforzi fatti dagli spettatori per avere una buona visuale sono stati impressionanti: neanche un segnale stradale o semaforo è stato risparmiato dalle loro scalate, alla ricerca di una visuale senza ostacoli e dell’opportunità di avvicinarsi ai loro eroi. A un certo punto, con grande atletismo, un uomo ha effettuato una scalata fino al piano alto del bus che stava passando, ha salutato, e poi è ritornato prontamente al suo posto.
Insieme ad altri fotografi e videografi, ero sistemato nel bus dei giornalisti, che viaggiava appena davanti a quello dei giocatori, per tutto il percorso. Una delle principali difficoltà fotografiche, per me, era l’obbligo di trascorrere solo cinque minuti alla volta in fondo al bus, in un sistema di rotazione pensato per soddisfare tutti. Un’altra era che, nonostante le proteste del fotografo della squadra, il Liverpool aveva posizionato un grande camion giallo tra il bus della stampa e quello dei giocatori, che regolarmente lanciava dei coriandoli rossi sulla folla, usando vari grandi cannoni. La cosa creava un’atmosfera eccezionale, ma ogni volta che accadeva – e accadeva molto spesso – ci oscurava totalmente la vista dei giocatori. La mia foto selezionata per il World press photo di quest’anno è stata scattata verso la fine della lunga parata, quando il numero dei partecipanti era al suo apice e i fumogeni di colore rosso si spargevano dappertutto. In mezzo a questi festeggiamenti un singolo pallone pieno d’elio, a forma di trofeo della Champions league, scorreva in modo toccante lungo tutta la scena.
Ho desiderato diventare un fotografo a 14 anni, quando mio padre mi insegnò come usare una macchina fotografica. Anche lui era un fotografo, prima di aprire la sua attività di stampa fotografica, e mi ha trasmesso la sua passione e le sue competenze. Considero la fotografia un atto creativo, tecnico, che richiede un costante impegno, e per il quale ho sempre provato un grande amore. L’approccio con cui affronto il mio lavoro, ammesso che sia possibile definire qualcosa del genere, consiste nel rimanere costantemente in osservazione di quel che mi circonda – essere sempre attento ai cambiamenti che riguardano il mio soggetto e quelli di luce – il tutto senza perdere di vista la storia che sto raccontando e il modo in cui illustrarla, in qualsiasi momento.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è stato pubblicato sul blog Correspondent dell’Agence France-Presse. Nel blog giornalisti e fotoreporter raccontano il loro lavoro.
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