Poco dopo l’inizio dell’emergenza coronavirus negli Stati Uniti, a marzo, l’amministrazione di Donald Trump ha sigillato il paese, non solo vietando gli ingressi dalla Cina e dall’Europa ma anche chiudendo il confine meridionale con il Messico. Questo ha significato, tra le altre cose, che le autorità che si occupano dell’immigrazione hanno smesso di valutare le richieste d’asilo dei migranti che si trovano in Messico. Nello stesso periodo, però, il governo statunitense ha continuato ad arrestare gli immigrati senza documenti e a espellere quelli che si trovavano nei centri di detenzione nel sud del paese. Da subito i governi dei paesi d’arrivo – in particolare il Guatemala – hanno denunciato che tra i migranti rimpatriati c’erano persone positive al covid-19, che una volta tornati alle loro famiglie avrebbero potuto far scoppiare focolai e creare un’emergenza sanitaria.
Ora un’inchiesta del New York Times e del Marshall Project dimostra che le autorità statunitensi sapevano delle condizioni di salute precarie di alcune delle persone espulse, ma hanno deciso comunque di rimpatriarle.
L’inchiesta del New York Times e del Marshall Project
I giornalisti hanno parlato con più di trenta migranti, compresi alcuni malati di covid-19. Molte delle persone intervistate hanno detto che nei centri di detenzione statunitensi le condizioni sanitarie e igieniche erano pessime, i dispositivi di protezione erano insufficienti e gli ambienti erano troppo affollati per rispettare il distanziamento sociale. Questa condizione, insieme al fatto che gli immigrati senza documenti vengono spostati continuamente tra centri e prigioni di vari stati prima di essere espulsi, ha creato le condizioni ideali per la diffusione del virus, prima all’interno degli Stati Uniti e poi in altri paesi. “Lo United States immigration and customs enforcement (Ice, l’agenzia federale responsabile del controllo delle frontiere), si è trasformata in un vettore di diffusione del virus negli Stati Uniti e nel mondo”, concludono gli autori dell’inchiesta.
Finora nelle strutture dell’Ice i casi positivi sono stati almeno tremila. Tra le persone intervistate dal New York Times almeno quattro si sono ammalate e poi sono state espulse dal paese. Tra loro c’è Admild, un haitiano che a maggio, durante il tragitto verso l’aereo che l’avrebbe riportato nel suo paese, ha avvertito le guardie di non sentirsi bene. Due settimane prima, mentre si trovava in un centro della Louisiana, Admild era stato sottoposto al tampone per il virus ed era risultato positivo (nel giro di un mese almeno sessanta detenuti della struttura si sono ammalati). I sintomi erano continuati, e mentre andava verso l’aeroporto le guardie si sono limitate a dargli del paracetamolo. Poche ore dopo stava atterrando a Port-au-Prince, diventando uno dei 40mila immigrati espulsi dagli Stati Uniti da marzo. Un altro caso è quello di Lourdes, una donna guatemalteca che si è ammalata negli Stati Uniti ed è stata ricoverata in ospedale pochi giorni dopo essere tornata nel suo paese. Gli altri casi riguardano un indiano, un guatemalteco e un salvadoregno.
Molti dei paesi coinvolti, in particolare quelli centroamericani, hanno comunque collaborato con l’amministrazione Trump per paura di ritorsioni o perché Washington ha promesso forniture mediche e aiuti umanitari. El Salvador e Honduras hanno accettato il rimpatrio di almeno seimila migranti tra marzo e giugno. Al momento almeno undici paesi hanno confermato di aver registrato contagi tra le persone espulse. In tutti i casi si tratta di paesi che in quel periodo avevano chiuso i loro confini.
In altri casi gli immigrati senza documenti non sono stati espulsi ma hanno viaggiato per gli Stati Uniti e sono passati da una struttura all’altra, rischiando di contagiare altre persone. “Kanate, un profugo kirghizo, è stato spostato dalla struttura della contea di Pike, in Pennsylvania, al centro di detenzione ed espulsione di Prairieland, in Texas, nonostante avesse evidenti sintomi da covid-19. Pochi giorni dopo il trasferimento ha fatto un tampone che è risultato positivo.
I giornalisti hanno anche intervistato alcuni lavoratori delle compagnie aeree che trasportano i migranti. Molti di loro hanno riferito che più di un mese dopo che Trump aveva dichiarato l’emergenza nazionale per la pandemia, sui voli non venivano ancora forniti dispositivi di protezione come le mascherine e i guanti. “Ci dicevano solo di stare attenti”, dice uno di loro. Un’altra riferisce che adesso l’unica differenza rispetto ai mesi scorsi è che ai migranti viene controllata la temperatura prima che salgano sull’aereo per essere rimpatriati.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it