Quasi quattordici mesi fa, prima che la pandemia mettesse fine alle campagne elettorali tradizionali, e prima che qualcuno avesse mai sentito parlare di Gordon Sondland, Lev Parnas o di un qualsiasi personaggio minore emerso dalla saga dell’impeachment di Donald Trump, il Partito democratico americano aveva un problema: organizzare un dibattito presidenziale con venti candidati. Lo ha risolto con un’estrazione a sorte: dieci avrebbero partecipato al dibattito della prima serata, e dieci a quello della seconda.

L’unico momento memorabile è arrivato la seconda serata, quando la senatrice della California Kamala Harris ha attaccato Joe Biden perché da senatore negli anni settanta si oppose a un progetto federale di desegregation busing, che prevedeva di usare dei bus per accompagnare tutti gli studenti a scuola, in scuole anche fuori da quartieri dove vivevano solo le minoranze, nel tentativo di ridurre la segregazione razziale, e perché per un periodo collaborò con due senatori segregazionisti.

All’epoca Harris non era in testa ai sondaggi, ma era vista da molti come una candidata promettente: quella più in grado di ricompattare la coalizione di Obama, fatta di progressisti, elettori non bianchi e giovani. Secondo gli esperti Biden era in vantaggio nei sondaggi semplicemente grazie alla riconoscibilità del suo nome: diceva cose senza senso e sembrava sempre un mezzo passo indietro.

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Quello che le persone ricordano dello scambio tra i due è la frase di Harris, “quella bambina ero io”, mentre si parlava dell’infanzia di una donna che raggiungeva in autobus una scuola dove i bianchi erano la maggioranza. Pochi ricordano che Biden, dopo aver incassato i colpi, ne ha restituiti degli altri, ricordando al pubblico che, a differenza di Harris, lui è stato un difensore d’ufficio, e non un pubblico ministero (una delle frasi che ha raccolto più applausi). E in seguito ha retto il confronto retorico: un fatto non da poco, dato che nei dibattiti Harris è acuta, efficace e instancabile.

Nei successivi dibattiti i due si sono studiati senza mai davvero aggredirsi di nuovo. A quanto pare lo scambio non ha lasciato dietro di sé alcun risentimento: l’11 agosto Joe Biden ha annunciato che Harris sarà la sua candidata vicepresidente alle elezioni del 3 novembre.

I punti di forza
La scelta è al contempo rivoluzionaria e prevedibile. È rivoluzionaria, naturalmente, perché Harris, figlia di un padre giamaicano e di una madre indiana, è la prima donna nera e la prima di origine asiatica scelta per il ticket nazionale di uno dei due principali partiti statunitensi. È anche la prima candidata presidenziale o vicepresidenziale del Partito democratico a provenire da uno stato che si trova a ovest delle Montagne rocciose. Ed è solo la quarta donna – dopo Geraldine Ferraro, Sarah Palin e Hillary Clinton – ad apparire tra i candidati alle elezioni presidenziali di uno dei due partiti.

Ma questa scelta era anche prevedibile, perché da quando Biden ha annunciato che avrebbe scelto una donna come vice, Harris è sempre stata tra le favorite, innanzitutto perché era quella con meno difetti. Elizabeth Warren non è molto più giovane del candidato presidente, e rischiava di far perdere ai democratici un seggio al senato (il governatore del Massachusetts, lo stato di Warren, che avrebbe nominato il suo sostituto in attesa di un’elezione speciale, è repubblicano). Stacey Abrams, la beniamina dei progressisti, ha avuto come massimo incarico quello di deputata della Georgia. Karen Bass, che dirige il caucus delle persone nere del congresso degli Stati Uniti, in passato è stata un’ammiratrice di Fidel Castro: un ostacolo per qualsiasi candidato voglia vincere in Florida. E troppe persone che conoscevano Susan Rice, l’ex consulente per la sicurezza nazionale di Barack Obama, hanno dimostrato di non apprezzarla per niente.

La cosa più importante è che Harris è una politica di talento. È vero, ha fatto una pessima campagna presidenziale. È cresciuta troppo e troppo velocemente, ha speso troppi soldi, e non ha mai davvero deciso se essere centrista o progressista. Ma la sua sconfitta alle primarie è stata un’anomalia: fino ad allora aveva vinto qualsiasi elezione a cui aveva partecipato. Dopo essere stata sconfitta, è tornata in senato, dove ha contribuito a scrivere il Justice in policing act, una riforma approvata dai democratici alla camera che definisce degli standard nazionali per l’uso della forza da parte della polizia, vieta i no-knock warrants (gli arresti e perquisizioni senza preavviso e mandato) nei casi di spaccio di droga, e rafforza le prerogative investigative dei procuratori generali.

Questa è stata una buona scelta politica per Harris. La sinistra non l’aveva mai particolarmente amata, perché è un ex pubblico ministero. Inserire il suo nome in un ambizioso progetto di legge di riforma della polizia ha dato credito alla sua rivendicazione di essere diventata magistrata per cambiare le cose dall’interno. Ma da questo punto di vista – cioè essere a suo agio con la politica del do ut des e contraria allo stile battagliero di Bernie Sanders ed Elizabeth Warren – somiglia a Biden. Nessuno dei due è particolarmente ideologico, ed entrambi sono dei consumati attori della politica istituzionale. Sono aperti alle idee progressiste ma restano solidamente ancorati al centro del partito. Inoltre tendono a piacere alle persone e a entrare in sintonia con gli elettori.

L’aiuto dei giovani e degli elettori non bianchi
La scelta suggerisce che Joe Biden non è troppo preoccupato dalla sinistra del suo partito, o almeno che pensa che la natura rivoluzionaria della candidatura di Kamala Harris avrà lo stesso effetto di quella di Warren o Abrams nel rafforzare l’affluenza dove ha più bisogno d’aiuto: tra i giovani e gli elettori non bianchi. Biden ha ottenuto la candidatura presidenziale, naturalmente, grazie all’attrattiva che esercita tra gli afroamericani, ma ha bisogno che gli elettori non bianchi si presentino alle urne in numeri simili a quelli delle elezioni presidenziali del 2012, e non a quelli del 2016, soprattutto in stati come Pennsylvania, Wisconsin, Michigan e Florida.

Harris possiede anche una qualità fondamentale che a Biden manca. È capace di attacchi abili e diretti, e svolgerà le funzioni aggressive che tradizionalmente spettano al candidato vicepresidente. I democratici hanno già l’acquolina in bocca al pensiero di vederla scontrarsi con lo stile rigido e severo di Mike Pence, il vice di Donald Trump. La sua esperienza come pubblico ministero la rende ideale per un’elezione fondata sull’idea di “ordine pubblico”, come sta diventando quella del 2020. Scegliere Warren avrebbe dato un po’ di forza alla tesi di Trump secondo la quale i democratici sono in realtà un partito di estrema sinistra. Scegliere Rice avrebbe permesso ai repubblicani di rievocare all’infinito i fallimenti della politica estera dell’era Obama. Invece attaccare in modo efficace Harris è difficile.

Alcuni, negli ambienti vicini a Biden, giudicano Kamala Harris “troppo ambiziosa”, una critica che sembra sessista (ogni politico di successo lo è, e nessuno sembra infastidito dagli uomini ambiziosi). Biden ha ragionevolmente concluso che l’ambizione della sua vice è un fattore positivo. Ora Harris è favorita alla sua successione, che sia tra quattro anni – Biden ne compierà 78 a novembre e non si è mai sbilanciato su un eventuale secondo mandato – sia tra otto. La strada di Harris verso la futura presidenza, se i due vinceranno a novembre, dipenderà da quanto contribuirà al successo della presidenza di Joe Biden.

(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale The Economist.

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