A dicembre saranno trascorsi dieci anni da quando il venditore ambulante Mohamed Bouazizi si è dato fuoco per protestare contro gli abusi subiti dai poliziotti locali, che spesso pretendevano tangenti per permettergli di lavorare e guadagnarsi quel poco che gli consentiva di sopravvivere.

La sua morte è stata di ispirazione per la primavera araba, una serie di rivolte popolari che hanno rovesciato autocrati, compreso quello tunisino, in tutto il Medio Oriente.

Eppure, a Sidi Bouzid, la piccola cittadina nell’interno del paese dove viveva Bouazizi, sono in pochi a volerlo commemorare. “Lui ha trovato scampo dal creatore e ha lasciato noi in questa miseria”, afferma Haroun Zawawi, uno dei tanti giovani disoccupati seduti nei pressi della rotonda in cui Bouazizi si è dato fuoco. Su un muro lì vicino qualcuno ha scarabocchiato ironicamente la parola “rivoluzione” al contrario. “Le persone sono convinte che con la rivoluzione le loro vite non sono migliorate”, afferma il parlamentare della città Naoufel Eljammali. “Rimpiangono la dittatura”.

La Tunisia è spesso lodata per essere stata il primo paese arabo a liberarsi dal giogo dell’autocrazia e l’unico in cui sopravvive una vera democrazia. Si tengono ancora le elezioni, i servizi segreti sono relativamente docili e c’è una diffusa partecipazione delle donne alla vita pubblica. Tuttavia la maggioranza dei tunisini valuta la rivoluzione in base ai risultati dell’economia, che non è migliorata con la nuova forma di governo. I redditi si sono ridotti di un quinto nell’ultimo decennio e la disoccupazione supera da anni il 15 per cento. Potenti sindacati impediscono le riforme. La fuga in Europa di migranti in cerca di lavoro e senza documenti è quadruplicata nel 2019. Politici litigiosi offrono alla gente poche ragioni per restare.

Il coronavirus ha distrutto importanti fonti di reddito, tra cui le rimesse dall’estero, il commercio e il turismo

La Tunisia è uno dei pochi paesi in cui le persone più istruite hanno meno possibilità di trovare un lavoro. Perciò il parlamento ha approvato di recente una legge per garantire un lavoro ai laureati disoccupati da più di dieci anni. Anche prima che il covid-19 lo costringesse a bloccare il paese da marzo a maggio, tuttavia, sarebbe stato difficile per il parlamento mantenere questa promessa. Il coronavirus ha distrutto importanti fonti di reddito, tra cui le rimesse dall’estero, il commercio e il turismo. A causa della pandemia, il governo prevede un aumento del deficit fino al 7 per cento del pil e una contrazione dell’economia del 6,5 per cento.

La Tunisia aveva avviato con il Fondo monetario internazionale dei negoziati per ottenere un prestito, ma i colloqui sono stati sospesi a luglio, quando il primo ministro Elyes Fakhfakh si è dimesso per le accuse di conflitto di interessi. Il suo sostituto, Hichem Mechichi (l’ottavo primo ministro tunisino in dieci anni), vuole formare un governo di tecnici senza partiti politici. Questo in parte perché i politici non riescono a mettersi d’accordo su molte cose. Il più grande, Ennahda, è un partito di ispirazione islamista. Il suo leader, Rachid Ghannouchi, presidente del parlamento, è in conflitto con il presidente Kaïs Saïed a proposito delle nomine e della gestione del potere. Lo stesso Ghannouchi ha superato di poco un voto di fiducia a luglio dopo essere stato accusato di aver abusato della sua autorità.

La stanchezza al potere
Nove anni fa Ennahda ha vinto le prime elezioni libere in Tunisia promettendo qualcosa di nuovo. Adesso i suoi esponenti appaiono stanchi. A chi gli chiede quale sia stato il suo più grande risultato Ghannouchi risponde: “Jalusna” (siamo qui). Mentre altrove i movimenti islamisti sono stati soppressi, Ennahda è ancora alla guida della politica in Tunisia. Secondo i critici però ha acquisito i tratti degli antichi patriarcati della regione. Ghannouchi, che ha 79 anni, guida Ennahda (o i suoi precursori) da 50 anni. Nel 2012 il partito ha deciso che avrebbe potuto ricoprire la carica di leader solo per altri due mandati, l’ultimo dei quali si conclude quest’anno.Adesso vuole cambiare le regole. “Predica la democrazia musulmana ma comanda come un arabo tradizionale”, afferma Abdelhamid Jlassi, ex vicepresidente di Ennahda che ha lasciato il partito a marzo.

Nelle elezioni parlamentari dell’ottobre 2019 il partito ha raccolto solo un terzo dei voti ottenuti nel 2011. Nelle presidenziali che si sono svolte lo stesso mese, Saïed ha ottenuto una vittoria schiacciante attirando una grossa fetta del voto dei giovani. Questo severo docente di legge estraneo alla politica tradizionale ha promesso di sradicare la corruzione. Tuttavia sembra anche lui affamato di potere: è a capo dell’esercito, delle forze di sicurezza e della politica estera, e vuole anche maggiore voce in capitolo sulla politica interna, che il parlamento considera di sua pertinenza. Ha litigato con Ghannouchi sulla scelta del primo ministro prima di selezionare Mechichi, un burocrate fedele. Nel lungo periodo Saïed vorrebbe arrivare a un sistema di elezioni indirette per il parlamento che conferisca maggiore potere ai consigli locali.

Alcuni parlamentari sembrano inclini a rinunciare del tutto alla democrazia. Abir Moussi era una funzionaria di alto profilo nel partito di Zine el Abidine Ben Ali, il vecchio dittatore, e rimpiange i tempi passati. Definisce la primavera araba una “primavera di rovina” e dà la colpa dei disordini a Ennahda. Come Saïed, è apertamente omofoba. Guida il Partito desturiano libero, che ha ottenuto 17 seggi (su 217) alle elezioni del 2019 e ha guidato la sfida a Ghannouchi. Le persone della classe media che se la passavano meglio con Ben Ali, come lei, invocano la restaurazione dell’ordine precedente alla rivoluzione (in cui Ennahda era un partito dichiarato fuorilegge). Nei sondaggi Moussi è la politica più popolare del paese.

Secondo i diplomatici occidentali la democrazia tunisina ha dimostrato una sorprendente resilienza. I suoi politici sono ben radicati. I suoi esponenti islamisti sono stati contenuti e hanno un atteggiamento conciliante. Si sono verificati pochissimi degli spargimenti di sangue che hanno caratterizzato lo scontro tra i sistemi vecchi e quelli nuovi altrove nel mondo arabo. Tuttavia molti tunisini sono meno ottimisti. I manifestanti chiedono lavoro, ma contribuiscono a peggiorare la situazione bloccando le esportazioni di petrolio e di fosfato. L’affluenza alle urne è in calo. Perfino nella capitale Tunisi non è in programma alcun evento per commemorare la morte di Bouazizi. I politici sminuiscono l’importanza dell’anniversario o, come Moussi, lo maledicono.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è stato pubblicato sul settimanale The Economist.

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