I sintomi sono cominciati a marzo, dice Laura, una ragazza inglese di circa 25 anni. All’inizio sembrava solo una brutta influenza: tosse secca, febbre, affanno, perdita dell’olfatto, “una orribile nausea” e stanchezza generale. Dopo tre settimane di riposo, le cose hanno cominciato a migliorare. Ma a cinque mesi di distanza, non si è ancora ripresa. A volte i suoi sintomi si attenuano per una o due settimane, ma inevitabilmente ritornano. “Quando va male, non posso nemmeno fare chiamate di lavoro, perché se parlo troppo non riesco a respirare”.
A marzo, quando i casi di covid-19 hanno cominciato a crescere in modo esponenziale in un paese dopo l’altro, i medici si sono concentrati sulla necessità di salvare la vita dei pazienti. La rapida condivisione di conoscenze, gli studi clinici e l’esperienza pratica hanno reso la malattia meno mortale.
Nel Regno Unito, è morta circa la metà dei pazienti ricoverati nelle unità di terapia intensiva fino alla metà di aprile. Alla fine di giugno la mortalità era inferiore al 30 per cento. Sono state osservate riduzioni in tutte le fasce d’età, il che significa che il calo non può essere dovuto al fatto che è arrivato in ospedale un minor numero di anziani fragili. Nei luoghi dove l’epidemia ha rallentato, reparti più tranquilli hanno significato cure più attente, ma il motivo del miglioramento è stato probabilmente la migliore conoscenza delle possibilità di trattamento.
Spostare l’attenzione su chi sopravvive
I medici hanno imparato molto. Hanno smesso di attaccare subito i pazienti di covid-19 ai ventilatori, che possono causare danni ai polmoni. L’ossigeno somministrato attraverso cannule inserite nelle narici è molto meno invasivo e spesso funziona lo stesso. Nelle terapie intensive britanniche la percentuale di pazienti covid-19 intubati è scesa dal 90 per cento dei primi giorni al 30 per cento di giugno. I protocolli di trattamento sono ulteriormente migliorati con l’aggiunta del desametasone, un farmaco immunosoppressivo che aumenta il tasso di sopravvivenza dei pazienti che necessitano di ossigeno.
Ma adesso medici e scienziati stanno spostando l’attenzione sui pazienti che sopravvivono all’infezione, compreso il sottogruppo di persone come Laura, che non sono mai state abbastanza male da essere ricoverate in ospedale, ma non si sono mai riprese abbastanza per tornare alla vita normale.
Nella maggior parte dei casi, il covid-19 è una malattia lieve e di breve durata. Da un terzo alla metà dei contagiati non nota alcun sintomo. In quelli che si ammalano, i sintomi di solito spariscono entro due o tre settimane con il solo riposo a casa. In Europa solo il 3-4 per cento circa dei contagiati viene ricoverato in ospedale.
Allo stesso tempo, tuttavia, sta diventando chiaro che una piccola ma significativa percentuale di persone infette presenta sintomi che persistono per mesi. Il ricovero prolungato non è insolito per i pazienti ospedalizzati per polmonite, una complicanza frequente del covid-19. È anche comune per le persone che sono state ricoverate in terapia intensiva, e quindi sono per definizione gravemente ammalate. Ma molti medici affermano che la percentuale di pazienti di covid-19 con problemi persistenti è di gran lunga superiore a quella osservata nel caso di altre malattie virali come l’influenza. I problemi sono anche più vari e spesso includono sintomi polmonari, cardiaci e psicologici, dice Sally Singh dell’università di Leicester, che coordina la realizzazione di un programma di riabilitazione post covid-19 per il servizio sanitario britannico.
Effetti persistenti
Casi di sintomi di lunga durata sono stati riportati fin dai primi giorni della pandemia. Ma con più di 22 milioni di casi confermati in tutto il mondo e con i tassi di contagio che nella maggior parte dei paesi ricchi hanno raggiunto il picco diversi mesi fa, stanno cominciando a emergere modelli statistici sugli effetti persistenti del virus. Un articolo apparso sul British Medical Journal dell’11 agosto giunge alla conclusione che nel Regno Unito ben 60mila persone denunciano sintomi a lungo termine. Eppure finora solo il 6 per cento circa della popolazione britannica – più o meno quattro milioni di persone – sembra essere stata contagiata dal virus.
Un’ipotesi è che il sistema immunitario non riesca a fermarsi dopo essere stato chiamato a combattere un’infezione
La gravità della malattia è uno dei fattori predittivi di problemi duraturi. Ian Hall, che dirige il Centro di ricerca biomedica dell’università di Nottingham, calcola che il 30-50 per cento dei pazienti ricoverati in ospedale con covid-19 presenti ancora sintomi significativi anche sei-otto settimane dopo essere stati dimessi. Questa percentuale aumenta ulteriormente nel caso dei pazienti ricoverati in terapia intensiva. Ma anche chi se l’è cavata con una malattia più leggera, come Laura, è a rischio. Secondo uno studio basato sul monitoraggio di pazienti principalmente statunitensi e britannici, oltre il 10 per cento continua a star male per più di tre settimane. Lamentano stanchezza, difficoltà di respirazione, dolori muscolari e problemi cognitivi che molti descrivono come “cervello annebbiato”.
Alcuni pazienti covid-19 a lungo termine forse soffrivano di condizioni pregresse non diagnosticate come il diabete o una disfunzione tiroidea, che sono state “smascherate” dall’infezione, afferma Avindra Nath dei National institutes of health statunitensi. Secondo altri, l’insieme dei sintomi è simile a quello osservato nella sindrome da stanchezza o fatica cronica (cfs). Le cause biologiche della cfs sono ancora poco conosciute, ma i dati statunitensi indicano che in tre quarti dei casi si sviluppa in seguito a infezioni virali o batteriche.
Un’ipotesi è che la sindrome sia causata dal fatto che, dopo essere stato chiamato a combattere un’infezione, il sistema immunitario non riesce a fermarsi. Può darsi che il Sars-cov2, il virus che causa il covid-19, abbia più probabilità di altri di provocare un’iperreazione così prolungata.
Polmoni, cuore e sistema nervoso
Anche se la causa principale non è nota, la crescente comprensione di ciò che il covid-19 è in grado di fare al corpo umano può almeno suggerire di quale tipo di cure potrebbe aver bisogno chi impiega molto tempo a guarire. Il segno distintivo di molti casi di covid-19 è il danno ai polmoni. L’aggressività dell’infiammazione provoca la distruzione del tessuto polmonare e la formazione di cicatrici. La cicatrizzazione, a sua volta, impedisce il passaggio dell’ossigeno dai polmoni al sangue. Questo può provocare dispnea anche in seguito a un leggero esercizio fisico.
Piccoli studi condotti su pazienti covid-19 dimessi dagli ospedali hanno rilevato che nel 25-30 per cento dei casi il flusso dell’ossigeno è alterato. La prognosi non è chiara. Le persone ricoverate in terapia intensiva per altre infezioni virali di solito recuperano abbastanza rapidamente circa l’80 per cento della loro precedente funzione polmonare, ma l’ultimo 20 per cento può richiedere dai tre ai sei mesi, afferma il dottor Hall. E in alcuni casi le cicatrici polmonari possono peggiorare nel tempo, soprattutto se associate a nuovi problemi di salute nel corso della vita.
I problemi respiratori possono anche derivare da un altro effetto del covid-19: la sua tendenza a causare coaguli di sangue, cosa insolita per un virus respiratorio. Quando si formano nei polmoni, i coaguli possono ostacolare il flusso sanguigno, rendendo ancora più difficile l’assorbimento dell’ossigeno. E il virus può anche causare l’affanno in modo indiretto, danneggiando il rivestimento dei vasi sanguigni, e quindi limitando la quantità di sangue che può scorrere al loro interno.
Il covid-19 può anche danneggiare il cuore, infiammando i tessuti che lo circondano e i vasi sanguigni che trasportano i nutrienti a quell’organo. Questo può indebolire il muscolo e alla fine portare all’insufficienza cardiaca. I coaguli di sangue sono coinvolti anche in questo caso, perché il cuore deve pompare più forte per spingere il sangue attraverso i vasi parzialmente occlusi, quindi nel tempo si indebolisce.
Di fronte a una sconcertante serie di sintomi e a poche spiegazioni precise sulle loro cause, i medici sono alla disperata ricerca di una guida
Nessuno sa esattamente con quale frequenza si verifichi questo tipo di complicazioni cardiache. Ma le notizie dalla Germania sono preoccupanti, afferma Clyde Yancy, un cardiologo della Northwestern University, nell’Illinois. Utilizzando la risonanza magnetica, uno studio ha dimostrato che il covid-19 causa infiammazione e altri cambiamenti nel cuore, anche in persone che erano risultate positive al virus più di due mesi prima e al momento della risonanza non avevano più sintomi. I cambiamenti erano minimi e insufficienti da soli a provocare sintomi clinici. Ma anche un lieve danno al cuore, se persiste abbastanza a lungo, può portare a un’insufficienza cardiaca, sostiene il dottor Yancy.
Gli effetti meno compresi sono quelli a lungo termine del covid-19 sul sistema nervoso e sul cervello. I pazienti con sintomi post-covid persistenti lamentano mal di testa, formicolio e intorpidimento ai piedi e altri disturbi neurologici. Anche problemi che fanno pensare a un malfunzionamento del sistema nervoso autonomo, come il battito cardiaco irregolare, la secchezza delle fauci e i disturbi gastrointestinali sono piuttosto comuni, dice il dottor Nath. Ma la causa esatta di questi sintomi rimane poco chiara, come il motivo per cui più della metà delle persone contagiate subisce una temporanea perdita dell’olfatto (in alcune, piuttosto che sparire l’olfatto risulta alterato: dopo l’infezione le cose hanno un odore diverso rispetto a prima).
Programmi di riabilitazione
Di fronte a una sconcertante serie di sintomi e a poche spiegazioni precise sulle loro cause, i medici sono alla disperata ricerca di una guida. Nel Regno Unito, un terzo dei medici di base ha già pazienti con sintomi post-covid prolungati. Per ora, la cosa migliore che possono fare è avviarli alla riabilitazione polmonare o cardiaca, che può migliorare la qualità della vita di un paziente con qualcosa di semplice come un esercizio di respirazione. Regno Unito, Belgio e altri paesi stanno studiando programmi di riabilitazione per gli ammalati in via di guarigione dal covid-19. Le liste d’attesa sono già lunghe.
In mancanza di una maggiore comprensione, i medici devono ricorrere a quello che hanno appreso da altre malattie. I sintomi persistenti non sono appannaggio esclusivo del covid-19. A volte, la guarigione completa da altre malattie virali come l’influenza può richiedere mesi. I dati sulla sindrome da stanchezza cronica fanno pensare che le possibilità di recupero siano migliori nei primi tre mesi. Dati più specifici sono in arrivo. Negli studi in corso negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Europa e in Cina sono state arruolate migliaia di pazienti e dovrebbero cominciare a comunicare i primi risultati nei prossimi mesi. Per ora, chi soffre degli effetti prolungati della malattia deve preoccuparsi non solo dei sintomi fisici, ma anche di quanto tempo ci metterà a guarire.
(Traduzione di Bruna Tortorella)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
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