Google finisce in tribunale negli Stati Uniti
La notizia era attesa da tempo, e il 20 ottobre è arrivata. Il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti ha avviato una causa contro Google per violazione delle leggi antitrust. Le autorità statunitensi non prendevano di mira una grande azienda tecnologica dai tempi della battaglia prolungata contro la Microsoft, ormai vent’anni fa.
Undici stati hanno deciso di firmare la denuncia in cui il dipartimento di giustizia accusa Google di aver abusato del suo monopolio nelle ricerche online. Probabilmente altri governi statali presenteranno una denuncia separata contro il gigante della tecnologia. Il ministro della giustizia William Barr ha parlato di iniziativa “monumentale”. Barr ha ragione e torto allo stesso tempo.
Google e la sua azienda madre, Alphabet, non sono le uniche imprese del settore finite nell’occhio del ciclone. Amazon, Facebook e la Apple (ma non la Microsoft, che ha mantenuto un comportamento prudente dopo il suo scontro con il governo) sono state più volte accusate di aver contribuito a manipolare l’esito delle elezioni, di aver violato la privacy e di aver abusato della loro posizione di monopolio digitale.
Scelta saggia
Se osserviamo la vicenda da una prospettiva ampia, il caso che riguarda Google sembra insignificante, perché si concentra solo su presunte irregolarità in una sezione dell’attività di un’unica azienda. Nello specifico, gli avvocati del dipartimento di giustizia accusano Google di aver creato un monopolio illegale “nei servizi di ricerca generale, nella pubblicità di ricerca e nella pubblicità testuale di ricerca”.
Il governo sostiene che Google, con l’obiettivo di ostacolare Bing, il motore di ricerca rivale creato dalla Microsoft, usi una rete di contratti “esclusori” stipulati con i produttori di smartphone e capaci di coprire l’80 per cento delle ricerche effettuate negli Stati Uniti sui dispositivi portatili.
La denuncia potrebbe avere l’effetto di rafforzare i meccanismi antitrust degli Stati Uniti, atrofizzati da due decenni di immobilità
Inoltre afferma che Google paga alla Apple più di otto miliardi di dollari all’anno in introiti pubblicitari per assicurarsi che il suo motore di ricerca sia installato di default su tablet e telefoni, e che ha stretto un accordo simile con i produttori che usano il suo sistema operativo Android. Google nega qualsiasi comportamento illecito.
Mark Shmulik, analista della società di ricerca Bernstein, sostiene che in ballo ci sono cifre importanti, ma le accuse sono limitate, perché riguardano solo la ricerca testuale e non quella per immagini o video.
Fiona Scott Morton, esperta di antitrust all’università di Yale e critica nei confronti di Google (oltre che consulente per la Apple) sostiene che la denuncia non comprende le accuse secondo cui Google sfrutterebbe il suo potere di mercato nel campo della pubblicità digitale né quella secondo cui l’azienda ostacolerebbe i potenziali rivali nelle ricerche specifiche, come quelle legate ai viaggi.
La scelta del dipartimento di giustizia di restringere il campo d’azione potrebbe rivelarsi molto saggia. È infatti estremamente difficile dimostrare che Google abbia una posizione dominante nel mercato della pubblicità digitale, perché ne controlla meno di un terzo del totale (subito davanti a Facebook, che ne controlla un quarto). Inoltre Google è stata superata da Amazon nella ricerca specifica dei prodotti. Un esperto di antitrust che si è schierato dalla parte di Google ammette che l’accusa “è ben formulata” e “potrebbe avere successo”.
Amministrazione ambiziosa
In ogni caso sarà un processo lungo, e potrebbe concludersi con un patteggiamento. Google, infatti, potrebbe accettare di adottare alcuni cambiamenti simbolici e pagare una multa che potrebbe apparire salata solo a chi non conosce l’utile netto annuale dell’azienda (34 miliardi di dollari). A quel punto, comunque, la tecnologia potrebbe essersi evoluta al punto da rendere irrilevante il processo, come già successo nel caso della Microsoft.
Ma è innegabile che ci sia qualcosa di ambizioso nella mossa dell’amministrazione Trump. Potrebbe avere l’effetto di rafforzare i meccanismi antitrust degli Stati Uniti, atrofizzati da due decenni di immobilità che hanno permesso a molte aziende di accumulare sempre più potere.
È possibile che in futuro i monopolisti saranno spinti a modificare il loro comportamento, riattivando un processo di distruzione creativa che per troppo tempo è stato soppresso. Come ha sottolineato Barr, “se permettessimo a Google di continuare a cancellare la concorrenza, gli statunitensi non avrebbero mai la possibilità di godere dei vantaggi della ‘prossima Google’”.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
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