Fatto l’accordo, è arrivato il momento di “venderlo”. Nel pomeriggio del 24 dicembre, non appena il primo ministro britannico Boris Johnson e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen hanno annunciato il loro accordo sul commercio e la sicurezza, immediatamente sono partite le rivendicazioni. Von der Leyen ha organizzato la conferenza stampa per prima, e i diplomatici dell’Unione hanno dichiarato che era stato Johnson a fare più concessioni. Clément Beaune, segretario di stato francese incaricato degli affari europei, ha sottolineato che il Regno Unito sarà soggetto a un maggior numero di regole per l’esportazione rispetto a qualsiasi altro paese. Nel frattempo, a Londra, cominciava a circolare una tabella a sostegno della tesi secondo cui il Regno Unito aveva vinto la trattativa. In un’intervista concessa al Sunday Telegraph, Johnson si è vantato di aver ottenuto “la libera circolazione delle merci con l’Unione europea senza che il Regno Unito venga trascinato nella loro orbita normativa”.
La verità è che entrambi gli schieramenti sono scesi a compromessi. Davanti alle 1.246 pagine del documento pubblicato il 26 dicembre, gli analisti concordano sul fatto che Johnson ha ceduto più del previsto sulla pesca, mentre l’Unione ha fatto un passo indietro rispetto alla ritorsione unilaterale immediata nel caso in cui il Regno Unito ne aggiri le regole sul lavoro, l’ambiente e gli aiuti statali. A prescindere dalle rivendicazioni e soprattutto considerando il timore delle conseguenze di un “no deal”, è probabile che la maggior parte delle persone apprezzerà l’esito della trattativa.
I sostenitori della Brexit sono soddisfatti perché il Regno Unito uscirà dal mercato unico e dall’unione doganale, sottraendosi alla giurisdizione della Corte di giustizia dell’Unione europea (anche se la triplice separazione non si applicherà all’Irlanda del Nord). L’Unione europea crede che avrà una presa sufficiente per evitare qualsiasi divergenza normativa futura, anche se alcuni a Londra considerano questa divergenza uno dei motivi principali dietro la Brexit. Su entrambi i fronti l’assenza di dazi e quote sul commercio dei prodotti verrà considerata reciprocamente vantaggiosa.
Poche aziende su entrambe le sponde del Canale sono preparate per i cambiamenti che entreranno in vigore dal prossimo 1 gennaio
Il prossimo passo sarà la ratifica dell’accordo in modo da poter concludere il periodo di transizione entro il 31 dicembre. Johnson continua a ripetere ai più accaniti sostenitori della Brexit all’interno del suo partito che il Regno Unito ha ottenuto ciò che voleva. Il primo ministro è sicuro di ottenere l’approvazione del parlamento il prossimo 30 dicembre anche in caso di ribellione da parte di alcuni “Brexiteer”, perché l’opposizione laburista si prepara a sostenere l’accordo considerandolo più appetibile rispetto alla Brexit dura. Sul fronte europeo è stato deciso di applicare l’accordo provvisoriamente fin da prima che il parlamento europeo lo votasse (come è avvenuto il 28 dicembre, ndr). Bruxelles spera di non dover ottenere il consenso dei parlamenti nazionali, anche se questo potrebbe diventare un pomo della discordia legale.
Dopo tutto ciò arriverà la prova pratica degli effetti dell’accordo sulle attività economiche e sul commercio attraverso la Manica. Di sicuro poche aziende su entrambe le sponde del Canale sono preparate per i cambiamenti burocratici e doganali e per i controlli veterinari e sulla provenienza dei prodotti che entreranno in vigore dal prossimo 1 gennaio. È molto probabile che nei porti si verifichino disagi e lunghe code di camion. La pretesa di Johnson secondo cui il suo accordo non comprende alcuna nuova barriera non tariffaria sarà messa alla prova rapidamente e si rivelerà carente. Ma potrebbe esserci un periodo di tolleranza (il Regno Unito introdurrà gradualmente le nuove regole nei prossimi sei mesi).
Mentre verranno perfezionati i nuovi sistemi informatici e doganali la maggior parte del commercio dei beni dovrebbe proseguire, anche se con qualche frizione in più.
Flussi di dati
I disagi saranno maggiori per i servizi, che rappresentano l’80 per cento dell’economia britannica e una percentuale crescente delle esportazioni. I critici dell’accordo ritengono (non senza ragione) che Johnson abbia sbagliato a dare la precedenza alla pesca e alla produzione, economicamente meno importanti. Nell’accordo non c’è quasi nulla che riguarda il principale settore delle esportazioni britanniche, i servizi finanziari. L’Unione europea deve ancora presentare una decisione di equivalenza su questo settore, senza la quale l’attività transfrontaliera sarà limitata. Inoltre manca una decisione dell’Unione sulla congruità dei dati, necessaria per permettere il flusso di dati personali su cui spesso fanno affidamento le società che operano nel settore dei servizi. In entrambi i casi le decisioni sono unilaterali da parte della Commissione europea, e una volta prese potranno essere ritirate in futuro.
Per il Regno Unito l’accordo lascia altre due grandi questioni in sospeso. La prima riguarda la possibilità di voltare finalmente pagina dopo aver realizzato la Brexit, senza preoccuparsi più del rapporto tra il paese e l’Unione europea. Non soltanto bisognerà stringere i legami sui servizi finanziari, i dati e altri ambiti a cui abbiamo accennato, ma l’accordo prevede la creazione di 25 tra commissioni specialistiche, consigli ministeriali e gruppi di lavoro in aree che variano dalla sicurezza nell’aviazione ai prodotti medicinali, dalla proprietà intellettuale al coordinamento della previdenza sociale. La verità è che è impossibile sfuggire al processo di negoziato perenne con quello che sarà sempre il più grande “vicino” del Regno Unito, come ha scoperto la Svizzera dopo il rifiuto di entrare nell’Unione all’inizio degli anni novanta.
L’altra questione riguarda ciò che Johnson intende fare con la libertà ottenuta uscendo dall’Unione europea. Quasi tutti gli economisti concordano sul fatto che l’impatto delle nuove barriere commerciali sarà negativo, comportando una riduzione del pil sul lungo periodo che potrebbe raggiungere i 4 o 5 punti percentuali. Eppure il primo ministro ripete che il Regno Unito prospererà fuori dall’Unione. Il problema è che al momento non c’è traccia di quegli accordi commerciali con grandi paesi terzi come gli Stati Uniti che potrebbero permettere a Londra di raggiungere questo obiettivo. Fin dalla metà del 2019 il governo di Johnson è stato completamente assorbito prima dalla Brexit e poi dal covid-19, e non ha mai illustrato una rotta economica alternativa per bilanciare gli effetti negativi dell’uscita dall’Unione. Nella sua intervista domenicale con il Sunday Telegraph, Johnson ha insistito sul fatto che il suo governo ha “un programma molto chiaro”. Se il primo ministro vuole davvero avere una possibilità di migliorare la situazione economica del paese, farà meglio a definire questo programma al più presto.
(Traduzione di Andrea Sparacino)
Questo articolo è stato pubblicato dall’Economist.
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