L’inaspettato – e per alcuni inspiegabile – ingresso nel parlamento di Bucarest del nuovo partito Alleanza per l’unità dei romeni (Aur, oro in romeno, che alle elezioni legislative del 6 dicembre 2020 ha raccolto il 9 per cento dei voti) ha dato il via a un complicato dibattito sulla catalogazione ideologica dei suoi sostenitori. A seconda dei casi, i militanti e i simpatizzanti di Aur sono stati descritti come fascisti oppure nostalgici del Partito comunista di Nicolae Ceaușescu. Le definizioni si sono sprecate, in ogni direzione, senza però alcun rispetto della realtà dei fatti.

Eppure è una vicenda emblematica dei nostri tempi: in un paese con una conoscenza molto precaria della storia recente, nella ricerca di sensi e significati politici non solo gli elettori ma anche gli opinionisti vanno a tentoni. Il dibattito pubblico sul passato della Romania – ammesso che sia mai cominciato – non ha risolto il problema della conoscenza, dell’accettazione e della messa in discussione delle scorie lasciate nella nostra società dai totalitarismi che il paese ha vissuto nel novecento. Dal 1938 la Romania ha attraversato tre regimi dittatoriali. La politica e la visione della cosa pubblica sono state plasmate dal fascismo come dal comunismo, e in più di trent’anni di democrazia il paese non è stato in grado di dar vita a un sistema d’istruzione capace di creare gli anticorpi per quella contagiosa malattia che è l’attrazione verso l’estremismo politico.

L’ingresso in parlamento di Aur è espressione di questo fallimento. Altrettanto fallimentare è stata la lettura che i mezzi d’informazione hanno dato del successo di questa nuova formazione. I romeni hanno la pretesa di sapere in che modo si declinano il fascismo o il comunismo nell’ideologia di Aur, mentre in realtà non sono riusciti a trasmettere una solida conoscenza scolastica di cosa significhino davvero queste due parole (e di quali tracce abbiano lasciato nel paese questi due regimi). La presenza di Aur è quindi il risultato della mancanza d’istruzione, evidente sia nella scelta elettorale fatta da molti cittadini romeni, sia nelle opinioni degli analisti che hanno cercato di individuare le origini ideologiche di tale scelta.

Miscuglio di idee
Generalmente le ideologie sono caratterizzate da una sorta di purezza nelle soluzioni e nei metodi proposti. Il fascismo prometteva la purezza della razza. Il comunismo pretendeva di fare una specie di pulizia di classe. Le soluzioni erano semplici, i metodi brutali e la guida unica. Non erano contemplate esitazioni né era possibile allontanarsi dalla retta via. Per ora il partito Aur è lontano da qualsiasi sorta di purezza per quanto riguarda le soluzioni e i metodi. Nel suo programma sono evidenti soprattutto la confusione e il miscuglio delle idee. Quest’incertezza ideologica è evidente nei discorsi pubblici dei leader di Aur, George Simion e Claudiu Târziu, come nelle parole di Călin Georgescu, presentato dal partito come candidato premier.

In una situazione in cui l’istruzione è precaria e i partiti moderati riescono a parlare sempre meno ai cittadini (alle elezioni di dicembre quasi il 70 per cento dei romeni non è andato alle urne) l’eclettismo di Aur è stato accolto a braccia aperte dagli elettori più esasperati.

Nella dialettica del partito, le posizioni contro l’uso della mascherina vanno a braccetto con le teorie del complotto sulla creazione del covid-19, sullo sfondo di suggestioni nazionaliste e legate al folklore romeno, in cui si mischiano i balli popolari degli antichi principi, il mito dell’unione della Romania con la Moldova, l’ostilità verso lo straniero e le preoccupazioni per la sorte del “nostro piccolo caro paese”. Il tipo di nazionalismo che fu cavalcato dal regime comunista.

Tuttavia Aur non si è accontentato solo di questo. La sua ricetta politica ha incorporato anche i classici ingredienti del fascismo: concetti come ordine, morale e fede, in grado di risolvere i dilemmi, le indecisioni e le fragilità della democrazia. In questo paesaggio culturale non potevano mancare la parziale negazione dell’Olocausto e l’elevazione allo status di eroi di figure dell’estrema destra romena come il leader della Guardia di ferro Corneliu Zelea Codreanu e il generale e dittatore Ion Antonescu.

Eredità totalitarie
In un’intervista rilasciata prima del voto di dicembre, Târziu ha detto che se la Romania è precipitata nello stato in cui si trova “non è perché è stata guidata dai legionari (militanti della Guardia di ferro), ma da alcuni bravi ragazzi che si vantano di essere dei gran democratici”. Anche se può apparire seducente a chi conosce la storia per come è insegnata nelle scuole romene, quest’affermazione è evidentemente falsa.

La Romania di oggi è in realtà il risultato delle eredità lasciate dai tre regimi totalitari del novecento: la dittatura personale del re Carlo II, il fascismo della Guardia di ferro e di Antonescu e il comunismo di Ceaușescu. Le ripercussioni di queste esperienze totalitarie sono ovunque nella società romena (e sono testimoniate anche dalle assenze, per esempio la scomparsa quasi totale delle minoranze ebraica e tedesca).

In tutto questo la visione politica di Georgescu, proposto da Aur come premier, si richiama a un tipo di nazionalismo che riecheggia più il comunismo che il fascismo. Secondo questa concezione, la stirpe romena non è derivata dagli schiavi daci, ma da un pantheon di padri nobili che va dai principi medievali Stefano il grande e Michele il prode fino ad Alexandru Ioan Cuza, primo sovrano della Romania unita, per arrivare a Codreanu e Antonescu. È in queste figure che si è incarnata la storia nazionale, non nei lacchè del globalismo che oggi guidano il paese.

Nel determinare il successo del partito sono state decisive la pandemia e la mancanza di trasparenza mostrata nel 2020 dal presidente Klaus Iohannis

Nicolae Ceaușescu credeva di essere il discendente di questi padri fondatori, l’incarnazione delle loro virtù. È celebre il quadro che lo ritrae tra i grandi condottieri romeni, a cominciare da Decebalo, l’ultimo re dei daci. Secondo la logica di Aur, Calin Georgescu potrebbe essere collocato nello stesso quadro. Questo, però, non fa diventare i suoi militanti e sostenitori dei simpatizzanti del Partito comunista romeno.

Dal compendio del nazionalismo comunista arrivano anche le affermazioni di Simion sul covid. Quando gli hanno chiesto se si sarebbe fatto vaccinare, il leader di Aur ha risposto di no, spiegando che la pandemia è un’invenzione di laboratorio. Poi, forse per non alienarsi gli elettori che credono nell’esistenza del virus, ha precisato che accetterebbe solo un vaccino messo a punto in Romania. Lo stesso Simion, tuttavia, è anche un sostenitore della Grande Romania, idea ereditata dal patrimonio dell’estremismo di stampo legionario.

Strategia più efficace
È chiaro quindi che le persone che hanno votato Aur non possono essere facilmente etichettate come fasciste o comuniste. Nel determinare il successo del partito sono state decisive la pandemia e la mancanza di trasparenza mostrata nell’anno appena concluso dal presidente Klaus Iohannis e dal Partito nazional-liberale, al governo dal 2019. Su queste difficoltà congiunturali si sono innestati i discorsi antisistema dei leader di Aur, ammantati di nazionalismo e promossi da uomini d’azione che scendono in strada insieme alla gente e lottano per affermare i diritti dei romeni. A volte in politica la strategia più efficace è dire alle persone che le loro paure sono reali e che la soluzione può arrivare solo da figure autoritarie, non da democratici senza spina dorsale.

Per questi elettori – anche per colpa dell’educazione ricevuta nella scuola romena – è stato irrilevante il fatto che i leader del partito abbiano simpatie legionarie e reputino eroi personaggi come Codreanu e Antonescu. Chi pensava che queste simpatie politiche potessero essere un motivo d’allarme per i romeni comuni, non ha idea di quali siano i parametri della normalità politica nella Romania degli ultimi decenni. Viviamo in una società che considera una leggerezza il fatto che il sindaco di una grande città sfili vestito con l’uniforme nazista. Una società che non si stupisce nel vedere che ci sono ancora vie dedicate a Ion Antonescu. Oppure che un presidente possa affermare che lo stesso Antonescu è stato un eroe nazionale. O infine che si possa fare apologia della Guardia di ferro in diretta tv.

Come biasimare gli elettori che hanno votato un ibrido ideologico come l’Aur quando la scuola pubblica da decenni insegna la storia del fascismo e del comunismo in modo profondamente distorto? L’analfabetismo storico genera mostri, e non solo tra gli elettori. Anche i semplicistici tentativi di appiccicare etichette infamanti a un movimento politico eterogeneo sono una forma di non conoscenza e finiscono per rendere più complicata la lettura del fenomeno che abbiamo di fronte.

In realtà oggi il vero pericolo è che di quei sette romeni su dieci che il 6 dicembre non hanno votato in futuro qualcuno trovi nel minestrone dialettico e ideologico di Aur un motivo per andare alle urne. Sicuramente il partito cercherà di integrare nel suo programma reazionario ogni argomento, proposta o idea che possa portargli voti. Una formazione che si comporta così non ha un’ideologia e proprio per questo è ancora più pericolosa. Tuttavia il problema principale per la Romania di domani non è tanto Aur. Ma il fatto che, finché i nostri partiti moderati saranno il socialdemocratico Psd, il liberale Pnl e il centrista Usl-Plus, sempre più elettori si sposteranno inevitabilmente su posizioni estremiste.

(Traduzione di Mihaela Topala)

Questo articolo è stato pubblicato da Dela0.

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