Ai processi di Norimberga, cominciati il 20 novembre 1945, le forze alleate perseguirono i più importanti esponenti nazisti per le atrocità commesse durante l’Olocausto e la seconda guerra mondiale.

Venivano accusati di quello che appena quattro anni prima Winston Churchill aveva definito “un crimine senza nome”: il genocidio, la distruzione deliberata di un gruppo di persone. In seguito il termine è stato formalmente adottato dalle Nazioni Unite, insieme a una convenzione firmata per impedire che si ripeta.

Mezzo secolo dopo il genocidio è diventato perseguibile dalla Corte penale internazionale (Cpi) insieme ai crimini contro l’umanità, ai crimini di guerra e al reato di aggressione commesso da uno stato contro un altro stato. Oggi c’è un movimento che si batte affinché a questi quattro ne sia aggiunto un altro: la distruzione degli ecosistemi e dell’ambiente, ossia l’ecocidio.

Una svolta nei rapporti sul pianeta
Nel novembre del 2020 alcuni avvocati esperti di diritto internazionale si sono messi al lavoro per definire in modo formale il reato di ecocidio. Il gruppo è guidato da Philippe Sands, un avvocato che ha lavorato nei processi discussi davanti alla Cpi e alla Corte europea di giustizia e autore del libro La strada verso est sui processi ai nazisti, e da Dior Fall Sow, ex procuratrice internazionale delle Nazioni Unite; una bozza di definizione dovrebbe essere resa nota a giugno.

La speranza è che a quel punto possa essere proposta e alla fine adottata come emendamento allo Statuto di Roma, che regola il lavoro della Cpi. In questo modo l’ecocidio sarebbe soggetto a tutti i fallimenti e i limiti che affliggono i tentativi di fermare gli altri crimini internazionali. Ma potrebbe anche essere una svolta nel modo di intendere il rapporto tra esseri umani e natura.

L’ecocidio dovrebbe basarsi sull’idea che la protezione dell’ambiente va intesa come fine a se stessa

L’idea che i danni ambientali possano essere arginati ricorrendo alle leggi internazionali non è nuova. Alcuni studiosi si sono basati sul fatto che la convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite proibisce “di sottoporre deliberatamente” il gruppo aggredito “a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica” e questo potrebbe includere a loro parere la devastazione degli ecosistemi su cui quel gruppo basa la sua sopravvivenza.

Nel 1972, alla conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente di Stoccolma, Olof Palme, all’epoca primo ministro svedese, accusò il governo statunitense di ecocidio per il suo uso durante la guerra in Vietnam dell’agente arancio, un defoliante costituito da due diversi erbicidi e contenente diossina, usato per defogliare le foreste e far appassire i raccolti che ha reso sterili vaste aree del paese. Le prime bozze dello Statuto di Roma includevano il reato di “grave danno ambientale”, che però alla fine non è stato adottato se non come disposizione, inclusa tra i crimini di guerra, che proibisce “tecniche di modifica ambientale”, come l’agente arancio, che hanno “effetti diffusi, durevoli o gravi”.

In seguito, la campagna per includere l’ecocidio nei crimini internazionali è stata portata avanti soprattutto da Polly Higgins, avvocata e attivista morta nel 2019. Nel 2010 Higgins aveva insistito con la commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite affinché l’ecocidio – definito come “la distruzione, il danneggiamento o la perdita su vasta scala di uno o più ecosistemi di un determinato territorio” – fosse considerato un crimine contro la pace. Nonostante il rifiuto, in seguito la Cpi ha accettato di esaminare casi di distruzione ambientale come “crimini contro l’umanità” che avessero un impatto sufficientemente grave sulla popolazione di una determinata area (all’inizio dell’anno una causa simile è stata intentata presso il tribunale dell’Aja dai leader indigeni contro il presidente brasiliano Jair Bolsonaro per la deforestazione dell’Amazzonia; la Cpi sta valutando il caso).

Higgins ha inoltre fondato l’ong Stop ecocide, che dopo la sua morte ha continuato a fare campagna a favore di una legge contro l’ecocidio e ha convocato il gruppo di lavoro che sta redigendo una bozza di definizione.

Un adeguato livello di protezione
Tutti i crimini esaminati dalla Cpi si concentrano sulla protezione degli esseri umani. Anche la maggior parte dei tentativi di far rientrare i danni ambientali nell’ambito del diritto penale internazionale sono stati antropocentrici, poiché hanno legato la condizione degli ecosistemi ai benefici che ne traggono le persone che vi risiedono in termini di sostentamento e produzione di cibo. Sands è invece convinto del fatto che l’ecocidio dovrebbe basarsi sull’idea che la protezione dell’ambiente debba essere intesa come fine a se stessa. Dovrebbe cioè avere una sua base autonoma ed essere considerato un crimine di tipo diverso invece di essere infilato all’interno di definizioni di altri crimini. Pur non parlando a nome del gruppo, le cui decisioni dovranno essere prese collettivamente, Sands spera che anche gli altri la pensino allo stesso modo. “Ho la sensazione che ci sia un ampio consenso sul fatto che i vecchi presupposti antropocentrici vadano messi da parte per poter fare davvero giustizia e garantire all’ambiente un adeguato livello di protezione”, afferma.

Qualsiasi emendamento allo Statuto di Roma deve essere proposto da uno dei paesi firmatari e successivamente approvato da almeno due terzi degli altri. Vanuatu e le Maldive, entrambi arcipelaghi gravemente minacciati dal cambiamento climatico, hanno espresso interesse a proporre un simile emendamento. Francia e Belgio hanno promesso sostegno diplomatico. Sands è convinto che la sempre più forte coscienza ambientale in tutto il mondo e le pressioni esercitate sui politici dall’opinione pubblica indurranno altri paesi a fare lo stesso. Il consenso richiesto però è difficile da raggiungere.

Se alla fine la Cpi adottasse la nozione di ecocidio, cosa cambierebbe? Il diritto penale internazionale funziona più che altro come misura di emergenza, per di più imperfetta. Sebbene spesso i paesi modifichino le loro leggi nazionali per adeguarsi agli accordi globali, in molti casi i governi si limitano a cancellare le disposizioni sgradite. L’Arabia Saudita per esempio ha ratificato la convenzione delle Nazioni Unite sull’eliminazione di “tutte le forme di discriminazione contro le donne” nel 2001, ma si è rifiutata di accettare le leggi che contraddicono la sharia. Alcuni stati non firmano e basta. Né la Cina né gli Stati Uniti hanno ratificato lo Statuto di Roma.

Decenni di trattati che condannano i genocidi e di clausole delle Nazioni Unite che richiedono ai paesi di intervenire per fermarli non hanno impedito che i massacri continuassero. E questo anche nei casi in cui le Nazioni Unite hanno applicato questa definizione a un determinato crimine. Pensiamo al destino dei rohingya in Birmania. Tuttavia, secondo i sostenitori di questa campagna, dare un nome a un crimine internazionale aiuta a stabilire le norme per ciò che può essere considerato accettabile.

Le cause portate davanti al tribunale internazionale forniscono inoltre testimonianze durature delle violazioni e tolgono a chi le compie l’illusione dell’impunità. Prima dei processi di Norimberga, osserva Sands, i paesi erano “del tutto liberi di trattare i loro cittadini come meglio credevano. Se volevano uccidere metà della loro popolazione, potevano farlo”, afferma. “E questo è cambiato all’istante”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.

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