Il 20 settembre è cominciata in Italia la somministrazione delle terze dosi di vaccino anti covid-19: a oggi sono più di 61mila le persone che hanno ricevuto il terzo richiamo, il 6 per cento circa delle 931mila previste. Ad avere accesso alla terza dose sono stati per primi i cosiddetti pazienti fragili, persone il cui sistema immunitario è compromesso a causa di malattie pregresse o che assumono farmaci immunosoppressori, come specificato dettagliatamente nelle note diramate il 14 e il 22 settembre scorsi dal ministero della salute e dall’Agenzia italiana del farmaco. Nei giorni successivi la platea si è allargata, come aveva annunciato Francesco Paolo Figliuolo, il commissario straordinario all’emergenza, parlando ai giornalisti a margine di una visita all’hub vaccinale di Villorba, in Veneto, lo scorso 20 settembre. È arrivato infatti anche il via libera del Comitato tecnico scientifico per gli ultraottantenni e i pazienti delle residenze per anziani. A seguire toccherà agli operatori sanitari.

A proposito di questo allargamento è utile fare una precisazione. Dal punto di vista sanitario, le due popolazioni di soggetti indicati come destinatari della terza dose (pazienti fragili da una parte, personale sanitario, anziani e forse popolazione generale dall’altra) sono riconducibili a due diversi razionali scientifici. La dose somministrata ai pazienti fragili, chiamata tecnicamente “dose addizionale”, serve a rinforzare la risposta immunitaria in soggetti il cui sistema immunitario non reagisce abbastanza bene al ciclo vaccinale standard. Quella che sarà inoculata a sanitari e anziani, la cosiddetta “dose booster” o richiamo, serve invece a contrastare il naturale effetto di diminuzione della risposta immunitaria, un po’ come se si stesse ricominciando il ciclo vaccinale.

Non per tutti
Da una parte, alcuni risultati preliminari sembrano incoraggiare la somministrazione delle terze dosi: uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine (Nejm), condotto su circa un milione di pazienti israeliani ultrasessantenni che hanno ricevuto il richiamo, ha mostrato per esempio che il tasso di infezioni e il rischio di contrarre il covid-19 in forma grave diminuiscono rispettivamente di 11 e 20 volte rispetto ai soggetti che non hanno ricevuto il richiamo. Un altro lavoro, condotto dall’azienda farmaceutica Pfizer nell’agosto scorso (su un campione però molto più piccolo, appena 306 pazienti), evidenzia che “la terza dose di vaccino induce una significativa produzione di anticorpi”.

Dello stesso tenore anche una lettera apparsa sempre sul Nejm, i cui autori affermano, sulla base dei risultati preliminari di un trial clinico che dovrebbe essere completato l’anno prossimo, che “sebbene l’efficacia del vaccino contro le forme gravi della malattia, l’ospedalizzazione e la morte resti piuttosto alta, la diminuzione della risposta immunitaria nel tempo e la diversificazione del virus giustificano la potenziale necessità di somministrare un richiamo”.

Tuttavia, ci sono anche altri elementi che non si possono ignorare. Il fatto, per esempio, che mentre nei paesi più ricchi la campagna vaccinale primaria è stata quasi completata e già si discute delle terze dosi, nei paesi a basso reddito soltanto il 2,2 per cento della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino, come riporta Our world in data. Una revisione appena pubblicata su Lancet a firma di un gruppo di scienziati di cui fanno parte anche esperti della Food and drug administration, l’ente regolatorio statunitense del farmaco, suggerisce che “i dati non sembrano evidenziare la necessità di somministrare un richiamo sulla popolazione generale”, evidenziando che “le attuali scorte di vaccini potrebbero salvare più vite se usate sulla popolazione non immunizzata che non come richiamo su soggetti già vaccinati”.

E anche l’Organizzazione mondiale della sanità si è espressa allo stesso modo: “Ci sono abbastanza vaccini nel mondo”, ha detto il 18 agosto scorso Bruce Aylward, consulente senior dell’ente, “ma non stanno andando nei posti giusti nell’ordine giusto. Bisognerebbe somministrare due dosi alla popolazione più vulnerabile prima di pensare ai richiami. E siamo ancora molto, molto lontani dal farlo”.

A cura di Sandro Iannaccone

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