I “rapporti di valutazione” del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) sono stati usati in passato per fare il punto della situazione su estrapolazioni scientifiche, risultati dei modelli, e analoghi studi relativi a futuri probabili e spaventosi. Il sesto e ultimo rapporto di valutazione, che arriva a otto anni dal precedente, dimostra quante cose siano accadute recentemente. Appare per la prima volta come un documento scritto nel pieno dell’azione, come un’analisi in tempo reale di un presente sempre più sconvolgente.
La prima parte di questo nuovo rapporto, quella che riguarda lo stato della scienza fisica del sistema e dei cambiamenti climatici, è stata diffusa ad agosto. La seconda (su tre, con una sintesi prevista più avanti) è arrivata il 28 febbraio. Riferisce degli effetti di quei cambiamenti climatici, e dell’adattamento e della vulnerabilità a essi. Come già la prima, questa seconda parte è opera di centinaia di studiosi che hanno passato al setaccio centinaia di articoli sottoposti a revisione paritaria e altri materiali, e il cui lavoro è stato poi esaminato da colleghi e autorità statali. Ricercatori e funzionari statali si sono poi riuniti per accordarsi su un testo che sintetizzasse le loro scoperte e raccomandazioni.
Il rapporto nella sua totalità rappresenta una questione enorme, ampia e inevitabilmente incostante. Come ha detto Nat Keohane, direttore del Centro per le soluzioni climatiche ed energetiche, un istituto di ricerca statunitense: “Al suo livello più elementare, il rapporto conferma semplicemente quel che sappiamo già: i danni dei cambiamenti climatici sono già tra noi”. Ma quel che si sa della crisi in corso deve essere ribadito.
Sistemi al limite della capacità
Il riassunto dice chiaramente che le cose stanno peggiorando, con aumenti osservati di temperature estreme a terra e nei mari, di piogge torrenziali, di siccità e di condizioni climatiche favorevoli agli incendi. I cambiamenti stanno colpendo persone, animali e piante, con diffusi spostamenti nelle tempistiche delle stagioni.
Metà delle specie che gli scienziati hanno esaminato si stanno spostando verso latitudini più alte e/o altitudini più elevate alla ricerca di temperature meno calde (anche se è possibile che ci sia qualche distorsione: è infatti più facile raccogliere dati per le specie che già si ritengono essere in movimento che non per le altre). Con temperature attualmente comprese tra 1,1 e 1,3 gradi centigradi al di sopra dei livelli preindustriali, alcuni sistemi naturali si stanno avvicinando al limite della loro capacità di adattamento, o la stanno superando. Alcune barriere coralline, foreste pluviali, zone umide costiere, ed ecosistemi polari e montani stanno per raggiungere i loro “limiti estremi” di sopportazione.
Alcuni sforzi per lo sviluppo e l’adattamento climatico, si dice, hanno ridotto la vulnerabilità al cambiamento climatico
Anche le piante che gli esseri umani usano per ottenere cibo, tessuti e per altri scopi sono sotto pressione. Il rapporto rileva con una certa sicurezza che gli aumenti della produttività agricola registrati negli ultimi cinquant’anni sono inferiori a quelli che sarebbero stati ottenuti senza cambiamenti climatici.
I cambiamenti non sono tutti lenti e graduali. Laddove popolazioni altamente vulnerabili affrontano pericoli come condizioni meteo estreme, il cambiamento climatico alimenta le crisi umanitarie. In tutte le regioni del mondo le persone sono sfollate per questo motivo, dice il rapporto, che sottolinea il peggioramento dell’insicurezza alimentare e della malnutrizione causata da siccità e inondazioni in Africa e America Latina. Il rapporto non rileva, tuttavia, che questo abbia avuto un grande impatto sui conflitti violenti.
Rischi immediati e a lungo termine
Alcune cose sarebbero potute andare peggio. Alcuni sforzi per lo sviluppo e l’adattamento climatico, si dice, hanno ridotto la vulnerabilità al cambiamento climatico, e si osserva ovunque una maggiore pianificazione delle attività d’adattamento (e nell’attuazione di quei piani). Alcuni di questi programmi portano inoltre dei benefici che vanno al di là dell’alleviamento del rischio climatico.
Nonostante tutto, però, gli effetti del cambiamento climatico stanno aumentando a un ritmo che supera i progressi fatti nell’adattamento. A breve termine – forse nei prossimi decenni – cercare di ridurre questo crescente divario appare come il compito più importante. Il punto è che la capacità di adattamento di un ambiente, in termini di rischio a breve termine, ha un impatto più rapido rispetto alla diminuzione di emissioni.
Le misure di breve termine per adattarsi alla crisi climatica possono creare un falso senso di sicurezza
Un’azione rapida può però minare i piani a lungo termine. Le azioni progettate per abbassare i rischi immediati, sostiene il rapporto, possono ridurre l’opportunità di un adattamento “trasformativo” che migliora le cose a lungo termine. Il rapporto mette in guardia dai rischi del “disadattamento”, in cui gli sforzi per affrontare i danni climatici fanno più male che bene. Un esempio potrebbe essere la costruzione di una diga attorno a una città. Così facendo si proteggono i residenti dall’aumento del livello del mare e dalle mareggiate nel breve termine. Ma la diga potrebbe anche cambiare l’andamento delle correnti lungo la costa, creando un’erosione peggiore altrove.
Tali misure possono anche creare un falso senso di sicurezza: nella pianura alluvionale intorno al fiume Jamuna in Bangladesh, ci sono prove che la presenza di argini spinga più persone a vivere da quelle parti, aumentando in definitiva l’eventuale numero di morti qualora un argine dovesse rompersi. Avviare un sistema d’irrigazione in un’area dove non si può più contare sulla pioggia per far crescere i raccolti può portare a un consumo eccessivo d’acqua del fiume, che viene sottratta alle persone che vivono a valle. “Quando andiamo alla ricerca di soluzioni giuste, non dobbiamo pensare solo al rischio climatico, ma anche ai vari effetti collaterali degli interventi che intraprendiamo”, spiega Maarten van Aalst, direttore del Centro per il clima della Croce rossa/Mezzaluna rossa, uno degli autori del rapporto.
Oneri fisici e politici
Anche se tali conseguenze indesiderate fossero evitate, ci sono segni che, in alcune aree, gli esseri umani faranno sempre più fatica ad adattarsi. Il calore estremo è un esempio. La scorsa estate la Columbia Britannica, in Canada, ha registrato una temperatura eccezionalmente alta di 49,6 gradi. Quasi contemporaneamente, gli iracheni hanno protestato contro i tagli alle forniture d’elettricità quando le temperature nel paese hanno superato i cinquanta gradi. L’ondata di caldo in Canada è stata più insolita di quella in Iraq. Ma il Canada ha le risorse per prepararsi alla prossima ondata, se vorrà farlo. L’Iraq no.
Questo genere di “limiti morbidi” può essere superato, ma non facilmente. Nel caso dell’Iraq, superarli richiederebbe contemporaneamente un cambiamento d’atteggiamento e delle capacità del governo, una riforma delle istituzioni e la convergenza dei donatori affinché forniscano somme fresche di denaro.
Il fatto che i danni tangibili siano già una realtà non fa che aggiungere oneri fisici ma anche politici. I negoziati durante le riunioni della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico – l’ultima delle quali, Cop 26, a Glasgow lo scorso novembre – si fanno particolarmente accese a proposito di quel che la convenzione definisce “perdite e danni”: quelle conseguenze che sono già percepite oggi, e sui quali i paesi in via di sviluppo hanno diritto di chiedere una compensazione.
A quanto riferito, le più accese discussioni durante la riunione plenaria a porte chiusa dalla quale è poi emersa la sintesi dell’Ipcc sono derivate dai tentativi di alcuni governi di fare sì che il rapporto non si spingesse troppo oltre nel sostenere la causa dei paesi in via di sviluppo. La politica non è certo una novità all’interno dell’Ipcc. Quest’ultimo è stato creato alla fine degli anni ottanta anche per generare un sostegno politico conseguente agli avvertimenti degli scienziati. Ma d’ora in poi, con le valutazioni proiettate nel presente e non più nel futuro, c’è da aspettarsi che le tensioni crescano.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist.
Il nuovo rapporto dell’Ipcc nella parte in italiano offre un focus sull’area del Mediterraneo. Lo studioso Piero Lionello, del Centro euromediterraneo sui cambiamenti climatici, rileva che “i rischi associati al cambiamento climatico previsto sono particolarmente elevati per le persone e gli ecosistemi nel bacino del Mediterraneo a causa della combinazione di vari fattori, tra cui:
- una popolazione urbana numerosa e in crescita, esposta alle ondate di calore, con accesso limitato all’aria condizionata;
- un numero elevato e crescente di persone che vivono in insediamenti colpiti dall’innalzamento del livello del mare;
- grave e crescente carenza idrica, già sperimentata oggi da paesi del Nordafrica e del Medio Oriente;
- crescente domanda di acqua da parte dell’agricoltura per l’irrigazione;
- elevata dipendenza economica dal turismo, che rischia di risentire dell’aumento del caldo, ma anche delle conseguenze delle politiche internazionali di riduzione delle emissioni sui viaggi aerei e da crociera;
- perdita di ecosistemi marini, ecosistemi nelle zone umide, nei fiumi e anche nelle zone montane, molti dei quali sono già messi in pericolo da pratiche non sostenibili (per esempio pesca eccessiva, cambiamento dell’uso del suolo)”.
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