Pedro Morales, un agricoltore di 73 anni in pensione, è seduto nella sua casa con pochi mobili a Santa Rosa e osserva le foto sbiadite di José, uno dei suoi figli. Nel 1990 José, che all’epoca aveva 19 anni, ha lasciato questo piccolo villaggio a due ore da Guadalajara, nello stato messicano di Jalisco, dove i polli si muovono ancora liberi per le strade. E ha attraversato illegalmente il confine con gli Stati Uniti. Ancora oggi vive lì, a Los Angeles.

A tremila chilometri da Santa Rosa, José racconta di essere partito in cerca di “una vita migliore e per aiutare i miei genitori”. Ha lavorato duramente, ma alla fine ha raggiunto entrambi gli obiettivi. Con i soldi guadagnati facendo una serie d’impieghi nel settore edile, ha comprato una casa in California. Ha sposato Claudia, un’altra messicana che era emigrata irregolarmente. La figlia Evelyn, che oggi ha 26 anni, è cittadina statunitense.

José non è l’unico della sua famiglia ad aver lasciato il Messico. Il fratello Roberto ha vissuto negli Stati Uniti per nove anni prima di essere rimpatriato. Uno dei nipoti di Pedro Morales, che si chiama come lui, ha lavorato legalmente per quattro anni negli Stati Uniti ed è tornato in Messico all’inizio della pandemia. Juan Carlos, un altro nipote, è andato a nord nel 2021 per sei mesi grazie a un visto per i lavoratori agricoli.

Trasformazione demografica
Una famiglia, due paesi, e nel mezzo un groviglio di burocrazia ed esperienze: la vita dei Morales illustra il vasto e variegato panorama dell’emigrazione dal Messico agli Stati Uniti, uno dei movimenti di persone da un paese a un altro più consistenti degli ultimi cinquant’anni. Dal 1965 più di 16 milioni di persone hanno lasciato il Messico per attraversare il confine settentrionale.

In parte a causa del fatto che così tanti messicani (e centroamericani) si sono trasferiti senza documenti regolari negli Stati Uniti, l’immigrazione è un tema che riguarda tutte le amministrazioni a Washington. Il presidente Joe Biden, per esempio, è sotto pressione per estendere il Title 42, un provvedimento introdotto da Donald Trump che vieta i viaggi non essenziali per limitare i rischi di contagio. Questa politica, in teoria adottata per rispondere alla pandemia, permette ai funzionari statunitensi di respingere i migranti al confine, compresi i richiedenti asilo, e dovrebbe essere sospesa nel mese di maggio. Ma la discussione sulla migrazione messicana tralascia molti aspetti, soprattutto il fatto che i migranti modificano la realtà di entrambi i paesi. Quasi sempre in meglio.

La migrazione messicana è alimentata soprattutto dalla richiesta di lavoro manuale negli Stati Uniti

Il confine tra Stati Uniti e Messico è sempre stato abbastanza poroso, anche se il periodo di migrazione di massa verso nord cominciò nel 1964, quando la chiusura del programma di lavoro stagionale bracero negli Stati Uniti spinse molti messicani ad attraversare il confine. Il numero di migranti aumentò negli anni ottanta ed è schizzato alle stelle negli anni novanta e all’inizio del duemila.

La migrazione messicana è alimentata soprattutto dalla richiesta di lavoro manuale negli Stati Uniti, spiega Jorge Durand dell’università di Guadalajara. Secondo una stima, il 68 per cento dei lavoratori agricoli della California è messicano. “Sapevo che negli Stati Uniti c’era lavoro”, racconta José.
La prima ondata di migranti si adattava bene a questo schema. Secondo Filiz Garip, dell’università di Princeton, erano soprattutto giovani uomini soli provenienti dalle aree rurali che non avevano documenti e lavoravano nell’agricoltura. In seguito si sono aggiunti i migranti dalle città, più ricchi e istruiti. Anche le donne cominciarono a partire. I migranti si stabilirono in California, in Texas e in Illinois e in altre aree del paese. Anche i tempi di permanenza si allungarono.

Le tendenze dell’emigrazione messicana sono cambiate di nuovo quando José ha cominciato ad ambientarsi negli Stati Uniti. Dopo un picco nel 2007, il numero di messicani che riuscivano ad attraversare il confine si è ridotto ogni anno, anche perché le varie amministrazioni di Washington hanno rafforzato la sorveglianza. Negli anni duemila varie volte il tasso di emigrazione netto è stato negativo a causa dell’elevato numero di rimpatri e di una crisi del mercato del lavoro causata dalla recessione. La seconda tendenza è che circa dal 2017 il numero di migranti regolari ha superato quello degli irregolari.

Oggi le donne messicane negli Stati Uniti fanno molti meno figli rispetto al passato

La riduzione generale nel numero dei migranti è legata anche al cambiamento demografico in Messico. Nel 1970 in media una donna messicana partoriva 6,6 figli nella vita, ma nel 2020 i figli si erano ridotti a 2,1. Nello stesso periodo l’età media della popolazione è passata da 15 a 28 anni. Nel frattempo i migranti messicani hanno cambiato gli Stati Uniti. Nel paese vivono circa undici milioni di persone nate in Messico, che rappresentano quasi un quarto della popolazione straniera e sono una forza politica ed economica sempre più consistente. I migranti ispanici sono più giovani e fino a poco tempo fa facevano più figli. Secondo il Pew research centre, il 17 per cento delle donne che ha partorito nel 2018 negli Stati Uniti era di origine ispanica, rispetto al 10 per cento del 2000. Oggi le donne messicane negli Stati Uniti fanno molti meno figli rispetto al passato.

Effetti positivi
I nuovi arrivati hanno modificato anche i luoghi in cui vivevano. Quasi metà della popolazione di Los Angeles è ispanica, gran parte ha origini messicane. Nel quartiere in cui vivono i Morales si trovano lavanderie (lavanderias), negozi (tiendas) e rivendite di tacos (taquerías), come in Messico. Claudia racconta che quando Evelyn era piccola si preoccupava perché non avrebbe saputo parlare inglese se ci fosse stata un’emergenza medica. Oggi invece i medici che parlano spagnolo non mancano. I messicani-americani stanno creando anche nuove tradizioni. “Da un lato ho la sensazione di aver perso la mia identità, dall’altro stiamo creando una nuova cultura”, dice Evelyn.

La presenza di messicani disposti a lavorare per uno stipendio più basso rispetto agli statunitensi può provocare un calo dei salari. Le ricerche di economisti come Gordon Hanson, dell’università di Harvard, e Giovanni Peri, dell’università della California, suggeriscono che questo riguarda solo una piccola parte della popolazione statunitense. I migranti messicani rafforzano il potere d’acquisto di un numero molto maggiore di persone garantendo assistenza all’infanzia a basso costo e altre attività simili. “Chiunque abbia comprato una casa o mangi frutta e verdura” ha tratto benefici, spiega Hanson. Tuttavia secondo altri economisti, come George Borjas dell’università di Harvard, il numero di americani mal pagati potrebbe essere più alto.

Secondo gli economisti, le rimesse hanno contribuito a mantenere l’economia messicana relativamente stabile

In ogni caso molti economisti concordano sul fatto che a lungo termine l’immigrazione faccia bene all’economia del paese che la riceve. Un modello messo a punto da Hanson e dai suoi colleghi indica che dimezzare l’immigrazione dall’America Latina farebbe diminuire il reddito medio. Questa riduzione sarebbe più consistente nei centri dove ci sono più immigrati ispanici, come a Los Angeles.

Il viaggio verso nord migliora le vite degli immigrati. Hanson calcola che il reddito di chi si trasferisce aumenti tra le 2,5 e le cinque volte, anche tenendo conto che negli Stati Uniti il costo della vita è più alto. Pepe Zárate, un immigrato messicano di 41 anni, avrebbe potuto guadagnare una cifra discreta come medico nel suo paese, ma vent’anni fa ha deciso di trasferirsi negli Stati Uniti, dove oggi guadagna circa quattromila dollari al mese come operaio edile. In Messico avrebbe difficoltà a raggiungere la stessa cifra anche facendo il medico.

Valutare l’impatto dell’emigrazione sulla società messicana è più difficile. Secondo gli economisti, le rimesse hanno contribuito a mantenere l’economia relativamente stabile. Il denaro inviato dagli emigrati incrementa la spesa ed è una fonte importante di valuta estera. La casa di Pedro Morales a Santa Rosa è modesta rispetto a quella del figlio a Los Angeles, ma più lussuosa delle altre della zona. Con i soldi inviati da José, Morales ha fatto costruire un bagno con lo sciacquone. Durante la pandemia le rimesse sono state particolarmente importanti. Tra il 2020 e il 2021 sono aumentate del 27 per cento, raggiungendo la cifra record di 52 miliardi di dollari, l’equivalente del 4 per cento del pil messicano. Invece il governo del presidente messicano Andrés Manuel López Obrador ha speso solo lo 0,7 per cento del pil in aiuti diretti.

Ma il Messico non è riuscito a massimizzare l’apporto degli emigrati, spiega Tonatiuh Guillén, ex capo dell’Istituto messicano per la migrazione. Le persone in grado di parlare fluentemente inglese potrebbero lavorare nei call center, rafforzando la nascente industria dei servizi. E gli emigrati potrebbero inoltre essere una fonte d’investimenti. López Obrador ha messo fine a un programma in cui le amministrazioni municipali e statali e il governo federale potevano raddoppiare i contributi degli emigrati negli Stati Uniti per finanziare strade e altre opere.

Pranzo di famiglia
Di recente il numero di messicani che decidono di trasferirsi a nord è aumentato. Nel 2021 gli agenti della polizia di frontiera hanno intercettato 655.594 messicani che cercavano di raggiungere gli Stati Uniti. Quest’anno il dato è già aumentato del 44 per cento. Esistono inevitabilmente alcuni errori di conteggio, ma è evidente che il numero di persone che attraversano il confine sta crescendo sensibilmente.

L’economia messicana si è contratta del 3,9 per cento rispetto al 2019, e non dovrebbe raggiungere i livelli precedenti prima dell’anno prossimo. In passato la violenza delle organizzazioni criminali non ha favorito l’immigrazione, ma anche quest’aspetto sembra essere cambiato, come sottolinea Stephanie Leutert dell’università del Texas, ad Austin.

Le ripercussioni politiche di questa tendenza renderanno più difficile la vita dei messicani che si sono già stabiliti negli Stati Uniti. Secondo Doug Massey dell’università di Princeton, la maggior parte degli studi suggerisce che i migranti messicani stiano diventando sempre più simili agli americani, dal punto di vista economico e sociale. Ma non avendo i documenti, spesso non hanno accesso ai servizi che potrebbero aiutarli a integrarsi. Molti vivono nel timore di essere rimpatriati e pochi corrono il rischio di lasciare il paese. La politica migratoria degli Stati Uniti “non ha mai riconosciuto il fatto che storicamente i messicani non volevano stabilirsi negli Stati Uniti”, spiega Massey. “In realtà desideravano solo spostarsi mantenendo la propria casa in Messico”.

José, per esempio, è andato a trovare il padre solo una volta nei due decenni trascorsi dalla sua partenza. Lui e Claudia tornerebbero in Messico definitivamente se avessero la possibilità di rientrare negli Stati Uniti per vedere Evelyn. “Questo paese ci ha dato molte opportunità”, spiega. “Ma mi piacerebbe poter abbracciare mio fratello il giorno del suo compleanno e partecipare a un pranzo di famiglia”.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico The Economist. Internazionale ha una newsletter che racconta cosa succede negli Stati Uniti e un’altra sull’America Latina. Ci si iscrive qui.

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