Silvio Berlusconi è morto il 12 giugno 2023. Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2003 nel numero 503 di Internazionale.
L’Economist ha rivolto al presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi ventotto domande sulla sua carriera imprenditoriale e politica.
1 La vicenda della Sme
Le accuse
Nell’ultimo processo che le rimane da affrontare lei è accusato di corruzione di giudici. Tra gli imputati figura anche Cesare Previti, suo intimo amico, senatore di Forza Italia e ministro della difesa nel suo primo governo del 1994. I giudici sospettati di aver preso tangenti sono Filippo Verde e Renato Squillante, entrambi precedentemente impiegati nei tribunali di Roma.
Durante le indagini sulla fallita vendita, nel 1985, della società alimentare Sme (di proprietà statale) a Carlo De Benedetti, un ricco imprenditore italiano, i magistrati hanno scoperto un pagamento effettuato dalla All Iberian, una società riservata off-shore che fa parte della Fininvest, la società a capo di tutto il suo impero finanziario.
Nel marzo 1991 la All Iberian aveva versato 434.404 dollari sul conto di Previti della Mercier Bank presso Darier Henscht & Cie a Ginevra, facendoli trasferire per mezzo di due conti di transito chiamati Polifemo e Ferrido. Il giorno dopo la stessa cifra fu trasferita dal conto di Previti a un altro conto, intestato alla Rowena Finance, una società panamense titolare di conti bancari in Svizzera. Il proprietario della Rowena Finance era Renato Squillante, capo dell’ufficio gip del tribunale di Roma.
Alla fine del 1999 lei e il signor Previti siete stati accusati di aver corrotto Squillante e Verde. Quest’ultimo, insieme ad altri due giudici del tribunale civile di primo grado di Roma, emise una sentenza controversa che impedì a De Benedetti di acquistare la Sme.
Nel processo Sme lei si trova in una posizione unica: parte lesa come primo ministro e imputato come cittadino
Il 30 maggio 2003 i pubblici ministeri di Milano, Ilda Boccassini e Gherardo Colombo, hanno chiesto undici anni di reclusione per Previti e Attilio Pacifico, undici anni e quattro mesi per Squillante e quattro anni e otto mesi per Verde. Nei suoi confronti, signor Berlusconi, non è stata presentata nessuna richiesta di sentenza, perché il 16 maggio la corte aveva dichiarato che il suo processo avrebbe dovuto continuare in separata sede, a causa dei suoi importanti impegni come primo ministro e come prossimo presidente dell’Unione europea. In questo processo lei si trova in una posizione davvero unica. Nella sua veste di primo ministro lei è parte lesa; in veste personale, come cittadino Silvio Berlusconi, lei è un imputato. Il 6 giugno l’avvocato di stato Domenico Salvemini, che la rappresenta come primo ministro, ha detto ai giudici che lei (in quanto Silvio Berlusconi) e altri imputati dovreste essere condannati a pagare un milione di euro. Alla fine del suo intervento in aula, Salvemini ha detto che la vicenda Sme aveva causato gravi danni alla credibilità della giustizia. “Comunque”, ha aggiunto, “le mie richieste non sono enormi perché sono il risultato di accordi e contatti che ho avuto con… l’ufficio del primo ministro”.
Il 18 giugno il parlamento italiano ha approvato un decreto che garantisce al primo ministro l’immunità dai processi penali. Di conseguenza, il processo Sme è stato sospeso fino a quando lei resterà in carica. Tuttavia la legge sull’immunità è stata impugnata davanti alla corte costituzionale.
Il decreto del 1984 sulla televisione
Nel 1985, quando fallì la vendita della Sme a De Benedetti, la sua principale attività economica era nel settore delle televisioni private, di cui si era assicurato un quasi monopolio.
Fino agli anni settanta, solo la Rai, la radiotelevisione pubblica italiana, aveva il permesso di trasmettere su scala nazionale, ed era infatti l’unica emittente nazionale. Ma negli anni settanta cominciarono a diffondersi le tv private. La corte costituzionale ne regolarizzò la posizione negli anni ottanta, stabilendo che le reti televisive private avevano il permesso di trasmettere, ma solo su scala locale.
Per riuscire ad aggirare la legge e cominciare a trasmettere su scala nazionale lei ha avuto bisogno dell’aiuto di Bettino Craxi
Lei ha trovato il modo di superare l’ostacolo. Ha comprato programmi, soprattutto film e telefilm americani, e li ha offerti a prezzi molto bassi a piccole stazioni televisive regionali. I suoi guadagni sono stati ottenuti grazie agli spot pubblicitari preregistrati inseriti in questi programmi. Ogni rete di questo embrionale network ha accettato di trasmettere gli stessi programmi agli stessi orari: in tal modo lei si è assicurato, di fatto, un pubblico a livello nazionale.
Per riuscire ad aggirare la legge e cominciare a trasmettere su scala nazionale lei ha avuto bisogno dell’aiuto di Bettino Craxi, che diventò capo del partito socialista nel 1976 e primo ministro nel 1983. Il 16 ottobre 1984, tre magistrati di tre diverse città italiane oscurarono le sue reti televisive (e quelle di altri) con l’accusa di trasmettere illegalmente. Nel giro di quattro giorni, Craxi firmò un decreto che consentiva alle sue reti (e a tutte le altre) di continuare a trasmettere. Dopo qualche rissa parlamentare, il decreto fu trasformato in legge all’inizio del 1985.
Nel 1994 Craxi scappò in Tunisia, dove morì nel 2000, caduto in disgrazia e in fuga dalla giustizia italiana. Era stato condannato in contumacia al carcere per reati di corruzione.
Antefatti della vicenda Sme
Fino alla metà degli anni ottanta lo stato controllava buona parte dell’economia italiana attraverso tre società controllanti: la più grande era l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri). Le vendite dell’Iri erano massicce, ciononostante la società era in perdita e aveva grossi debiti.
Democristiano pentito, Prodi era un uomo in anticipo sui tempi: credeva nelle forze del mercato e vedeva di buon occhio le privatizzazioni
Romano Prodi all’epoca era un intraprendente e rispettato economista di Bologna, e diventò presidente dell’Iri nel novembre 1982. Democristiano pentito, Prodi era un uomo in anticipo sui tempi: credeva nelle forze del mercato e vedeva di buon occhio le privatizzazioni. I politici avevano governato l’Iri per comprare voti; l’obiettivo di Prodi era vendere quelle parti dell’Iri che avrebbero funzionato meglio in mano ai privati.
Tra le prime candidate alla vendita ci fu un’azienda che era ormai diventata una burla nazionale: la Società meridionale di elettricità (Sme), di cui l’Iri possedeva il 64,4 per cento. Originariamente quotata in borsa, il suo patrimonio fu acquisito direttamente dallo stato nel 1962. La Sme investì i propri ricavi per creare un’impresa del tutto nuova: un impero alimentare. Nei vent’anni successivi la Sme era diventata la pattumiera dove erano depositate le società in attesa di fallire, un gruppo di controllo senza una strategia razionale. Si occupava della produzione di alimenti (pomodori con la Cirio, olio con la Bertolli e latte con la De Rica) e della loro distribuzione (supermercati Gs e ristorazione autostradale con Autogrill), nonché di gelati e cibi surgelati (con Italgel).
La Sme aveva anche un contratto per amministrare un gruppo consociato chiamato Sidalm, proprietario di aziende che producevano biscotti, cracker e pasticcini. La Sidalm era in pratica un pozzo senza fondo: nel 1984 perdeva circa 47 miliardi di lire (allora pari a 27 milioni di dollari) e sarebbe stata necessaria un’iniezione di capitale di almeno trenta miliardi di lire per interromperne la caduta vertiginosa.
La Sme aveva manager capaci, ma una combinazione di politici, burocrati e joint venture ne impedì la riorganizzazione
La Sme aveva manager capaci, come Giuseppe Rasero, preso dalla Unilever (un gigante anglolandese dell’industria alimentare), che negli anni settanta era stato capo esecutivo della distribuzione. Nel 1982 Rasero fu nominato capo esecutivo della stessa Sme. Tuttavia, una combinazione di politici, burocrati e joint venture impedì di realizzare la profonda riorganizzazione di cui quel gruppo aveva bisogno.
Comunque questi manager ottennero qualche risultato concreto. Nel 1984 la Sme ricavò un profitto di 65 miliardi da un totale di vendite di 2.500 miliardi; un guadagno che non si vedeva da anni. I suoi conti finali per il 1984 registrarono un debito netto di 247 miliardi di lire e un guadagno netto di 432 miliardi di lire. Il gruppo aveva circa quindicimila impiegati.
L’industria alimentare italiana era molto frammentata e vendeva i propri prodotti soprattutto al mercato interno. In altri stati europei, l’industria alimentare si stava muovendo in modo aggressivo ed emergevano gruppi paneuropei, come il francese Bsn Gervais- Danone (ora Danone). La Danone non era neanche paragonabile per grandezza alla Unilever, ma era senza dubbio molto più estesa e solida della Sme.
Prodi il privatizzatore
Dal punto di vista di Prodi era essenziale un maggiore coinvolgimento del settore privato, magari attraverso un partner.
Non si riuscì a trovare un accordo con il candidato più ovvio, la famiglia Fossati, che aveva joint venture in tre delle attività Sme (tra cui Alivar, una società quotata in borsa, proprietaria del 60 per cento di Autogrill). All’inizio del 1985, grazie a uno scambio di azioni con la famiglia Fossati, la Sme eliminò uno dei principali ostacoli alla razionalizzazione del gruppo, e aumentò la sua quota di azioni della Alivar dal 50 al 92 per cento. Dopodiché la Sme propose di assorbire la Alivar, che per l’8 per cento era ancora quotata in borsa. A quel punto occorreva calcolare il valore finanziario della Sme. All’inizio del 1985 uno dei più autorevoli esperti in materia, il professor Roberto Poli, stimò che il 64,4 per cento in possesso dell’Iri avesse un valore di 497 miliardi di lire e, di conseguenza, che il valore di tutta la Sme fosse di 772 miliardi (allora pari a 389 milioni di dollari).
La soluzione preferita da Prodi era la vendita totale della Sme, insieme al gruppo consociato Sidalm, ormai sull’orlo della bancarotta. Ma c’erano tre problemi. Primo, per ragioni politiche, il compratore avrebbe dovuto essere italiano. Secondo, i potenziali compratori avrebbero cercato di accaparrarsi soltanto le parti sane, come l’Italgel. Terzo, nel gennaio 1985, in Italia non c’era alcun gruppo alimentare in grado di acquisire quel gruppo. La Buitoni, un gruppo produttore di pasta e confetture, stava per fallire; la Barilla, produttrice di pasta e biscotti, era controllata da una famiglia svizzera, proprietaria di una fabbrica di armi; e la Ferrero, un gruppo dolciario che aveva la propria sede in Belgio, non aveva mai operato alcuna acquisizione nei suoi quarant’anni di esistenza. In parole povere, nessuna di queste società era interessata ad assumersi il rischio di un acquisto dell’intero gruppo Sme.
Lei ha reso noto il suo interesse per l’industria alimentare già nel febbraio 1985. Il 3 aprile 1985 lei ha incontrato Rasero, il quale le ha riferito che l’Iri era pronta a vendere solo la propria quota di partecipazione alla Sme, che valeva circa cinquecento miliardi di lire. Secondo Rasero, lei ha risposto che il prezzo era troppo alto per le sue società.
Nel frattempo, De Benedetti, conosciuto come imprenditore indipendente dai grandi gruppi, stava cercando di diversificare le proprie attività. Il suo gruppo, le Compagnie industriali riunite (Cir), controllava l’Olivetti, un’azienda di computer di cui Cir aveva acquisito il controllo alla fine degli anni settanta, quando la Olivetti si trovava in gravi difficoltà. Cir aveva rivoluzionato la Olivetti con un severissimo taglio dei costi e riconoscendo che il futuro del settore stava nei computer portatili e non su quelli fissi. Nel 1983 De Benedetti era anche riuscito a fare entrare la At&t, una grossa società telefonica americana, come importante azionista nell’Olivetti, causando l’irritazione del partito socialista di Bettino Craxi.
Lei aveva già una notevole partecipazione nel quotidiano Il Giornale, e anche De Benedetti, proprio come lei, voleva avere un giornale. Nell’ottobre 1984 non riuscì a ottenere il controllo del Corriere della Sera, uno dei due più importanti quotidiani nazionali, che venne acquisito invece da Gianni Agnelli, con l’aiuto di Craxi, allora primo ministro. Senza lasciarsi scoraggiare, De Benedetti ottenne ben presto una quota azionaria della Mondadori, che in quel momento condivideva la proprietà di La Repubblica, l’altro importante quotidiano nazionale, con L’Espresso, editore dell’omonima rivista settimanale.
Poiché Cir dipendeva troppo dall’Olivetti, era necessario sviluppare attività che potessero controbilanciare i rischi presentati da un mercato dei computer sempre più competitivo. Bisognava trovare attività con caratteristiche precise: rischi contenuti, mercati sicuri e grossi flussi di denaro. L’industria alimentare rispondeva perfettamente a questi requisiti.
Con un mossa tipicamente opportunistica, De Benedetti soffiò la Buitoni alla Danone. Nel febbraio 1985 offrì alla famiglia Buitoni il 10 per cento in più di quanto era disposto a pagare il gruppo francese per acquisire la quota di controllo, e concluse l’affare in una serata. Ben presto per la Cir diventò chiaro che Buitoni e Sme sarebbero state un’ottima coppia: la Sme vendeva soprattutto nel mercato interno, mentre la Buitoni si indirizzava maggiormente a quello internazionale.
De Benedetti colse la palla al balzo. A metà aprile contattò Prodi per chiedergli se Cir (attraverso la Buitoni) potesse comprare la Sme. All’inizio ottenne secchi rifiuti, ma alla fine riuscì a stringere un accordo con Prodi (e i consiglieri di entrambe le parti) nel corso di due lunghissimi incontri.
Prodi in nome dell’Iri e De Benedetti in nome della Buitoni firmarono un accordo il 29 aprile 1985. La Buitoni accettava di pagare 497 miliardi di lire per acquisire dall’Iri il suo 64,4 per cento di quote azionarie della Sme. Questa cifra equivaleva a un valore di 1.107 lire per ogni azione della Sme, rispetto alle 1.275 lire del prezzo di mercato del 30 aprile. Il prezzo di mercato era decisamente spumeggiante (era salito quasi del 70 per cento dal primo gennaio). Ma l’offerta della Buitoni rappresentava un incremento del 38 per cento rispetto al prezzo medio dei precedenti dodici mesi.
In cambio delle concessioni fatte da De Benedetti durante le trattative, il prezzo stabilito per l’acquisto era pagabile a rate. La Buitoni accettò di comprare anche, al prezzo simbolico di un lira, la moribonda Sidalm, nella quale si impegnava a investire trenta miliardi di lire. L’unica promessa fatta dalla Buitoni era di mantenere gli uffici principali della Sme a Napoli (il 26 maggio 1985 Buitoni promise anche di non vendere la Sme per quindici anni).
L’accordo prevedeva che la vendita fosse soggetta all’approvazione del consiglio di amministrazione dell’Iri. Fino a quel momento sui particolari delle negoziazioni era stato mantenuto uno stretto riserbo per impedire speculazioni di mercato (il consiglio dell’Iri approvò all’unanimità la vendita il 7 maggio 1985).
Cibo per la mente
Prodi e De Benedetti annunciarono l’accordo con grande pubblicità nel corso di una conferenza stampa congiunta il 30 aprile 1985. Il giorno dopo, Il Sole 24 Ore, il più autorevole quotidiano finanziario italiano, mise la vicenda in prima pagina, dedicandole numerosi articoli. Il titolo di testa diceva: “Venti ore attorno a un tavolo, e poi la conclusione dell’accordo”.
Clelio Darida, ministro delle partecipazioni statali, che Prodi aveva tenuto informato sulle trattative tra Iri e Buitoni, disse al Sole 24 Ore di essere favorevole all’accordo. Renato Altissimo, ministro dell’industria, affermò che per lui “la nascita di un grande gruppo alimentare italiano” era motivo di profonda soddisfazione.
Prodi sottopose l’accordo al giudizio di Darida. L’Iri nominò il professor Luigi Guatri, un altro autorevole esperto, per valutare la partecipazione Iri nella Sme. Nella sua relazione del 4 maggio, Guatri si dichiarò d’accordo con la valutazione di Poli. Non si poteva stabilire una cifra molto precisa, a suo parere, ma i 497 miliardi offerti da De Benedetti erano già una somma piuttosto alta.
In un incontro del 2 maggio Craxi chiese a Darida di verificare se il prezzo fosse giusto e di fare un rapporto sul processo di vendita. Il 9 maggio Craxi scrisse a Darida che l’Iri aveva agito “in modo unilaterale e pregiudiziale” non ritenendo necessario richiedere l’approvazione governativa fino al 29 aprile.
Craxi voleva sapere se erano state valutate tutte le possibili offerte. Lo stesso giorno, Prodi chiese a De Benedetti di posporre la conclusione dell’accordo dal 10 maggio, come era stato inizialmente stabilito, al 28 dello stesso mese.
Il 23 maggio il quotidiano La Stampa pubblicò un’intervista con lei a proposito della vicenda Sme. Ecco una delle sue dichiarazioni: “Ora la gente cerca di promuovere l’immagine di una Sme come un gruppo eccezionale che De Benedetti comprerebbe a un prezzo vantaggioso. In realtà, la trasformazione della Sme è a malapena cominciata, e De Benedetti dovrà liberare il gruppo dal peso di così tanti anni di gestione politica…”.
Lo stesso giorno, improvvisamente, un avvocato di Roma poco conosciuto, Italo Scalera (un vecchio amico di Cesare Previti), presentò all’Iri un’offerta di 550 miliardi di lire per l’acquisto della Sme e della Sidalm. L’offerta era fatta per conto di anonimi la cui identità, disse Scalera, sarebbe stata rivelata a conclusione dell’affare. Darida chiese a Prodi di esaminare l’offerta.
Il 28 maggio fu presentata ancora un’altra offerta. Questa volta veniva dalla Industrie alimentari riunite (Iar), un consorzio tra la Fininvest, la Barilla (guidata da Pietro Barilla) e il gruppo Ferrero (guidato da Michele Ferrero). L’Iar offriva 600 miliardi di lire (con alcuni pagamenti da rateizzare). Poiché sia lei sia gli altri due imprenditori non avevate in precedenza mostrato alcun interesse per la Sme, l’offerta era chiaramente un mezzo per ostacolarne l’acquisto da parte della Buitoni. Un’offerta persino più alta fu presentata dalla Compagnia finanziaria mercato alimentari (Co.Fi.Ma), guidata dall’imprenditore Giovanni Fimiani.
La privatizzazione della Sme si trasformò presto in una farsa. Il 4 giugno, una importante dirigente della Swiss Bank Corporation di Londra, che rappresentava molti azionisti della Sme, inviò un infuriato telex al presidente della Consob: “Sembra davvero strano … che un accordo stipulato e sottoscritto tra due parti in seguito possa essere contestato in modo così pubblico. L’evidente caos … sta recando … danni gravissimi alla reputazione dei mercati finanziari italiani”.
Il 9 giugno L’Espresso pubblicò un’intervista con lei, nella quale lei affermava di non aver telefonato a Craxi per chiedergli di intervenire nella vicenda Sme: “Al contrario, il fatto di essere un amico del primo ministro costituiva un ostacolo”.
Il governo dichiarò che bisognava tenere conto di tutte le offerte e, il 15 giugno 1985, Darida emanò un decreto per interrompere la vendita della Sme.
Nel mezzo di tutte queste manovre, è stato trascurato un dettaglio piccolo ma significativo. Per anni, l’Iri, come veniva richiesto nelle circolari ministeriali, ha cercato l’approvazione del governo per vendere le proprie società. Tuttavia, in base alla legge, questo non era un procedimento necessario. “Le circolari ministeriali che forniscono autorizzazioni di vario genere – accettate in passato dalla stessa Iri per debolezza e per un desiderio di vita tranquilla, oppure per ignoranza – sono illegittime perché si arrogano un potere senza avere un sostegno legislativo”, ha scritto Sabino Cassese, uno dei più autorevoli esperti italiani di diritto amministrativo, in un articolo pubblicato il 22 maggio 1985.
Dettagli, dettagli
Ciononostante Prodi sottopose l’accordo all’esame del governo, forse proprio per una delle ragioni indicate da Cassese. De Benedetti ritiene che Prodi sapesse, già nell’aprile 1985, di non aver bisogno dell’approvazione governativa. La Buitoni ha citato in tribunale l’Iri per non aver rispettato l’accordo firmato il 29 aprile 1985.
Nella sentenza al processo intentato dalla Co.Fi.Ma. dell’imprenditore Fimiani, la cassazione ha ribadito, nel marzo 1986, l’interpretazione della legge proposta da Cassese. L’Iri non aveva bisogno di alcuna approvazione del governo per vendere la Sme, in quanto l’Iri era sottoposta alle norme ordinarie del diritto commerciale.
Ciò accadeva tre mesi prima che, nel giugno 1986, la Buitoni perdesse la propria causa davanti al tribunale di primo grado. In questa corte, tre giudici, presieduti da Verde, ora imputato nel processo Sme, stabilirono che l’accordo della Buitoni con l’Iri non poteva diventare esecutivo perché era sottoposto all’approvazione governativa, che non era stata data.
La Buitoni perse anche davanti alla corte d’appello di Roma nel febbraio 1987. Questo tribunale criticò Verde e gli altri due giudici per la loro interpretazione della legge. Tuttavia, con una sentenza ambigua e complicata, stabilì che, sebbene la legge non richiedesse l’approvazione governativa, sia la Buitoni sia l’Iri avevano espresso il desiderio di avere un nulla osta governativo al loro accordo. Lo avevano fatto, dichiarò la corte d’appello, attraverso una frase di due righe inserita nell’accordo del 29 aprile 1985, che di conseguenza non era vincolante.
Nel luglio 1988, con una sentenza ancor più intricata, la corte di cassazione stabilì ancora una volta che l’accordo non era valido.
Nella propria difesa del dicembre 1987, durante una causa avviata dalla Iar, l’Iri dichiarò che “era completamente libera… di decidere se, come, quando, con chi e a quali condizioni stipulare un contratto”. Dato che non era necessaria alcuna approvazione del governo, non è superfluo chiedersi come avrebbe potuto raggiungere il proprio obiettivo una persona a cui fosse stato ordinato di impedire la vendita della Sme. Dal punto di vista di chi era a conoscenza delle sentenze definitive del marzo 1986, (come quella secondo cui l’Iri era sottoposta alle norme ordinarie del diritto commerciale), la Buitoni e l’Iri il 29 aprile 1985 avevano raggiunto un accordo valido, che non aveva bisogno dell’approvazione governativa.
Dal punto di vista di questa persona, l’accordo tra l’Iri e la Buitoni era perciò vincolante. Quindi l’unica strategia che questa persona avrebbe potuto usare con successo sarebbe stata quella di interferire con il corso della giustizia non appena la Buitoni avesse cercato di far mettere in pratica l’accordo.
PAROLA DI BERLUSCONI
Alcuni stralci delle dichiarazioni spontanee rese dal presidente del consiglio davanti al tribunale di Milano durante il processo Sme
2 Le sue dichiarazioni del 5 maggio 2003
In Italia l’imputato di un processo penale ha il diritto di rilasciare una “dichiarazione spontanea”. Rilasciata senza prestare giuramento, può essere fatta in qualsiasi momento del processo. In sintesi le “dichiarazioni spontanee” sono un’opportunità per un imputato di “make a plea in mitigation”. Un imputato, in teoria, non dovrebbe usarle per sollevare sospetti che non siano direttamente legati al suo procedimento.
Gli indizi a mio carico erano incerti e frammentari; quindi… non avevo dato alcun peso a questo procedimento
Qui di seguito sono riportati brani delle sue dichiarazioni spontanee rilasciate il 5 maggio durante il processo Sme. Abbiamo editato il suo intervento, ma in modo corretto, ci sembra. L’intera trascrizione è disponibile in italiano e in inglese. Quelle che seguono sono le parole che lei ha pronunciato, eccetto dove indicato dalle parentesi quadre. Per amor di chiarezza abbiamo messo la sua apertura e la sua chiusura di seguito l’una all’altra, e abbiamo spostato il contesto di due delle sue dichiarazioni come indicato dall’uso del corsivo. Abbiamo indicato le parti mancanti delle sue dichiarazioni con l’uso del simbolo (.)
Le sue dichiarazioni iniziali
“…Io ho ritenuto di cambiare atteggiamento per quanto riguarda questa causa… il mio precedente atteggiamento era di lasciare che la causa si svolgesse senza nessun mio intervento, avendo io il convincimento di una completa capacità dei miei difensori di svolgere tutti i ragionamenti che avrebbero a mio parere potuto dimostrare ampiamente la paradossalità dell’accusa… Circa tre settimane fa i miei avvocati… mi dissero… che la corte non aveva accolto le richieste della mia difesa di ascoltare alcuni testi che… sono… indispensabili…
… Avendo letto soltanto ieri sera per la prima volta, nell’incontro avuto con gli avvocati Ghedini e Pecorella, il testo di imputazione nei miei confronti – sembra incredibile, ma la vicenda mi sembrava così illogica e paradossale che non mi ero ancora curato di farlo – …avevo saputo… che gli indizi a mio carico erano incerti e frammentari; quindi conoscendo bene la mia situazione, non avevo dato alcun peso a questo procedimento. Be’, ieri sera ho visto che c’era addirittura un’ipotesi di un intervento mio o di altri soci, o in concorso con altri soci, su uno dei giudici che partecipò a queste cause intentate dalla Buitoni, e che la Buitoni sempre perse con vantaggio dell’Iri”.
Le sue dichiarazioni finali
“Io credo quindi che ci sia l’esigenza da parte della corte di asseverare i fatti che io ho qui raccontato e credo che a questo punto, data anche l’attenzione che l’opinione pubblica ha ritenuto di dover accentrare su questo processo, ci sia da parte mia la necessità di essere presente alla escussione di questi testimoni per esercitare il mio diritto, il diritto di ogni cittadino, al contraddittorio. E credo che questo possa essere fatto nonostante… i pesanti impegni che ho in questo momento. Ricordo al tribunale che non sono soltanto il presidente del Consiglio… ma faccio anche parte, dal primo maggio, della troika europea che regge il Consiglio d’Europa e che da qui alla fine dell’anno mi vedrà gravato dall’esigenza di 76 viaggi all’estero… Ci saranno poi gli impegni della presidenza del Consiglio…”. “Questo non toglie che io possa trovare delle… mattinate di libertà… in modo da dare la possibilità al presidente del Consiglio e al cittadino Berlusconi di essere presente a difendere i suoi diritti e a esercitare quel diritto… al contraddittorio nei confronti dei testi che prego vivamente il presidente della corte di voler interpellare… C’è quindi anche un giudizio che riguarda l’integrità e la moralità del presidente del Consiglio… (la mia è stata una) condotta assolutamente integerrima e voglio che da questo procedimento emerga quanto io ho qui affermato in quanto non è soltanto oggi qui a parlare l’imputato Berlusconi ma è anche il cittadino Berlusconi a cui la maggioranza del paese ha confidato la responsabilità e l’onere di governare il paese stesso. La ringrazio”.
La fallita vendita della Sme alla Buitoni
“Vorrei raccontare soltanto fatti senza dare opinioni, senza esprimere giudizi”.
“…Il primo maggio 1985, mentre mi trovavo a Madrid… [fui informato] da un mio collaboratore… che c’era stata una vendita da parte dell’Iri della Sme alla Buitoni di Carlo De Benedetti… in particolare ci fu una telefonata molto tumultuosa, direi, dello scomparso Pietro Barilla, il quale mi disse che… circa due settimane prima… [gli] era stato detto che l’Iri non intendeva cedere la sua partecipazione nel comparto alimentare… e mi chiese, mi pregò, data la mia amicizia e il mio rapporto di familiarità con l’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi, di cercare di ottenere per lui un appuntamento con il presidente del consiglio.
Io, ritornato a Milano, parlai con il presidente del Consiglio il quale… mi sembrò che non fosse particolarmente interessato alla vicenda…” (.) “Il presidente del consiglio dopo qualche giorno mi chiamò e mi chiese di incontrarlo. L’incontro avvenne a Milano nel suo studio a piazza del Duomo e trovai una persona completamente diversa… usò frasi molto forti, direi anche molto colorite, e cominciò a raccontarmi la vicenda per come era riuscito ad appurarla, non solo attraverso … gli interventi e le risposte del sottosegretario Amato, ma anche attraverso ciò che gli riferirono … i membri del consiglio di amministrazione dell’Iri che appartenevano alla sua parte politica. E cominciò col descrivere sconvolgente, allucinante, scandaloso il modo con cui si erano condotte le trattative, un modo che, diceva, e ricordo benissimo le parole, a “porte chiuse” e non a mercato aperto… disse che era scandaloso che di queste trattative non fossero tenuti a conoscenza, e neppure della volontà di vendere la Sme, i membri del consiglio di amministrazione; definì scandaloso il fatto che l’Iri avesse dato risposte negative a protagonisti del settore alimentare italiano e mi citò Buitoni, di cui peraltro mi aveva parlato anche Pietro Barilla nella telefonata che mi fece in Spagna.
A questo proposito faccio un piccolo passo indietro… Bruno Buitoni disse di essere anche disposto a vendere la Buitoni all’Iri… Disse inoltre a Barilla… che De Benedetti si era determinato a comperare [la Buitoni] perché gli aveva fatto capire di essere ormai sicuro che la vendita sarebbe andata avanti… e disse, riferì il termine esatto: mi sembra di ricordare che fosse “di avere già in tasca” la Sme. Quindi anche questo fu riferito al presidente del consiglio che definì inaccettabile questo comportamento. Mi disse anche… quanto gli aveva riferito il ministro Altissimo… riguardo all’offerta di una multinazionale americana, la Heinz, che voleva comperare la Sme… [Prodi] rifiutò l’offerta. E in quell’occasione il presidente dell’Iri disse che per il comparto agricolo italiano l’alimentare detenuto dalla Sme era ritenuto strategico, e quindi incredibile, e fece anche una valutazione del valore della Sme da 1.300 a 1.500 miliardi [di lire], ricordandogli che la Sme era lo scrigno, la cassaforte in cui erano conservati i principali marchi storici italiani… (.)
Si era fermato un itinerario che avrebbe portato al perfezionamento del contratto. E l’intera vicenda si arrestò
Craxi disse che Altissimo gli aveva raccontato di questo colloquio con il presidente dell’Iri. Disse anche che l’allora presidente della commissione bilancio, Cirino Pomicino,… era intervenuto su Prodi all’inizio dell’anno e che aveva ricevuto identica risposta negativa sulla volontà della Sme… [Craxi] di conseguenza riteneva che davvero non si potesse accettare un comportamento di questo tipo e che le dismissioni, che lui considerava in quel momento come una vera e propria spoliazione del patrimonio dello stato contro un regalo, un arricchimento indebito a un privato cittadino, non potesse avvenire in quel modo. E poi definì in maniera ancora più forte il prezzo che era stato concordato… in 497 miliardi di lire….
…È impossibile che un affare di questo tipo si sia trattato in due sole sedute presso Mediobanca; mi disse di essere stato informato che alcuni dirigenti dell’Iri… si offesero e abbandonarono la riunione… lasciando soltanto il presidente dell’Iri che poi combinò l’affare con De Benedetti”.
…Aggiunse Craxi che si era venuti meno a quello che è una regola universale, che non ha mai subìto eccezioni, che la valutazione doveva essere fatta con un’aggiunta di un premio di maggioranza, dato che si vendeva la maggioranza dell’azienda”. (.)
Ciò che lei ha fatto e perché l’ha fatto
“E quale fu la conclusione di Craxi? Craxi disse: ‘È un danno per lo Stato, è una spoliazione inaccettabile… c’è una sola soluzione: far pervenire all’Iri un’offerta che sia sensibilmente più elevata di quella contenuta nel contratto con la Cir. E io so che Barilla si sta attivando per mettere insieme una cordata di industriali… Darida riuscì a chiedere che fosse spostato il termine di esecuzione del contratto dal 10 al 28 maggio, questo ho ottenuto, quindi c’è un tempo molto breve per far arrivare all’Iri un’offerta che sia migliorativa rispetto al prezzo concordato con la Cir’.…
Disse: ‘…ti prego di intervenire direttamente a fianco di Barilla; so che ci sono altri industriali che sono interessati’… che Ferrero, non solo Barilla non solo Buitoni si era fatto avanti… ‘Quindi’, disse ‘…so che si sta attivando un commercialista, certo dottor Locatelli di Milano… ti prego contattalo e mettiti in campo, magari facendo intervenire anche la Fininvest nella cordata, al fine di arrivare a presentare entro quella data, il 28 maggio, un’offerta assolutamente migliorativa rispetto all’offerta della Cir’.
Io feci presente che… due importanti dirigenti [dell’Iri] (lei dice Cir, ma ne abbiamo dedotto che volesse dire Iri) erano venuti da me … avevo chiesto se fosse in programma una cessione da parte dell’Iri della Sme, l’avevano tassativamente escluso … raccontai questa storia al primo ministro, ma lui mi pregò ugualmente, in maniera affettuosa ma pressante, anche se non c’era a quel punto nessun mio diretto interesse nell’acquisizione della Sme né di alcuna delle aziende di proprietà della Sme, di mettermi a disposizione e di sentire subito il presidente della Barilla, di ascoltare questo dottore commercialista e di farmi avanti con la mia concretezza per vedere di riuscire a presentare un’offerta. Io alla fine lo feci, e devo dire anche che non mi pesò più di tanto perché avevo qualche conto aperto con il signor De Benedetti che partecipava al gruppo La Repubblica-Espresso, che mi attaccava non un giorno sì e un altro no, ma praticamente tutti i giorni… Quindi mi misi subito in contatto con Locatelli… poi incaricai, in sintonia totale con Pietro Barilla, un avvocato di Roma [Scalera] di presentare all’Iri un’offerta migliorativa; mi ricordo che il miglioramento fu di circa 50 miliardi [di lire], e mi sembra che l’offerta complessiva fosse di 550 miliardi per conto di persone da nominare successivamente… Quest’offerta fu indirizzata il 23 maggio…(.)
Come concilia la sua dichiarazione spontanea del 5 maggio 2003 con la nostra ricostruzione della vicenda Sme?
Fissammo quindi un incontro presso la sede Ferrero di Torino o di un paese vicino a Torino; ci recammo lì tutti quanti insieme e stilammo un telex che nella stessa serata, era l’ultimo giorno il 28 di maggio, fu inviato da noi all’Iri… Direi che questa è stata la tappa più importante di questa operazione: io in quel momento avevo praticamente adempiuto al mandato ricevuto dal presidente del consiglio; si era fermato un itinerario che avrebbe portato al perfezionamento del contratto, e il ministro delle partecipazioni statali ebbe in mano offerte sensibilmente superiori rispetto al prezzo di cui si trattava nel preliminare con la Cir. E quindi l’intera vicenda si arrestò”.
Successivi contrasti e sentenze del tribunale
Il contratto stipulato tra Prodi e la Cir non ebbe esecuzione, si presentarono altri interessati all’acquisto, tra cui il dottor Fimiani di una società di cui non ricordo il nome, che anche in questi giorni mi ha telefonato, e anzi io prego i miei avvocati di mettere agli atti, di consegnare alla corte la lettera e i documenti che lo stesso dottor Fimiani mi ha indirizzato. La sua offerta era di 620 miliardi, quindi anche superiore alla nostra offerta….
C’erano state critiche molto forti da parte di tutta la sinistra; c’era stata anche (come mi fu dichiarata nell’incontro che ebbi con il presidente Craxi) una voce che, Craxi mi disse, era supportata da indizi, a suo dire, molto precisi di tangenti nei confronti … di una corrente del partito [di maggioranza]… Amato mi disse senza mezzi termini… di avere addirittura non indizi ma prove di questa possibilità, che era l’unica spiegazione possibile a un regalo così enorme a un privato cittadino con un danno così rilevante da parte dello Stato….
Si iniziò poi da parte di De Benedetti una serie di giudizi, di chiamate in causa dell’Iri, perché De Benedetti sosteneva la validità di quel documento firmato da Prodi. Io credo che la Cir avesse ben chiaro che Prodi era un falsus procurator cioè non aveva i poteri per firmare quel contratto, tanto è vero e credo che Prodi l’avesse confidato a De Benedetti altrimenti non si capisce come successivamente la Cir stessa non abbia convocato in giudizio Prodi…
Comunque De Benedetti iniziò una serie di cause… Senza la mia partecipazione… la Iar, nella sentenza finale, fu addirittura, o in corso d’opera, estromessa da quel giudizio. De Benedetti ricorse anche all’appello, e anche qui la Iar fu considerata parte in causa, ma le fu dato torto. De Benedetti ricorse in cassazione….
…C’erano 15 giudici che si occupavano di queste cause e che dissero questi no… quindi mi sembra assolutamente strano che si possa pensare che uno di questi giudici fosse influente nell’arco di tutta la decisione; che è una decisione, mi sembra, inappuntabile incriticabile dal punto di vista sia giuridico che oggettivo.
Ci fu un solo mio intervento nel 1988 quando, essendo ormai le cause, cause per cercare di ottenere dall’Iri, che era stata avvantaggiata dall’intervento in causa della Iar ed era l’unica che poteva ottenere un vantaggio… i vantaggi potevano essere per l’Iri perché manteneva la Sme nel suo dominio e non avrebbe dovuto cederla alla Cir….
Questo stabilì il primo grado e il tribunale in tutti i gradi di giudizio, e caso mai doveva essere il presidente dell’Iri che, proprio grazie alla statuizione del tribunale che affermò come quell’impegno suo fosse un impegno preliminare e non un contratto definitivo, si vide tutelata la posizione rispetto a possibili richieste … da parte della Cir nei suoi confronti per responsabilità contrattuali….
…Ecco, credo che questo sia tutto, credo che questi siano assolutamente fatti.
LA NOSTRA DOMANDA. Come può conciliare la sua dichiarazione spontanea rilasciata il 5 maggio 2003 con la nostra effettiva ricostruzione della fallita vendita della Sme da parte dell’Iri alla Buitoni nel 1985?
ATTACCO A PRODI
Dopo la vendita della Sme fu sollevato il sospetto che l’ex presidente dell’Iri avesse approfittato del suo ruolo. Ma i tribunali hanno sempre smentito l’accusa
3 Il tentativo di delegittimare Romano Prodi
Nel maggio 1993 Romano Prodi diventò nuovamente presidente dell’Iri, con il compito di privatizzarne alcuni settori. Ereditò un piano di vendita della Sme in tre blocchi. Nell’ottobre 1993 Prodi vendette il settore alimentare della Sme – Cirio-Bertolli-De Rica (Cbd) – alla Fis.Vi, un consorzio agricolo. Una clausola nel contratto di vendita con l’Iri concedeva alla Fis.Vi la possibilità di vendere la Bertolli (produttrice di olio d’oliva) alla Unilever, cosa che la Fis.Vi fece subito dopo. La Goldman Sachs svolgeva consulenze per conto della Unilever, società per la quale Prodi aveva lavorato come direttore per le consulenze internazionali dal 1990 al maggio 1993. Nell’ottobre 1993 Prodi vendette anche l’Italgel, il settore gelati della Sme, alla Nestlé.
Prodi lasciò l’Iri nell’aprile 1994, entrò in politica nel 1995 e ricoprì la carica di primo ministro dal 1996 al 1998. La privatizzazione della Sme fu completata nel 1996, al prezzo complessivo di 2.500 miliardi di lire. Gli ultimi settori venduti furono i supermercati Gs e la catena Autogrill.
Ben presto fu sollevato il sospetto che, se le società che facevano parte della Cbd fossero state vendute separatamente, l’Iri avrebbe ottenuto un prezzo migliore. Di conseguenza i magistrati italiani cominciarono a svolgere indagini sulla vendita e sul ruolo svolto da Prodi. Nel dicembre 1997 un giudice, nel corso di un’udienza preliminare, giunse alla conclusione che non si sarebbe dovuta formulare alcuna accusa perché “i fatti cui si è fatto riferimento non sussistono”. Lo stesso giudice dichiarò inoltre che l’Iri non aveva subìto alcuna perdita, che la Fis.Vi non ci aveva guadagnato, e che se la Cbd fosse stata venduta pezzo per pezzo l’Iri avrebbe ottenuto certamente di meno.
Ci furono analoghi sospetti a proposito della vendita dell’Italgel. Nel 1997 a Roma fu aperta una nuova indagine che si concluse nel marzo 1999 senza la formulazione di alcuna accusa perché anche in questo caso i fatti non sussistevano.
Alla fine del maggio 1999 Prodi diventò presidente designato della commissione europea, senza essere però ancora ufficialmente nominato, trattandosi di un iter piuttosto lungo. Il 12 giugno 1999 il Daily Telegraph, un giornale britannico, pubblicò un articolo sulle attività finanziare private di Prodi, seguito da altri due. Nel primo articolo si sosteneva che per la sua opera di consulenza nel 1991-1995, Prodi, mentre ricopriva incarichi pubblici, aveva ricevuto 1,4 milioni di sterline che non aveva dichiarato al fisco, in possibile violazione della legge italiana. Affermava inoltre che sia la Goldman Sachs sia la Unilever erano clienti di una società di consulenza (la Ase) di cui erano proprietari Prodi e sua moglie (la Unilever non era un cliente dell’Ase. Dal marzo 1990 fino al maggio 1993, quando non rivestiva incarichi pubblici, Prodi era stato consulente per Goldman Sachs. In totale negli anni 1991-1995 l’Ase ricevette 3,1 miliardi di lire da Goldman Sachs, compresi 1,45 miliardi di lire come premi pagati nel 1993 e nel 1994, ma relativi a periodi precedenti al maggio 1993).
Nel 1985 Fimiani ha fatto la propria offerta d’acquisto della Sme per suo conto, signor Berlusconi?
Secondo i magistrati italiani, l’articolo del Daily Telegraph insinuava che Prodi non aveva dichiarato al fisco questi 1,4 milioni di sterline. Sosteneva (a ragione) che i pagamenti ricevuti dalla Goldman Sachs erano nettamente aumentati nel 1993, ma affermava: “L’aumento dei pagamenti nel 1993 solleva sospetti perché Prodi [proprio quell’anno vendette la Cbd e] gli ex datori di lavoro di Prodi, Goldman Sachs [erano consulenti dei compratori]…. Il gruppo Cbd fu venduto per la metà del suo vero valore a una compagnia di facciata e poi immediatamente rivenduto almeno in parte a uno dei precedenti datori di lavoro di Prodi, …la Unilever (cliente della Ase)”. Il quotidiano Il Giornale, di proprietà di suo fratello Paolo Berlusconi, riprese alcune delle asserzioni espresse dal Daily Telegraph.
In seguito all’articolo del Daily Telegraph, alcuni magistrati di Bologna (dove si trova la sede centrale dell’Ase) chiesero alla guardia di finanza di aprire un’indagine per verificare se Prodi e la Ase avevano compilato in modo corretto la propria dichiarazione dei redditi. La guardia di finanza rispose in modo affermativo e anche i magistrati giunsero alla stessa conclusione.
I magistrati di Roma aprirono un’inchiesta per stabilire se i pagamenti ricevuti dalla Goldman Sachs potessero essere collegati alla vendita della Cbd. I magistrati conclusero che tutti i pagamenti di Goldman Sachs ad Ase erano legati soltanto al lavoro di consulenza di Prodi e che quest’ultimo aveva interrotto i propri rapporti con la Goldman Sachs nel maggio 1993. Nella loro relazione conclusiva sulle indagini, consegnata al giudice per le indagini preliminari e datata 11 marzo 2002, i magistrati romani dichiararono che le affermazioni fatte dal Daily Telegraph erano ripetute in Corruzione ad alta velocità, un libro scritto da Ferdinando Imposimato, un ex giudice italiano.
Imposimato disse ai magistrati che la sua fonte era Ambrose Evans-Pritchard, il giornalista del Daily Telegraph che aveva scritto gli articoli su Prodi. Imposimato riferì che Evans- Pritchard gli aveva mostrato due note, la prima datata 24 agosto 1993 e la seconda 26 novembre 1993, che egli stesso aveva poi citato nel suo libro. Secondo Imposimato, le due note avrebbero dimostrato la collusione tra Prodi, la Unilever e la Fis.Vi. Ma non possedeva nessuna copia di queste note. I magistrati dichiararono che Evans-Pritchard non aveva risposto alle loro domande e che non aveva mandato un memorandum sulle due note, come invece aveva promesso. Evans-Pritchard sostiene di non aver risposto alle domande dei magistrati perché, a suo giudizio, quegli stessi magistrati stavano soltanto perdendo tempo e non avevano nessuna intenzione di arrivare fino al fondo della questione.
Imposimato ha rivelato ai magistrati che era stato il signor Fimiani a dare le due note a Evans-Pritchard. Perciò i magistrati hanno concluso che “probabilmente” Fimiani era una delle due fonti di Evans-Pritchard. E hanno anche stabilito che i “fantomatici documenti”, apparentemente consegnati da Fimiani a Evans-Pritchard, erano stati quasi certamente “fabbricati ad arte”. Evans-Pritchard sostiene che i documenti in suo possesso comprovanti la collusione tra Prodi, la Unilever e la Fis.Vi non provengono dalle mani di Fimiani e che sono senza dubbio autentici.
Nella sua dichiarazione spontanea lei ha fatto riferimento alle testimonianze di Fimiani, e ha chiesto ai suoi avvocati di sottoporre alla corte la documentazione scritta fornita da Fimiani.
LE NOSTRE DOMANDE
• Il signor Fimiani, alla cui documentazione scritta e alla cui deposizione verbale lei ha fatto riferimento, è una fonte affidabile?
• È a conoscenza del fatto che Fimiani era stato condannato per “bancarotta fraudolenta” a Salerno il 12 novembre 1993?
• Sa che il tribunale penale di Salerno nel novembre 1993 ha sentenziato che Fimiani aveva “una responsabilità decisiva” nella bancarotta della Co.Fi.Ma?
• Sa che il 13 giugno 1995 Fimiani ha presentato una querela contro “ignoti” per abuso di ufficio? (Ha sostenuto che la bancarotta della Co.Fi.Ma era dovuta al bisogno di eliminare questa società dopo che lui era diventato un ostacolo per la vendita della Sme alla Buitoni nel 1985, effettuata per conto dell’Iri).
• Sa che i magistrati hanno indagato sui fatti relativi alla querela di Fimiani e che, nel marzo 1997, un giudice per le indagini preliminari ha chiuso l’indagine perché il “j’accuse” di Fimiani non aveva alcun fondamento?
• Nel 1985 Fimiani ha fatto la propria offerta di acquisto della Sme per suo conto, signor Berlusconi?
Nota dell’Economist. Abbiamo scritto questa sezione basandoci su documenti in italiano disponibili nel sito della presidenza della Commissione europea dal maggio 2003.
LE CIFRE DELLA SME
Berlusconi sostiene che impedendo la privatizzazione della Sme negli anni ottanta ha “fatto guadagnare allo stato cinque volte di più”. I conti dell’Economist
4 La medaglia d’oro
Lo scorso aprile, uscito dall’aula del tribunale di Milano, lei ha dichiarato alla stampa: “Ritenevo e ritengo ancora che al cittadino Berlusconi bisognerebbe riconoscere il merito di aver impedito la spoliazione del patrimonio dello Stato. Meritavo una medaglia d’oro per aver fatto guadagnare allo Stato cinque volte di più con la vendita della Sme”.
Le divisioni produttive scorporate dalla Sme furono vendute fra il 1993 e il 1996 a diversi acquirenti per un totale di circa duemila miliardi; nel 1985, la Buitoni aveva offerto di acquistarle per circa 500 miliardi di lire. Il rapporto è quindi di quattro a uno, e non di cinque a uno come lei ha sostenuto.
Ma per fare un paragone valido occorrono calcoli ben più complessi della semplice operazione aritmetica da lei proposta. Infatti il ricavato della mancata vendita sarebbe stato versato a rate, l’ultima delle quali sarebbe stata incassata nel dicembre del 1986. Anche il ricavato della privatizzazione effettivamente avvenuta in seguito è stato corrisposto al venditore in diverse tranche. Il processo di privatizzazione si è concluso verso la fine del 1996. Pertanto, per fare un paragone calzante, occorre prendere come punto di riferimento temporale il 31 dicembre 1996.
Ora, nel 1985-86 il governo italiano avrebbe potuto fare due cose diverse con il ricavato della vendita della Sme incassato a rate: o ridurre il debito pubblico, risparmiando così sugli interessi, oppure reinvestire in azioni: in fin dei conti, la Sme rappresentava un investimento azionario.
Per fare un paragone valido fra quelli che sarebbero stati i proventi della privatizzazione della Sme, qualora fosse avvenuta nel 1985-86, con quelli ricavati dalla vendita effettivamente verificatasi nel 1993-96, occorre ipotizzare che i proventi incassati a rate nel 1985-86 venissero investiti dalla data di incasso al 31 dicembre 1996.
Nel 1985 la vendita della Sme sarebbe stata la prima grande privatizzazione. Il ritardo ha danneggiato lo stato italiano
Ebbene, se il governo italiano avesse investito 500 miliardi di lire nel 1985-86 per ridurre il debito pubblico, avrebbe ridotto di oltre 1.100 miliardi di lire l’ammontare degli interessi dovuti fino al 31 dicembre 1996. Il totale, calcolato a scopo comparativo, è 1.600 miliardi di lire.
Il ricavato della vendita realizzata nel 1993-96 (circa duemila miliardi di lire) è stato effettivamente usato per ridurre il debito pubblico. Fino al 31 dicembre 1996, dovrebbe aver ridotto l’indebitamento dallo Stato italiano di circa 500 miliardi di lire. Dunque il valore comparativo totale della privatizzazione effettivamente realizzata si aggira sui 2.500 miliardi di lire.
In base a questo calcolo, la privatizzazione della Sme così come si è effettivamente svolta ha dato proventi maggiori di 1,5 volte rispetto a quelli che avrebbe dato la mancata vendita del decennio precedente.
Calcoli analoghi sono stati fatti per il rendimento che si sarebbe potuto prevedere se i proventi delle due diverse privatizzazioni, versati a rate, fossero stati investiti in un portafoglio azionario (calcolando ovviamente dalla data dell’incasso al 31 dicembre 1996). Secondo la teoria economica, come lei certamente saprà, per investire in azioni i risparmiatori pretendono un ritorno maggiore che per investire in obbligazioni, perché gli investimenti azionari sono più rischiosi. Supponendo che il premio per il rischio fosse modesto, diciamo del 3 per cento, in una proiezione ragionevole ci si sarebbe potuto attendere che i proventi della mancata vendita rendessero quasi 2.200 miliardi di lire entro la fine del 1996, mentre quelli della vendita effettivamente realizzata negli anni novanta dovrebbero aver fruttato quasi 2.700 miliardi. Di conseguenza, vendere la Sme negli anni novanta avrebbe assicurato al governo italiano un guadagno maggiore di appena 1,2 volte rispetto a quello della vendita non realizzata nel decennio precedente. Supponendo un premio per il rischio più elevato, diciamo del 6 per cento, si ha un guadagno maggiore di solo 1,1 volte.
Per giunta le due vendite erano assai diverse per natura, e diverse erano le condizioni prevalenti sul mercato nelle due fasi. Infatti, la vendita effettivamente avvenuta nel 1993-96 ha visto prima lo scorporo della Sme e poi la cessione delle sue divisioni a diversi acquirenti su un mercato di privatizzazioni ormai maturo. Nel 1985, invece, privatizzare avrebbe significato vendere alla Buitoni l’intero gruppo Sme. Ma insieme a questa, la Buitoni avrebbe avuto l’obbligo di acquistare anche una controllata, la Sidalm, che essendo prossima al fallimento avrebbe richiesto un’immediata ricapitalizzazione per 30 miliardi di lire. Inoltre, nel 1985 la vendita della Sme sarebbe stata la prima grande privatizzazione italiana. Il ritardo di questa privatizzazione (che a sua volta ne ha ritardate altre) ha danneggiato lo Stato italiano.
LA NOSTRA DOMANDA. Perché mai lei meriterebbe una medaglia d’oro?
Nota dell’Economist. La fonte dei calcoli contenuti in questo capitolo è www.lavoce.info, un sito italiano dedicato a temi di politica economica. Nel maggio scorso, sul sito è apparso un articolo a firma di Marco Pagano e Carlo Scarpa dal titolo: “Vendita Sme: il prezzo era giusto?”. Il 10 luglio www.lavoce.info ha poi pubblicato una versione aggiornata degli stessi calcoli, che contiene dati più esatti circa le scadenze delle varie tranche di pagamento, sia della mancata vendita del 1985-86, sia della privatizzazione effettivamente avvenuta nel 1993-96.
GLI ALTRI PROCESSI
Il finanziamento illecito ai partiti, la guardia di finanza, la Mondadori, il falso in bilancio, le rogatorie, la rete off-shore di Fininvest e il legittimo sospetto
5 Gli altri processi contro Berlusconi
Abbiamo preparato una lista delle accuse penali rivolte contro di lei a partire dall’inizio dello scandalo di Tangentopoli nel 1992. Abbiamo indicato le date di tutte le sentenze definitive dal 28 aprile 2001 a oggi.
La creazione di fondi neri significa necessariamente che i conti di un’impresa sono stati falsificati
Quasi tutti questi casi riguardavano un presunto uso di “fondi neri” da parte delle società del gruppo Fininvest. Per chiarezza con i nostri lettori, bisogna ricordare che i fondi neri non appaiono come tali sul foglio di bilancio dell’azienda, e il loro impiego non è segnalato nei registri di bilancio. Sebbene possa rimanere qualche traccia di fondi neri nei registri ufficiali, devono essere camuffati sotto altre forme. In altre parole, la creazione e l’occultamento di fondi neri significa necessariamente che i conti di una società sono stati falsificati. I fondi neri possono essere creati (e nascosti) in molti modi, spesso in paesi dove la proprietà delle imprese non è materia di pubblico dominio e dove vige un rigoroso segreto bancario.
Finanziamenti illeciti ai partiti
La legge italiana esige la trasparenza nelle sovvenzioni ai partiti, tanto da parte del donatore quanto del partito beneficiario. Nel 1991-1992 una società riservata off-shore della Fininvest, chiamata All Iberian, ha depositato, attraverso conti transitori, un totale di 23 miliardi di lire su conti off-shore controllati da Bettino Craxi.
Con una sentenza emessa il 22 novembre 2000 la corte di cassazione ha stabilito che le società facenti capo alla Fininvest hanno effettuato finanziamenti illeciti, e che lei ne è responsabile.
Prendendo questa decisione la corte ha affermato: “Le dichiarazioni di David Mackenzie Mills non sono la sola fonte che prova la sua responsabilità”. In altre parole, se ne può dedurre che il signor Mills, e anche varie altre persone, collegavano lei ai reati. Il signor Mills, un avvocato inglese, ha sposato nel luglio 1979 Tessa Jowell, che oggi è ministro nel governo di Tony Blair.
La cassazione non l’ha assolta, come lei aveva richiesto. Ha confermato il verdetto di colpevolezza espresso dal tribunale di primo grado di Milano, ma le ha concesso il diritto alla prescrizione. Di conseguenza lei, il signor G. Foscale e altre due persone, avete dovuto pagare le spese processuali per le udienze della corte di cassazione.
La Fininvest deve necessariamente avere occultato queste donazioni illecite.
LA NOSTRA DOMANDA. Quante volte lei ha parlato con il signor Mills?
Il processo alla guardia di finanza
Il 19 ottobre 2001 la corte di cassazione l’ha assolta dall’accusa di aver corrotto i funzionari della guardia di finanza perché chiudessero un occhio durante le ispezioni effettuate alla Mondadori, a Telepiù, a Mediolanum e a Videotime, quattro società di sua proprietà. Secondo suo fratello Paolo Berlusconi, le tangenti provenivano dai fondi neri di una società chiamata Edilnord.
Lei era stato riconosciuto colpevole dal Tribunale di primo grado di Milano. Affermando la sua colpevolezza, questa corte non ha dato alcun valore probatorio al suo incontro a palazzo Chigi, l’8 giugno 1994 (durante il suo primo mandato come presidente del consiglio), con Massimo Berruti, un ex ufficiale della guardia di finanza che aveva rassegnato le dimissioni nel novembre 1979.
Poiché non esistevano prove orali o documentarie della vostra colpevolezza, la corte di Milano, per raggiungere il suo verdetto, si è basata su un ragionamento deduttivo. La cassazione ha invece sostenuto che questo tipo di ragionamento era sillogistico. Suo fratello Paolo, che amministrava la Fininvest insieme a lei, ha ammesso di aver autorizzato le tangenti; ma la corte milanese l’ha assolto perché considerava le sue ammissioni non credibili. Nello stesso momento in cui suo fratello veniva assolto, lei risultava colpevole. Non c’era una via di mezzo.
La cassazione ha emesso sentenze definitive di condanna per corruzione nei confronti di due autorevoli ex manager della Fininvest. È stato condannato anche il signor Berruti, allora parlamentare di Forza Italia, un esperto di paradisi fiscali off-shore e consulente legale della Fininvest. Berruti aveva convinto Angelo Tanca, un importante funzionario della guardia di finanza, a non rivelare nulla ai magistrati a proposito della somma di 130 milioni di lire che era stata pagata nel 1991 a vari funzionari della guardia di finanza in cambio di un trattamento fiscale di favore alla Mondadori, che proprio in quell’anno lei aveva acquistato. La cassazione ha emesso sentenze definitive di condanna nei confronti dei funzionari della guardia di finanza, compreso il signor Tanca, in altri processi.
Nel luglio 2001 il Tribunale di primo grado di Milano ha stabilito che Marinella Brambilla, sua segretaria da lunga data, insieme a un’altra delle sue segretarie, aveva mentito sotto giuramento deponendo davanti alla corte. Lo aveva fatto mentre testimoniava in uno dei processi che coinvolgevano i funzionari della guardia di finanza. Aveva affermato che lei non aveva incontrato il signor Berruti l’8 giugno 1994, e che non aveva avuto nulla a che fare con lui.
Come faceva a non sapere delle tangenti pagate agli ispettori fiscali che chiusero un occhio sulla Mondadori?
Poco dopo il vostro incontro dell’8 giugno 1994, il signor Berruti si recò da Alberto Corrado, un suo ex collega, per chiedergli un favore (il signor Corrado aveva accompagnato Berruti durante l’ispezione fiscale nei vostri uffici nel novembre 1979; si veda la sezione 6: “La fondazione della Fininvest”). Il signor Berruti desiderava che Corrado parlasse con Tanca, e che gli chiedesse di tacere a proposito delle tangenti. Tanca non disse nulla per un mese. Secondi i giudici del caso Brambilla, Berruti disse a Corrado che le indagini dei magistrati sulla Mondadori “avrebbero potuto toccare gli interessi del primo ministro”.
I giudici conclusero che Berruti aveva chiesto a Corrado di domandare a Tanca di tacere davanti ai magistrati. La Cassazione giunse alla stessa conclusione anche nel caso che la riguarda, ossia che c’erano buoni motivi per ritenere che il silenzio di Tanca e le presunte richieste di Berruti erano collegate.
I giudici del caso Brambilla conclusero anche che, oltre alle persone accusate delle tangenti per la Mondadori, soltanto lei aveva la possibilità di fornire le informazioni necessarie per mandare Corrado a convincere Tanca di tacere. La deduzione logica è che soltanto lei avrebbe potuto informare Berruti sulla corruzione di Tanca, dato che il primo coinvolgimento diretto di Berruti in questa vicenda era stato l’incontro avuto con lei l’8 giugno 1994.
La corte d’appello di Milano ha confermato il verdetto di colpevolezza nel giugno 2002.
Quanto ai contatti tra lei e Berruti, i magistrati hanno scoperto che Berruti le ha telefonato almeno sessanta volte durante i primi sei mesi del 1994, compresa una chiamata di otto minuti il 4 maggio 1994 alle 12:03.
LA NOSTRA DOMANDA. Come faceva a non sapere delle tangenti pagate agli ispettori fiscali che chiusero un occhio sulla Mondadori?
La vicenda Mondadori
Nel 2000 lei è stato accusato di aver corrotto il giudice della corte d’appello, Vittorio Metta, con circa 400 milioni di lire in contanti. L’accusa era che Metta avesse emesso una sentenza che la favoriva in un caso che doveva decidere sull’esito della sua battaglia con De Benedetti per il controllo della Mondadori.
Nel febbraio 1991, un mese dopo la sentenza di Metta, la All Iberian ha depositato circa tre miliardi di lire su un conto bancario (chiamato Mercier) appartenente al signor Previti presso la Darier Henscht & Cie a Ginevra. La All Iberian effettuò il pagamento per mezzo di un conto transitorio in Svizzera chiamato Ferrido. I magistrati rintracciarono un pagamento di 435 milioni di lire fatto dal conto di Previti su un altro conto svizzero appartenente a un altro avvocato, Attilio Pacifico, che nell’ottobre 1991 ritirò oltre 400 milioni di lire in contanti. Pacifico consegnò in Italia e in contanti la tangente a Metta. Sebbene i magistrati non avessero trovato una prova diretta del pagamento in contanti fatto da Pacifico a Metta, erano convinti di avere forti argomenti basati su prove indirette. Il controllo dei conti bancari di Metta dimostrò che non era stato fatto nessun prelievo in contanti per una somma di 400 milioni di lire nell’aprile 1992, quando Metta aveva firmato un contratto per l’acquisto di un appartamento e aveva pagato 400 milioni in contanti.
Nessun risultato concreto ebbero anche le indagini sui conti bancari svizzeri e italiani di Orlando Falco, un ex giudice di Roma, il quale, secondo Metta, gli aveva dato i 400 milioni in contanti. I conti di Falco, tuttavia, avevano contenuto 5-6 milioni di franchi svizzeri (in quel momento pari a 3,5-4,2 milioni di dollari).
Sebbene i magistrati non avessero trovato prove dirette del pagamento in contanti fatto a Metta, anche in questo caso erano convinti di avere a propria disposizione importanti prove indirette. Tuttavia, nel giugno 2000 il giudice per le indagini preliminari di Milano, Rosario Lupo, concluse che non c’erano prove sufficienti per dimostrare che Metta aveva ricevuto una tangente. Perciò decise che lei e i suoi coimputati, i signori Metta, Pacifico e Previti, non dovevate rispondere di nulla.
Nonostante ciò, il giudice non aveva alcun dubbio sul percorso seguito dal denaro. “Questi sono gli elementi di prova che permettono di essere assolutamente certi sui legami della Fininvest con la All Iberian, con il conto Ferrido e con il passaggio del denaro al conto Mercier di Cesare Previti, prima attraverso il conto della All Iberian e poi attraverso Ferrido”, ha scritto il giudice. La cosa non sorprende affatto. Dopotutto, il denaro trasferito dalla All Iberian al conto Ferrido proveniva proprio dallo stesso conto bancario usato dalla All Iberian per versare finanziamenti illeciti a conti bancari controllati da Bettino Craxi. La All Iberian risulta essere una società off-shore usata dalla Fininvest come una sorta di cassaforte estera segreta per effettuare una serie di operazioni finanziarie con lo scopo di farle apparire come se fossero svolte con una terza parte, nascondendo ogni legame diretto con la Fininvest”, ha aggiunto il giudice.
I magistrati hanno fatto ricorso contro il verdetto del giudice per le indagini preliminari. Il 12 maggio 2001, alla vigilia delle elezioni che l’hanno riportato al potere, la corte d’appello di Milano ha stabilito che il suo reato – derubricato da corruzione dei giudici in corruzione semplice – era caduto in prescrizione, ma non l’ha assolta, come lei aveva richiesto. Una legge che era in vigore tra il 1990 e il 1992 stabiliva che il pagamento di tangenti, se fatto indirettamente attraverso un intermediario, non veniva considerato un’aggravante del reato di corruzione, come avveniva invece nel caso di un pagamento diretto. Di conseguenza il diritto alla scadenza dei termini di prescrizione è stato applicato a lei prima che ad altri, che hanno dovuto affrontare un processo.
Perché c’era bisogno di una nuova legge sulle rogatorie? Quanto sapeva lei della rete di società off-shore della Fininvest?
La corte d’appello ha riscontrato anche diverse circostanze attenuanti che hanno escluso una sua imputazione. Tra queste c’era il fatto che qualsiasi altro uomo d’affari avrebbe potuto essere scoperto mentre corrompeva i giudici, dato che per molto tempo c’era stata una corruzione sistematica all’interno del Tribunale di Roma, nonché il fatto che lei era il leader dell’opposizione. Il verdetto della cassazione è stato lo stesso, anche se con motivazioni leggermente diverse.
Il 29 aprile 2003 il tribunale di primo grado di Milano ha dichiarato Previti e Pacifico colpevoli di corruzione nei confronti di Metta al fine di ottenere una sentenza a lei favorevole. Metta è stato riconosciuto colpevole di aver accettato una tangente. Previti è stato condannato a 11 anni di reclusione (compresi quelli comminati in un altro processo per corruzione dei giudici) e Metta a 13 anni (compresi quelli relativi a una sentenza di condanna in un processo parallelo per aver ricevuto una tangente attraverso Previti). Contro questo verdetto si potrà ricorrere in appello non appena saranno pubblicate le motivazioni scritte della sentenza.
LA NOSTRA DOMANDA. In attesa dei risultati definitivi di ogni eventuale appello, quale altra conclusione si può trarre da questi tre verdetti, se non che lei ha commissionato il pagamento di tangenti al signor Metta per ottenere in cambio vantaggi personali?
Il 17 giugno 2003 lei ha detto: “Ho già avuto l’opportunità di dichiarare pubblicamente che ero a conoscenza della situazione di Pacifico, cioè del fatto che dirigeva un ufficio di import-export di denaro gravitante attorno agli uffici del tribunale di Roma, frequentato da impiegati, da giudici e da avvocati: erano questi i suoi clienti”.
LA NOSTRA DOMANDA. Quando ne è venuto a conoscenza?
Falsi in bilancio (1)
Seguendo le indicazioni venute dalle loro indagini sui conti bancari controllati da Craxi, i magistrati hanno alla fine scoperto una rete segreta e molto sviluppata di società della Fininvest, con sede nelle Bahamas, nelle Isole Vergini Britanniche e nelle Isole del Canale. Decine di miliardi di lire erano passate attraverso conti bancari intestati a queste società.
Nella loro ricerca dei fondi neri della Fininvest, i magistrati hanno inviato richieste di collaborazione alle autorità straniere (richieste chiamate “rogatorie” in italiano), soprattutto in Svizzera, dove si trova una buona parte dei conti segreti. Si è trattato di una procedura lunga, che ha coinvolto l’apparato giudiziario, i ministeri e le ambasciate di entrambi i paesi, nonché le banche dove si conservano le prove dei presunti reati.
L’8 e il 24 marzo 1995, i magistrati hanno inviato rogatorie in Svizzera. Il 10 aprile 1995 Tanya Maynard allora direttore della Cmm Corporate Services (Cmm), ha chiesto a coloro che in Svizzera avevano in mano la documentazione relativa alla rete di imprese della Fininvest di inviarla a Londra. La Cmm era una società registrata in Inghilterra, fondata nel 1982 con il nome di So.Ge.S International. Il cambiamento di nome avvenne nel 1989, e la Cmm è stata poi sciolta nel 1997.
Secondo i registri della società, il proprietario della Cmm nell’aprile 1995 era la Edsaco Holdings Ltd., un’affiliata della Ubs, una banca svizzera che aveva comprato la Cmm nel giugno 1994 per 750mila sterline. Uno dei più stretti collaboratori della Maynard alla Cmm, l’avvocato Mills, marito di Tessa Jowell, aveva ricevuto 675mila sterline per la vendita delle sue azioni della Cmm. Due mesi prima di venderle aveva aumentato la sua quota azionaria nella Cmm fino al 90 per cento, acquistando un 65 per cento di azioni da una società milanese controllata dallo Studio Carnelutti, uno studio legale di Milano. Il signor Mills rimase socio della Carnelutti & Co., l’affiliata londinese dello studio milanese, fino al 1988, quando avviò un’attività in proprio. Mills e la società dello Studio Carnelutti avevano costituito la Cmm con lo scopo di usarla come una compagnia che offriva servizi per amministrare altre società. In altre parole, era in parte un’operazione di facciata.
I magistrati italiani richiesero al Serious Fraud Office (Sfo) di Londra di poter esaminare la documentazione già trasferita dalla Svizzera. Nell’ottobre 1996 lei ha presentato una petizione all’Alta Corte di Londra per impedirgli di ottenere questi documenti. I magistrati ne avevano bisogno come prove nella vicenda sui finanziamenti illeciti a Craxi, mentre lei affermava che il presunto reato era di carattere politico. “Non posso considerare dei finanziatori corrotti della politica… come ‘prigionieri politici’”, ha concluso Simon Brown, il giudice al quale era stato affidato il caso; ma, alla fine della sua sentenza, ha anche aggiunto che le sue parole non dovevano “sollevare alcuna presunzione di colpevolezza”.
Riguardo alle istruzioni date da Maynard ai possessori della documentazione di cui si è parlato sopra, Simon Brown ha detto: “Se anche vi fosse una spiegazione onesta di questa vicenda, per il momento non è stata ancora fornita”. Nella richiesta di perquisizione presentata dalla Sfo, un autorevole funzionario di questo organismo ha detto: “Le persone alla guida della Cmm/Edsaco devono essere consapevoli del fatto che il modo in cui hanno amministrato le proprie società è illegale e che può esporli a un’accusa penale in Italia”. Il signor Mills nega ogni tipo di reato.
A proposito del caso Sme, Mills ha testimoniato a suo favore nel corso di un’udienza tenutasi a Londra nel marzo 2003. Alla domanda su quando era cominciato il suo rapporto professionale con la Fininvest, Mills ha risposto nel 1989 o nel 1990, negando l’esistenza di qualsiasi genere di rapporto già nel 1981 o nel 1982.
Sulla base di un confronto con la documentazione della società in Inghilterra, queste affermazioni sono risultate false. Mills sostiene che si è trattato di un “errore di memoria”. Nel marzo 1980 Mills ha fondato Reteitalia Ltd in Inghilterra, come un’affiliata al 90 per cento di Reteitalia Srl, la sua società di diritti cinematografici e televisivi, fondata in Italia quello stesso anno. La Fininvest Srl possedeva il restante 10 per cento. In altre parole, Reteitalia Ltd era una società della Fininvest. Tra il maggio 1981 e il settembre 1983, lei stesso è stato uno dei suoi quattro direttori, che erano tutti residenti in Italia. Mills è stato il segretario generale di Reteitalia Ltd dal momento della sua costituzione fino al 1989, quando il controllo fu assunto dalla Cmm.
Nel 1985 Mills fondò in Inghilterra anche Publitalia International Ltd a nome della Fininvest, e firmò il documento che nominava direttore Marcello dell’Utri, un suo intimo amico. Nel 1986 Reteitalia Ltd cambiò il proprio nome in Reteeuropa Ltd, della quale lo stesso Mills divenne direttore. Questa società cambiò il proprio nome in Reteitalia (UK) Ltd nel 1988, e poi nuovamente in Reteitalia Ltd nel 1990.
Con “Gruppo B” si indicavano le società della Fininvest che non dovevano apparire come imprese del gruppo
La prima Reteitalia Ltd (ossia quella che divenne Reteeuropa Ltd) acquistava diritti cinematografici da terzi, che poi vendeva ad altre società di sua proprietà. Era un trucco per evadere le tasse. Tra il marzo 1980 e il dicembre 1987, Reteitalia/ Reteeuropa Ltd realizzò 75 milioni di dollari di guadagni complessivi, che non potevano essere tassati in Inghilterra in quanto la società era considerata non residente in quel paese da un punto di vista fiscale. Ciò derivava dal fatto che, sebbene registrata in Inghilterra, non svolgeva la propria attività in Inghilterra, e i suoi proprietari e direttori non avevano residenza nel paese. Dopo che nel 1988 alcuni cambiamenti delle leggi fiscali britanniche avevano eliminato la possibilità di questo stratagemma per evadere le tasse, Reteeuropa Ltd vendette nel 1989 tutti i suoi diritti cinematografici e poi, nel 1990, ridusse notevolmente il volume delle sue attività. Tra il 1989 e il 1990, dopo il cambiamento delle norme fiscali, subì una perdita complessiva di 53 milioni di dollari.
Anche la seconda Reteitalia Ltd comprava e vendeva diritti cinematografici, ma, a differenza della prima, svolgeva la propria attività in Inghilterra e aveva tra i suoi direttori alcuni inglesi, tra i quali lo stesso Mills. Era perciò sottoposta alla tassazione inglese, e realizzò guadagni molto esigui, seguiti da perdite nel 1990. Anche questa società ha venduto tutti i suoi diritti cinematografici nel 1989.
Di fatto, nel 1990, secondo la Kpmg, le società che si occupavano dell’acquisto e della vendita dei diritti cinematografici non erano più registrate in Inghilterra. Erano adesso registrate in località off-shore molto più esotiche, come le Isole Vergini Britanniche. In particolare, le due società registrate in quest’ultimo paese, ossia Century One Entertainment e Universal One, si occupavano di acquistare da terzi diritti che venivano poi venduti alle sue società italiane.
Queste sono soltanto due delle 29 imprese che fanno parte del “Gruppo B” della Fininvest. L’espressione “Gruppo B” era usata per “distinguere le società ufficiali del Gruppo A da quelle che, sebbene controllate anch’esse dalla Fininvest, non dovevano apparire come società del gruppo, ma essere tenute fuori dai bilanci consolidati”, ha riferito Mill ai magistrati. Sui tabulati della Cmm relativi a ognuna delle società del Gruppo B, c’era la scritta “molto riservato”, una sorta di memorandum a mantenere segreto il legame con il gruppo Fininvest.
Nessuna delle 29 società disponeva di propri impiegati o di una propria infrastruttura amministrativa. Le società fiduciarie operavano come agenti fiduciari per le azioni della società (che erano soprattutto del tipo al portatore) e importanti istituzioni finanziarie nelle Bahamas, in Inghilterra, a Jersey, in Lussemburgo e in Svizzera agivano come banche. Il signor Mill ha sostenuto di essere il titolare beneficiario di tre delle 29 società. Il signor Foscale, suo cugino, è stato presentato come il titolare beneficiario della All Iberian.
I rappresentanti della Cmm hanno svolto la funzione di segretari generali per 17 delle 29 società. La signora Maynard è stata direttore di Century One Entertainment e di Universal One, e anche della All Iberian. Mills ha detto ai magistrati milanesi che la Fininvest amministrava, dirigeva e finanziava le operazioni del gruppo All Iberian. In altre parole, la Cmm faceva da intermediario per la Fininvest con i banchieri e gli agenti fiduciari delle società del gruppo B.
La All Iberian fu fondata a Jersey, una delle Isole del Canale, nel maggio 1988. Sei direttori della All Iberian, quasi tutti più che sessantenni nel 1988, avevano residenza sull’isola di Sark, che si trova sotto la giurisdizione di Guernsey, un’altra delle Isole del Canale. Nel 1998 un autorevole funzionario del ministero del tesoro inglese redasse un rapporto sulle regolamentazioni finanziarie in vigore nelle Isole del Canale. Consigliava un intervento deciso e severo contro la “burla di Sark”, la quale consisteva nell’uso da parte di società non residenti, come la All Iberian, di direttori nominali (ossia fasulli) residenti a Sark, dove non erano sottoposti a regolamentazioni. Il suo rapporto stimava che nel 1997 i 575 residenti di Sark detenevano circa 15mila cariche di amministratore di società. Secondo la Kpmg, i direttori della All Iberian (a eccezione della signora Maynard) possedevano altre 24 cariche di amministratore delle società del Gruppo B, mentre Mills era direttore di una società del Gruppo B e firmatario di conti bancari per altre sette.
In riferimento all’acquisto dei diritti cinematografici, Mills ha così dichiarato ai magistrati nel 1997: “Tutte le operazioni condotte con gli studios venivano organizzate dalla Fininvest Service SA di Lugano. Ho fornito consulenze legali sulla natura dei contratti con gli studios. Avrò firmato centinaia di questi contratti nel mio ufficio di Londra. Una volta firmati, e senza tenerne una copia, li trasmettevo direttamente negli uffici del Fininvest Service di Lugano. Non ho mai preso parte ad alcuna negoziazione”.
La Fininvest Service fu fondata (con azioni al portatore) a Lugano nel novembre 1968 come una società di diritti cinematografici e televisivi, sotto il nome di Telecineton SA. Per tutti i suoi primi tredici anni di attività la compagnia ebbe un solo direttore: un avvocato svizzero. Che era anche il solo direttore della società svizzera, costituita nell’ottobre 1968 a Lugano, che stava dietro l’Edilnord, la principale società costruttrice di Milano 2 (si veda la sezione 6: Milano 2).
Già nel 1981 la società aveva ormai cambiato la sua sfera di attività, dedicandosi a servizi di contabilità e di tipo amministrativo per altre società. E nel 1985 si era trasferita da Lugano in un’altra città svizzera. Aveva anche cambiato il suo nome per ben tre volte: dall’originario Telecineton SA in Open Sa nel 1979, in Open Services SA nel 1981 e infine in Fininvest Service SA nel 1986.
La Kpmg ha scoperto che un certo numero di società in entrambi i gruppi A e B hanno cambiato i loro nomi nello stesso periodo, in particolare nel 1981. E, nel corso degli anni, ci sono state società nei due gruppi con nomi identici o molto simili. Per esempio, la Fininvest aveva tre società registrate in Inghilterra chiamate Libra Communication Ltd. o Libra Uk Communications Ltd., e un società registrata a Malta chiamata Libra Communications Ltd.
Secondo la Kpmg, tra il 1990 e il 1995 le società del gruppo Fininvest acquistarono diritti cinematografici dalle società del gruppo B per un totale di 886 milioni di dollari. Ciò procurò guadagni e disponibilità di denaro al gruppo B della Fininvest. La Kpmg ha descritto anche altre operazioni per dare alla All Iberian disponibilità di fondi. Lei è stato coinvolto in una di queste operazioni, chiamata Mandato 500. La descrizione che segue si basa sulle venti pagine dedicate dal rapporto della Kpmg a questa operazione.
Tra il luglio del 1991 e il maggio del 1993, lei ha amministrato un conto fiduciario chiamato Mandato 500 con la Fiduciaria Orefici, una società finanziaria con sede a Milano, per la quale Giuseppe Scabini, il tesoriere centrale della Fininvest, aveva diritto di firma a suo nome. Lei ha procurato circa 91 miliardi di lire per Mandato 500 vendendo la metà delle sue 23 società della Holding Italiana a una società chiamata Nodit. I fondi ricevuti dalla Nodit furono impiegati per comprare titoli al portatore del governo italiano, la maggior parte dei quali furono collocati in una cassetta di sicurezza presso la Banca provinciale lombarda. Un ex importante direttore esecutivo della Fininvest disse a un impiegato di banca che i titoli al portatore servivano a finanziare il sistema politico.
Perché c’era bisogno di una nuova legge sul falso in bilancio? E di una nuova legge sul legittimo sospetto?
Circa 65 miliardi di lire in titoli furono trasferiti nella Repubblica di San Marino, usando una società di trasporto che venne pagata in contanti e che non inserì questo pagamento nel suo bilancio. Questi titoli vennero riscossi a San Marino. Altri 10 miliardi vennero incassati per mezzo di istituzioni con sede in Italia. Dei circa 90 miliardi coinvolti nell’operazione Mandato 500, 60 miliardi furono infine trasferiti in Svizzera, mentre i restanti 30 dovrebbero essere rimasti a sua disposizione.
Una somma complessiva di circa 26 miliardi venne portata dagli spalloni (gli esportatori clandestini di capitali) in Svizzera, dove il denaro venne depositato sul conto bancario della All Iberian nel 1991. Nello stesso periodo, con una serie di operazioni, vennero accreditati sul conto bancario della All Iberian altri 27 miliardi di lire.
Nel 1991 la All Iberian prese da questo conto circa tre miliardi di lire per la tangente pagata al giudice del caso Mondadori, nonché 21 miliardi per finanziare le donazioni a Craxi.
LA NOSTRA DOMANDA. Quanto sapeva lei della rete off-shore della Fininvest?
La legislazione sul falso in bilancio
Nel settembre 2001 la sua coalizione di governo ha approvato una legge che riduceva la gravità del reato di falso in bilancio, anche se alcuni dei cambiamenti sono diventati effettivi soltanto nell’aprile dell’anno successivo. In assenza di circostanze aggravanti, il falso in bilancio di società private, come il suo gruppo Fininvest, cade in prescrizione dopo quattro anni e mezzo e anziché dopo 15 anni, come previsto dalla vecchia legislazione. In conseguenza della nuova legislazione le è stato accordato il diritto alla prescrizione in tre cause di falso in bilancio, appunto perché il presunto reato era ormai caduto in prescrizione.
Lei è stato anche accusato di falso in bilancio a proposito del caso Sme. Nel settembre 2002, i magistrati che si occupavano del caso Sme hanno affermato che le nuove leggi sul falso in bilancio promulgate dal suo governo non rispettavano le direttive europee. Queste direttive richiedono agli stati membri dell’Ue di stabilire pene appropriate quando una società non rende pubblici i propri bilanci. Secondo i magistrati, se si prevedono già delle pene per un caso di questo genere, a maggior ragione ce ne devono essere, ancora più severe, quando i bilanci resi pubblici sono falsi. La questione è stata sottoposta alla Corte di giustizia europea, che potrebbe impiegare fino a due anni prima di giungere a una decisione finale. I magistrati hanno sottoposto alla stessa corte uno dei casi di falso in bilancio della Fininvest, e l’altro l’hanno sottoposto alla corte costituzionale italiana.
A meno che i magistrati abbiano successo e la legge venga cambiata, le prove fornite dal rapporto della Kpmg (e quelle da esso deducibili) non verranno esaminate in tribunale. Recentemente il ministro della giustizia ha avviato una verifica delle somme di denaro spese dai magistrati in consulenze legali esterne, come quelle fornite dalla Kpmg.
LA NOSTRA DOMANDA. Perché c’era bisogno di una nuova legge sul falso in bilancio?
La legge sulle “rogatorie”
Il 3 ottobre 2001 il parlamento italiano ha ratificato un accordo tra l’Italia e la Svizzera sull’assistenza giudiziaria. In quello che avrebbe dovuto essere una semplice formalità legislativa sono state incluse parecchie clausole, una delle quali stabilisce che le testimonianze ottenute per mezzo delle rogatorie non possono essere accettate a meno che i documenti siano originali, o autenticati con bolli ufficiali in ogni pagina di ogni documento.
Secondo i suoi avvocati, in base a questa legge una corte dovrebbe considerare inaccettabili documenti privi di bollo. La legge è valida per tutti i processi, in qualunque fase del loro svolgimento. Lei ha firmato la legge il 4 ottobre, il presidente Carlo Azeglio Ciampi il giorno dopo, e il 6 ottobre, un sabato, è stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale.
Le autorità svizzere sono state comprensibilmente infastidite dall’uso politico che il suo governo ha fatto dell’accordo sulla cooperazione giudiziaria. Non vedevano come fosse possibile continuare a collaborare. Tanto per cominciare, se le registrazioni delle transazioni bancarie si trovavano negli archivi digitalizzati delle banche elvetiche, una loro stampa avrebbe rappresentato un originale o soltanto una copia?
I suoi avvocati nel processo Sme, che erano membri della commissione parlamentare istituita per esaminare la legge sulle rogatorie, hanno fatto ben presto richiesta affinché le prove ottenute con le rogatorie fossero considerate inaccettabili. Non molto tempo dopo, tuttavia, il Tribunale di Milano ha rifiutato la sua richiesta. In termini generali, la decisione stabiliva che i precedenti trent’anni di prassi internazionale avrebbero determinato l’ammissibilità delle prove. Una lettera firmata da un magistrato straniero in accompagnamento a documenti inviati dall’estero avrebbe continuato a essere sufficiente per garantire l’autenticità di questi documenti.
LA NOSTRA DOMANDA. Perché era necessaria una legge sulle rogatorie?
Legittimo sospetto
Il 5 novembre 2002, dopo una maratona di due settimane in Senato, è stata approvata la legge sul cosiddetto “legittimo sospetto”. Il presidente Ciampi l’ha firmata il 7 novembre, ed è stato pubblicata sulla Gazzetta ufficiale la stessa sera.
Gli avversari, compresa l’opposizione parlamentare nonché autorevoli giuristi, hanno sostenuto che queste norme avevano il preciso scopo di fermare il processo Sme, l’ultimo processo che lei deve ancora affrontare. Un ritardo nelle procedure avrebbe avvicinato la scadenza dei termini di prescrizione e permesso di far passare altre leggi.
Il Consiglio superiore della magistratura (Csm), l’organo di autogoverno governo della magistratura italiana, ha il dovere costituzionale di esprimere le sue opinioni sulle leggi che riguardano le questioni giudiziarie. Una commissione del Csm, dopo aver sollevato numerose obiezioni alla legge, sperava di far accettare a tutto il Consiglio la propria posizione prima che le norme entrassero in vigore. Ma non ci è riuscita, perché cinque membri del Csm, nominati dalla sua coalizione, hanno abbandonato l’incontro, privandolo così del quorum necessario per una votazione.
Nel marzo 2002 lei ha chiesto che il processo Sme fosse trasferito da Milano a un’altra sede. Ha affermato, tra le altre cose, che il Tribunale di Milano non aveva un atteggiamento imparziale e che la situazione dell’ordine pubblico impediva che il processo Sme potesse svolgersi a Milano in condizioni di serenità.
La corte di cassazione ha rinviato la questione alla corte costituzionale nel maggio 2002. A quest’ultima corte spettava di decidere se ci fosse un vuoto legislativo sul problema del legittimo sospetto, come sostenevano i suoi avvocati. Dieci giorni dopo l’approvazione della legge sul legittimo sospetto la Corte costituzionale ha emesso un’ordinanza in cui si dichiara la questione non ammissibile.
LA NOSTRA DOMANDA. Perché c’era bisogno di una legge sul legittimo sospetto?
Il problema del trasferimento del suo processo da Milano ad altra sede doveva ancora essere risolta. Il 28 gennaio 2003 la cassazione ha stabilito che lei non aveva nessun motivo per dubitare che a Milano non avreste avuto un giusto processo.
(1) Nota dell’Economist. Abbiamo redatto questa sezione basandoci su una relazione della Kpmg sulla rete di società off-shore della Fininvest e sui suoi conti bancari tra il 1990 e il 1995. La Kpmg – una delle quattro principali società di consulenza aziendale nel mondo – l’ha redatta per conto della procura di Milano. Secondo il rapporto, la Kpmg ha avuto accesso a migliaia di documenti e alle trascrizioni degli interrogatori di 127 persone in 233 audizioni, incluso Silvio Berlusconi il 13 dicembre 1994. Il rapporto della Kpmg, di cui abbiamo ottenuto una copia nell’aprile 2001, era di centinaia di pagine. Inoltre l’Economist ha fatto ricerche sulle imprese di proprietà della Fininvest e registrate in Gran Bretagna tra il 1980 e il 1990.
STORIA DI UN’IMPRESA
La ricostruzione della carriera di Silvio Berlusconi, prima imprenditore edile poi editore televisivo, e delle persone che lo hanno affiancato in questi anni
6 Primi passi da imprenditore
Negli anni settanta il suo miglior successo fu Milano 2, il grande complesso di uffici e appartamenti di Segrate, alla periferia di Milano. Nel 1970, in testa alla sua piccola squadra di fedelissimi, aveva appena cominciato a costruire Milano 2. Alla fine del decennio il complesso era già finito.
Tuttavia, non c’era alcuna traccia di lei negli archivi del principale costruttore, una società in accomandita semplice denominata Edilnord Centro Residenziale di Lidia Borsani (Edilnord). I successivi soci gerenti della Edilnord furono sua cugina (Lidia Borsani), la madre di lei (sua zia), e un dipendente della Edilnord, Umberto Previti. Il padre del suo amico Cesare Previti, che all’epoca era un avvocato romano poco conosciuto, diventò il liquidatore della Edilnord nel gennaio del 1978, quando fu messa in liquidazione volontaria.
Né c’era traccia di lei negli archivi della Società Generale Attrezzature di Walter Donati (Sogeat), la ditta che sviluppò la parte commerciale di Milano 2. Anche la Sogeat era una società in accomandita semplice. Il suo socio gerente era Walter Donati, un commercialista milanese che diventò direttore di molte società collegate alla Fininvest.
Nel 1970 aveva appena cominciato acostruire Milano 2. Alla fine del decennio il complesso era già finito
Eppure, assieme a suo padre, Luigi Berlusconi, tra il 1973 e il 1977 lei fece da garante alla Edilnord per un prestito di almeno 6,9 miliardi di lire da parte di una banca italiana, la Banca Popolare di Novara (Bpn). Inoltre nel 1976-77 foste garanti di Sogeat presso la Bpn, per 4,7 miliardi di lire. E nel 1978 lei garantì personalmente per un prestito di tre miliardi alla Sogeat.
Sia la Sogeat sia la Edilnord erano controllate da società registrate in Svizzera con direttori prestanome, e le azioni di queste società svizzere erano al portatore. Un documento interno di uno degli istituti che le avevano concesso i prestiti, datato dicembre 1976, dimostra che la banca era convinta che il proprietario fosse lei. La cosa non era affatto sorprendente. Altrimenti la banca non avrebbe avuto sufficienti garanzie per accordare il prestito.
Negli anni settanta in Italia erano in vigore norme molto rigide sul controllo dei cambi – le pene previste per chiunque le violasse erano severissime. Le società svizzere che erano dietro alla Edilnord e alla Sogeat furono molto meticolose nel richiedere alla banca d’Italia il permesso di trasferire in Italia quattro miliardi di lire tra il 1968 e il 1975 per aumentare il loro capitale azionario. La Banca d’Italia glielo accordò a condizione che tutti i profitti della Edilnord e della Sogeat al netto delle tasse fossero versati alle società d’origine in Svizzera.
La società svizzera che era dietro alla Edilnord, suo fratello Paolo e lei stesso, avevate un conto presso la Banca Rasini, una banca poco nota con una sola filiale (a Milano), in cui suo padre, ormai in pensione, aveva lavorato per quasi tutta la vita.
Oggi la finanziaria al vertice del suo impero commerciale di famiglia è la Fininvest. L’azienda progenitrice della Fininvest è una società chiamata Finanziaria di Investimento Fininvest Srl (Fininvest Srl), registrata a Roma nel marzo del 1975. Giancarlo Foscale, suo cugino, era il suo unico direttore. Nel 1975, sia Umberto Previti che suo figlio Cesare entrarono a far parte del collegio dei revisori dei conti della Fininvest Srl. Foscale scelse due società fiduciarie come intestatarie ufficiali delle azioni: la Saf e Servizio Italia, entrambe di proprietà della Banca Nazionale del Lavoro (Bnl), che all’epoca era controllata dallo stato. Di solito è il proprietario, o qualcuno che agisce a suo nome, che affida un mandato a delle fiduciarie. Usando una società fiduciaria, che compare come intestataria delle azioni, un proprietario può rimanere anonimo. Negli anni settanta in Italia questa pratica era molto comune.
Prima della legge contro il riciclaggio del 1991, il proprietario di azioni intestate a una fiduciaria poteva venderle e incassare direttamente dal compratore grazie alle cosiddette transazioni “franco valuta”, con le quali il denaro non passava attraverso la fiduciaria. Quest’ultima eseguiva semplicemente un trasferimento di azioni dietro richiesta del proprietario e non maneggiava direttamente il denaro. In una transazione franco valuta, la società fiduciaria aveva solo la garanzia del proprietario che questi aveva venduto le proprie azioni.
Un’altra progenitrice della Fininvest è Fininvest Roma Srl. Umberto Previti fu il suo unico direttore fino al 1979
Nel maggio del 1975 gli azionisti della Fininvest Srl accettarono di immettere nella società due miliardi di lire di capitale azionario. La Fininvest Srl comprò l’80 per cento dell’Italcantieri nel luglio del 1975, e il resto nel novembre del 1976. I lavori di costruzione di Milano 2 furono subappaltati a questa società milanese, registrata nel 1973 da due società svizzere con direttori prestanome e azioni al portatore. L’unico direttore dell’Italcantieri dal 1973 al luglio 1975 fu suo zio Luigi Foscale, il padre di Giancarlo Foscale. Lei entrò nel consiglio d’amministrazione dell’Italcantieri nel luglio del 1975, subito dopo che la Fininvest Srl l’aveva acquistata.
Nel 1979, durante un controllo alla Cassa di Risparmio delle Province Lombarde (Cariplo), gli ispettori della Banca d’Italia scoprirono alcuni elementi che facevano pensare che la Edilnord, la Edilcantieri e la Fininvest Srl appartenessero a lei.
Nell’ottobre del 1979 la Banca d’Italia chiese alla guardia di finanza di investigare. La guardia di finanza scoprì che tra il 1974 e il 1978 la Edilnord aveva avuto un profitto di 2,44 miliardi di lire che avrebbe dovuto rimettere alla sua consociata svizzera (vale a dire al suo alter ego), come concordato con la Banca d’Italia. E tra il 1974 e il 1978 anche la Sogeat aveva guadagnato 3,3 miliardi di lire che non erano stati rimessi alla società svizzera. La somma totale ammontava a 5,74 miliardi di lire.
Di conseguenza, il 13 novembre del 1979, un drappello di guardie di finanza guidato dal capitano Berruti si presentò alla sede di un’altra delle sue società. Il giorno precedente lei aveva detto a Berruti di essere un semplice consulente esterno della Edilnord e della Sogeat. Berruti diede le dimissioni dalla guardia di finanza quello stesso mese. Nonostante le prove incontestabili del fatto che era stata violata la legge sul controllo dei cambi (vale a dire, le garanzie personali da lei fornite alla Bpn e a un’altra banca, e la mancata rimessa dei profitti al netto delle tasse), contro di lei non fu intentata alcuna azione legale.
Lei stesso, come presidente, e suo fratello Paolo, entraste nel consiglio di amministrazione della Fininvest nel novembre del 1975.
La fusione tra Fininvest Roma e Fininvest Srl
Un’altra società diretta progenitrice della Fininvest è la Fininvest Roma Srl (Fininvest Roma), costituita a Roma nel giugno del 1978. Era una piccola società con un capitale azionario versato di 20 milioni di lire. Umberto Previti fu il suo unico direttore fino al 1979.
Il 29 gennaio del 1979, la Fininvest Roma e la Fininvest Srl votarono per la fusione, ma sulla base dei loro rispettivi bilanci patrimoniali al 27 dicembre del 1978.
Nei diciotto mesi precedenti alla fusione lei aveva cercato di aumentare il capitale azionario della Fininvest Srl rispetto a quello versato (due miliardi di lire). Era una base ben misera per un uomo con le sue ambizioni, quindi lei aveva bisogno di ulteriore capitale azionario. A quell’epoca, per aumentare di più di due miliardi di lire il capitale azionario di una società era necessaria un’approvazione ministeriale. Alla metà del 1977, la Fininvest Srl non aveva ancora ottenuto questa approvazione. Come di consueto, le autorità richiedevano alcune informazioni, per esempio maggiori dettagli sui proprietari della società.
Le società della Holding Italiana sono diventate sinonimo della ricchezza della sua famiglia, proprietaria della Fininvest
Ma lei trovò una soluzione. Come presidente della Fininvest Srl, propose che gli azionisti offrissero prestiti senza interesse per realizzare l’aumento di capitale azionario stabilito. Dato che l’aumento approvato era di 18 miliardi di lire, questo significava che si potevano raccogliere prestiti degli azionisti per 18 miliardi di lire. La sua proposta fu approvata il 2 dicembre del 1977.
Secondo i dati ufficiosi della Saf (una delle fiduciarie della Bnl), tra il febbraio 1977 e l’agosto 1978, la Fininvest Srl ricevette prestiti senza interessi dagli azionisti finalizzati all’aumento di capitale per 16,94 miliardi di lire. I prestiti arrivarono in 25 tranche, a volte anche in giorni consecutivi. Se ne deduce logicamente che il denaro sia stato versato in contanti o in una forma equivalente ai contanti, come gli assegni. La Saf ebbe l’informazione da Giovanni Dal Santo, “interlocutore” e direttore di diverse società collegate alla Fininvest. Il consulente tecnico di dell’Utri ha confermato la correttezza della lista, ma ha aggiunto che forse parte dei fondi furono versati sotto forma di normali assegni di conto corrente.
Nel novembre del 1978 la Fininvest Srl decise di restituire i 16.94 miliardi avuti in prestito dai suoi azionisti più un’obbligazione convertibile di cinquecento milioni di lire che era stata emessa nel novembre del 1976. Quello che accadde in seguito è complicato – si capisce più facilmente leggendo i passaggi 2-4 della tabella 1.
Suo cugino Giancarlo Foscale, riferì alle fiduciarie della Bnl l’intenzione di rimborsare i prestiti agli azionisti. Le fiduciarie sarebbero state le beneficiarie iniziali di tre assegni bancari non sbarrati per un valore totale di 16,94 miliardi di lire, pagabili sul conto della Fininvest Srl presso la Banca Popolare di Abbiategrasso (Bpa). Poi avrebbe chiesto alla Saf di girare gli assegni a favore di Luigi Foscale (cioè di suo padre).
Alla fine di novembre, Dal Santo, agendo come interlocutore, prese i tre assegni girati dalle fiduciarie e li diede a Luigi Foscale, che agiva per suo conto. Ricevette anche un assegno trasferibile (vale a dire non intestato) di cinquecento milioni di lire. Quindi in totale gli assegni erano quattro.
Il 7 dicembre 1978, Luigi Foscale incassò l’assegno trasferibile e uno dei tre assegni bancari, per un ammontare di 1,01 miliardi di lire. A quel punto aveva 1,01 miliardi di lire in contanti e 16,43 miliardi di lire in forma equivalente ai contanti (vale a dire gli altri due assegni), per un totale di 17,44 miliardi di lire. Quindi erano usciti dalle casse della Fininvest 17,44 miliardi di lire.
Quello stesso giorno, un ignoto versò 17,5 miliardi di lire sul conto della Fininvest Srl presso la Bpa. E sempre lo stesso giorno, la Fininvest Roma pagò 17,5 miliardi di lire a una terza persona che gli investigatori non furono in grado di identificare dai documenti contabili della banca, presso la stessa filiale della Bpa (vedi passaggi 1 e 8 della tabella 1). Dato che l’ispezione effettuata dagli investigatori di Palermo sui documenti della Bpa non consentiva l’introduzione di fondi da parte di una terza persona, il denaro deve aver girato in circolo. (Gli investigatori lo dedussero dal fatto che i movimenti complessivi registrati nel libro contabile della Bpa per il giorno 7 dicembre erano di 78 miliardi di lire. Con i quattro movimenti di circa 17,5 miliardi l’uno si arrivava a 70 miliardi. Se una terza persona avesse versato dei fondi, ci sarebbero stati movimenti per almeno 95,5 miliardi di lire, cioè 78 più 17,5.
Dato che nel conto della Fininvest Srl presso la Bpa erano entrati 17,5 miliardi e ne erano usciti 17,44, i prestiti degli azionisti e l’obbligazione trasferibile, che messi insieme ammontavano a 17,44 miliardi, non potevano essere stati restituiti. Quindi la Fininvest Srl aveva ancora 17,44 miliardi scoperti nonostante il giro di assegni (passaggi 2 e 4). In altre parole, i 17,44 miliardi dovevano scomparire dal suo bilancio patrimoniale. La fusione, effettuata da Umberto Previti sulla base dei bilanci patrimoniali al 27 dicembre 1978, era la soluzione.
Previti disse che nel bilancio patrimoniale della Fininvest Roma al 27 dicembre 1978 ci sarebbe stato un esigibile fruttifero, dovuto dalla Fininvest Srl, di 17,69 miliardi di lire (quindi il pagamento fatto dalla Fininvest Roma nel passaggio 8 della tabella 1 deve essere stato incluso in quel bilancio). Quando Previti realizzò la fusione delle due società, fuse letteralmente i loro due bilanci. L’esigibile di 17,69 miliardi di lire che compariva nel bilancio della Fininvest Roma compensava il passivo di 17,44 miliardi del bilancio della Fininvest Srl. Erano stati eliminati due dati contabili uguali e opposti nati dal flusso circolare di fondi.
Le società della Holding Italiana
Queste operazioni facevano parte di una transazione ancora più ampia che coinvolgeva 19 società denominate Holding Italiana 1 e così via fino a 19. I passaggi 6 e 7 della tabella 1 mostrano come queste società furono coinvolte nel flusso circolare di fondi.
Le società della Holding Italiana sono diventate sinonimo della ricchezza della sua famiglia in quanto proprietaria della Fininvest, tuttavia lei non compare nei registri di queste società fino al 1990, e anche da allora non in tutte.
Agendo a suo nome e/o a nome di qualcun altro, entro il 4 dicembre 1978 lei aveva già acquisito il 10 per cento di 23 holding finanziarie e aveva dato mandato alla Par.Ma.Fid., una fiduciaria poco nota, di agire come società intestataria. Il 5 dicembre 1978 lei aveva già comprato il rimanente 90 per cento e aveva affidato il mandato alla Saf.
Al 5 dicembre 1978 le holding avevano un capitale azionario complessivo di 420 milioni di lire. Dato che le holding erano 23, il loro capitale azionario complessivo poteva raggiungere i 46 miliardi di lire senza bisogno dell’approvazione ministeriale (cioè due miliardi di lire per ciascuna).
Lei nominò suo zio Luigi Foscale direttore unico delle società e firmatario per i loro conti presso la Bpa, mentre Dal Santo entrava a far parte del loro collegio dei revisori dei conti. Lei sembrava sapere che sarebbe sorto il problema delle azioni. Il 7 dicembre 1978 aveva già scritto alla Saf per comunicarle che sarebbero stati versati 17,98 miliardi di lire come capitale azionario “presso le casse sociali” di 19 holding.
La Palina è una società usa e getta; fu registrata nell’ottobre del 1979 e messa in liquidazione nel maggio del 1980
Il 7 dicembre 1978, sui conti bancari presso la Bpa delle 19 holding furono versati complessivamente 17,98 miliardi. La fonte di quasi tutti quei soldi devono essere stati i 17,44 miliardi di lire (che oggi equivarrebbero a 46,8 milioni di euro) che quel giorno erano in possesso di Luigi Foscale.
Nei libri contabili delle 19 holding, l’entrata di 17,98 miliardi fu giustificata come capitale azionario. Le società versarono questo denaro alla Fininvest Roma come capitale azionario, diventandone così collettivamente proprietarie. Questa transazione portò il capitale azionario della Fininvest Roma esattamente a 18 miliardi di lire, interamente versati.
In effetti, un’obbligazione convertibile di cinquecento milioni di lire e 16,94 miliardi in prestiti degli azionisti – secondo Dal Santo ricevuti dalla Fininvest Srl in 25 tranche dal febbraio 1977 all’agosto 1978 – furono riciclati nel dicembre del 1979 come nuovo capitale azionario per le 19 holding. Anche quei soldi erano comparsi tutti contemporaneamente.
Ma in realtà gli unici fondi nuovi erano i 540 milioni di lire che si trovavano nei conti bancari della Fininvest Roma e della Fininvest Srl.
Al 26 dicembre 1978, la Fininvest Roma aveva un capitale versato di 18 miliardi di lire, tutti in possesso delle 19 holding. La fusione con la Fininvest Srl non era ancora avvenuta. A quella data la Fininvest Srl aveva un capitale azionario versato di due miliardi di lire. Come parte della fusione, i suoi azionisti, o il suo azionista, dovevano aver scambiato le loro azioni Fininvest Srl, che erano state affidate alla Saf, con il 10 per cento delle azioni delle holding. Questo spiegherebbe perché lei affidò il 10 per cento delle azioni delle holding alla Par.Ma.Fid.
È ragionevole supporre che chi aveva concesso i prestiti alla Fininvest Srl tra il febbraio 1977 e l’agosto 1978 possedesse l’altro 90 per cento delle holding.
Il 1979 e il 1980
Nel 1979 nelle casse delle holding entrarono 32 miliardi di lire (equivalenti a 104 milioni di euro, vedi tabella 2). Erano quasi tutte somme che avevano girato in circolo tra le società da lei controllate. (La transazione maggiore, di 27,68 miliardi di lire, compare in un capitolo successivo come eredità di Anna Maria Casati Stampa di Soncino).
Nel 1979 le holding versarono 32 miliardi di lire alla Fininvest Roma sotto forma di capitale azionario, portando così apparentemente il suo capitale versato a 52 miliardi entro il 31 dicembre 1979. Ma questo denaro uscì subito anche dalle casse della Fininvest Roma, da dove effettivamente era venuto. Perciò 32 dei 52 miliardi di capitale azionario versato della Fininvest Roma erano fasulli.
Nel 1980 furono versati alle holding 20,5 miliardi di lire in contanti o in una forma equivalente, compresi i 19,2 miliardi della fine di dicembre 1980 (vedi tabella 2). Questo denaro era per la Fininvest.
Il 22 dicembre 1980 lei scrisse alle fiduciarie per dire che sarebbero stati versati 19,2 miliardi di lire di prestiti senza interesse degli azionisti, dei quali il 90 per cento sarebbe passato attraverso la Saf e il 10 per cento attraverso la Par.Ma.Fid. Secondo i libri contabili delle holding i fondi arrivarono in quattro tranche di 4,8 miliardi ciascuna nell’ultima settimana di dicembre.
Ma gli investigatori di Palermo trovarono traccia di una sola transazione nei documenti contabili della Banca Rasini, l’ignoto istituto con una sola filiale, un’altra delle banche della holding. Scoprirono inoltre che 4,3 miliardi di lire (cioè il 90 per cento dei 4,8 miliardi della Saf ) erano stati registrati in un conto transitorio presso la Banca Rasini e lo stesso era avvenuto per il pagamento della stessa somma alla Fininvest. La ricevuta era in contanti (o equivalente), e anche il pagamento. Il versamento quindi deve essere stato fatto in contanti. Se lei avesse versato 4,3 miliardi di lire dal suo conto presso la Banca Rasini, lo stesso giorno sarebbe risultato un prelievo della stessa somma dal suo conto. Ma non risultava.
La transazione era stata registrata su un conto transitorio. A quell’epoca, alcune banche usavano i conti transitori per registrare transazioni a brevissima scadenza. La registrazione di una transazione su un conto transitorio implicava che non si trattasse di un cliente della banca. Era quindi una grave anomalia – perché in realtà lei era cliente della Banca Rasini.
La Banca Rasini
La Rasini forniva servizi bancari a lei, a suo fratello, a Dell’Utri e suo fratello, ai suoi alter ego svizzeri (quelli che erano dietro alla Edilnord e l’Italcantieri), e anche alla Par.Ma.Fid. Era anche molto vicina alle società della Holding Italiana.
Armando Minna, un commercialista milanese, e sua moglie, avevano fondato la Holding Italiana tra il 1 e il 23 giugno 1978. Minna, che era un membro del collegio dei revisori dei conti della Rasini, aveva aperto dei conti per le holding presso quella banca. Lei comprò le azioni delle 23 holding nel dicembre del 1978 tramite transazioni franco valuta con il signore e la signora Minna. Minna fu nominato membro del collegio dei revisori dei conti delle holding.
Nei documenti contabili interni della banca ognuna delle società della Holding Italiana era registrata come “negozio di parrucchiere e istituto di bellezza”. Gli ispettori della Banca d’Italia usano questa classificazione come uno dei criteri per decidere quali conti bancari controllare. Può darsi che la classificazione sia stata un errore, ma non c’è dubbio che 23 “parrucchieri” sarebbero stati molto meno soggetti a ispezioni di 23 holding finanziarie.
A quell’epoca, Giuseppe Azzaretto, un siciliano nominato nel 1973, era l’amministratore delegato della Rasini. Azzaretto era uno dei maggiori azionisti della banca, di cui possedeva il 29,3 per cento. Tre società registrate nel Liechtenstein, rappresentate da Herbert Batliner, che amministra una delle più importanti fiduciarie del paese, possedevano un ulteriore 32,7 per cento.
Senza dubbio, Batliner rappresentava molte persone che avevano validi motivi per non comparire. Ma questo non valeva per tutti. Un processo celebrato negli Stati Uniti nel 1971 aveva portato alla condanna di due cittadini americani per aver evaso le tasse negli anni sessanta. C’erano riusciti con l’aiuto di una società di copertura registrata nel Liechtenstein che Batliner aveva gestito per loro conto. Un altro caso giudiziario americano (del 1998) ha rivelato che la società di Batliner aveva agito a nome della convivente di un trafficante di droga latinoamericano. Nel 1989, il narcotrafficante aveva trasferito otto milioni di dollari su un conto bancario svizzero. Il conto era intestato a una società del Liechtenstein, rappresentata da Batliner, che aveva ricevuto il mandato dalla sua convivente. Il caso giudiziario era scoppiato perché il governo americano voleva sequestrare quei soldi in quanto presunti proventi di traffico di droga e riciclaggio.
L’eredità di Anna Maria Casati Stampa di Soncino
Nel novembre 1979, lei viveva già da più di cinque anni in una dimora del diciassettesimo secolo chiamata Villa San Martino. Questa bellissima casa si trova nella cittadina di Arcore, a nordest di Milano. Lei non ne era il legittimo proprietario, la vera proprietaria era Anna Maria Casati Stampa di Soncino. Nel settembre del 1970, all’età di 19 anni, la Casati Stampa aveva ereditato il vasto patrimonio di famiglia in circostanze tragiche dopo che suo padre, il conte Camillo Casati Stampa di Soncino aveva sparato alla matrigna e al suo amante e poi aveva rivolto l’arma contro se stesso, il 30 agosto 1970 a Roma.
Dato che la Casati Stampa era minorenne il tribunale aveva nominato suo tutore legale Giorgio Bergamasco, un senatore amico del defunto conte. Cesare Previti, che aveva il suo studio a Roma ed era l’avvocato della matrigna, si era conquistato la fiducia della Casati Stampa e ne era diventato l’avvocato. Il suo compito era quello di liberarsi della proprietà, mentre Bergamasco avrebbe firmato tutti i documenti legali necessari a nome della Casati Stampa. Quindi Bergamasco aveva il controllo legale dei suoi beni, mentre Previti ne aveva il controllo pratico.
Traumatizzata, la Casati Stampa lasciò l’Italia nel 1970, tornò per un breve periodo nel 1972 e da allora ha sempre vissuto all’estero. Quando compì ventun anni nominò Bergamasco suo procuratore. La signora Casati Stampa rifiuta di fare qualsiasi commento in materia.
Tra i possedimenti dei Casati Stampa, che si trovano quasi tutti in Lombardia, c’erano anche numerosi terreni. Oltre a Villa San Martino e al suo parco, la famiglia possedeva 250 ettari di terra a Cusago. A partire dall’11 novembre 1979, una società denominata Immobiliare Coriasco Spa (Coriasco) acquistò le terre della Casati Stampa a Cusago.
Su mandato di Luigi Foscale, la Saf era la proprietaria ufficiale delle azioni della Coriasco, quindi i suoi veri proprietari erano anonimi. Tuttavia, nei conti della Fininvest del 1976, la Coriasco compariva come un’affiliata interamente di sua proprietà. Il direttore unico della Coriasco era Giuseppe Scabini, che più tardi sarebbe diventato il tesoriere della Fininvest.
La Coriasco non pagò le terre della Casati Stampa in denaro. Le versò invece ottocentomila azioni, valutate 1,7 miliardi di lire, di una società denominata Cantieri Riuniti Milanesi (Crm), una piccola società immobiliare tra i cui direttori c’era Marcello Dell’Utri. Queste azioni rappresentavano il 40 per cento della Crm. Più o meno nello stesso periodo, quattrocentomila azioni della Crm furono versate a una società denominata Unione Fiduciaria, affiliata a una banca italiana. Non si sapeva chi fosse il proprietario di queste azioni.
La Casati Stampa non era contenta di aver ricevuto azioni di una società della quale non sapeva nulla in cambio delle sue terre. Voleva che le azioni fossero trasformate in contanti. Quello che accadde in seguito sarà meglio compreso facendo riferimento alla tabella 3.
Alcuni personaggi importanti che hanno segnato l’inizio della sua carriera in seguito hanno ricoperto posti di prestigio insieme a lei
In sostanza, signor Berlusconi, lei fece in modo che una sua società fittizia, la Palina, intestata a un uomo di 75 anni che aveva subìto un colpo apoplettico, acquistasse le ottocentomila azioni della Crm dalla Casati Stampa, e le quattrocentomila dall’Unione Fiduciaria. La Palina pagò 1,7 miliardi di lire alla Casati Stampa e 860 milioni all’Unione Fiduciaria. Gli investigatori di Palermo non riuscirono a scoprire da dove venissero quei soldi, dato che alla Bpa non ce n’era traccia. Ma trovarono una ricevuta dell’Unione Fiduciaria e un modulo ufficiale per il trasferimento di azioni firmato da Bergamasco, dal quale si può dedurre che furono pagati 2,56 miliardi di lire.
Il 19 dicembre 1979, la Palina vendette quel milione e duecentomila azioni della Crm alla Milano 3 Srl, un’altra società di facciata. La Milano 3 Srl pagò alla Palina 27,68 miliardi di lire (cioè dieci volte di più di quello che aveva pagato qualche settimana prima). La Palina è una società usa e getta; fu registrata nell’ottobre del 1979 e messa in liquidazione nel maggio del 1980. Nei suoi libri contabili non risultava nulla dell’acquisto delle azioni Crm né della loro vendita alla Milano 3 Srl.
La transazione fu una simulazione, perché la Milano 3 Srl ebbe indirettamente il denaro per pagare la Palina dalla stessa Palina. Come mostra la tabella 3, il 19 dicembre 1979, la Palina inviò 27,68 miliardi di lire alle fiduciarie, che poi trasferirono questa somma sui conti delle holding presso la Bpa. Da lì, i fondi passarono attraverso il conto della Fininvest Roma presso la Bpa, e poi arrivarono a un ignoto beneficiario attraverso il conto della Milano 3 Srl.
Dato che l’esame dei libri contabili della Bpa da parte degli investigatori di Palermo faceva scartare la possibilità di un versamento di fondi da parte di terzi, i soldi devono essere andati in circolo. Anche perché lo stesso giorno ci fu un versamento di 27,68 miliardi di lire sul conto corrente della Palina (cioè quello della Milano 3 Srl).
Sembra che lei sapesse quello che stava succedendo. Il 13 dicembre 1979 lei aveva scritto alle fiduciarie per avvertirle che un pagamento in arrivo di 25,68 miliardi doveva essere trattato come prestito degli azionisti a certe società della Holding Italiana. In quel caso lei versò 27,68 miliardi (le società 18 e 19 della Holding Italiana, non menzionate nella sua lettera, ricevettero due miliardi di lire).
La Milano 3 Srl fu registrata nel novembre del 1979 come affiliata della Fininvest Roma e Dal Santo divenne il suo unico direttore. L’investigatore dell’antimafia e il consulente tecnico dei magistrati di Palermo non ottennero l’accesso ai libri contabili della Milano 3 Srl. Ma quest’ultima doveva essere la fonte dei 27,68 miliardi ricevuti dalla Palina il 19 dicembre. Doveva anche averli registrati nei suoi libri come investimento nella Crm. Questo investimento fu “finanziato” dai 27,68 miliardi che aveva ricevuto dalla Fininvest Roma quello stesso giorno.
La Crm si fuse (letteralmente) con la Milano 3 Srl nel luglio 1980. La società sopravvissuta, la Milano 3, si ribattezzò Cantieri Riuniti Milanesi. Si trattava di nuovo della stessa manovra – l’eliminazione di due bilanci contabili uguali e contrari nati da un flusso circolare di fondi. Quando i due bilanci vennero fusi, i riferimenti alla transazione con la Palina scomparvero dai libri contabili della Milano 3 Srl. Il suo investimento in azioni della Crm veniva annullato dal finanziamento ricevuto.
Ed era necessario che fosse così. La Fininvest non poteva aver speso 27,68 miliardi per comprare il milione e duecentomila azioni della Crm che lei possedeva già (tramite la Palina) dato che proprio la stessa somma di denaro era entrata e uscita dal conto corrente della Palina il 19 dicembre 1979. E le azioni della Crm avevano ben poco valore dato che quest’ultima non possedeva neanche i terreni di Cusago, che appartenevano alla Coriasco.
Il consulente tecnico di Dell’Utri dichiarò ai magistrati di Palermo che, se questa transazione avesse avuto luogo dopo l’introduzione delle norme contro il riciclaggio di denaro nel 1991, “avrebbe dovuto essere denunciata” a causa della quantità di denaro coinvolta.
Aver fatto passare i fondi per la transazione della Palina attraverso la Fininvest Roma sortì l’effetto di gonfiare l’attivo e il passivo di questa società di 27,68 miliardi. Grazie a questa operazione, il capitale azionario della Fininvest Roma aumentò di 15 miliardi, considerati come interamente versati. Questo capitale azionario era fasullo, come tutte le altre entrate relative a questa operazione. In altre parole, i movimenti bancari inventati, resi possibili dalla Palina, che completò il circolo, diedero falso credito a entrate contabili inesistenti.
L’Immobiliare Coriasco
Nel 1979, la Coriasco (la società che acquistò le terre di Cusago) emise delle azioni che non erano quello che sembravano.
Nel 1976, la Fininvest Srl possedeva il 100 per cento delle duecentomila azioni della Coriasco che valevano mille lire l’una (vale a dire, la Coriasco aveva un capitale azionario versato complessivo di duecento milioni di lire), ma la Saf era intestataria della Coriasco su mandato di Luigi Foscale.
Secondo i documenti ufficiali della Saf, alla metà di marzo del 1979, Foscale aveva scritto per dire che il 22 marzo 1979 ci sarebbe stato un aumento del capitale azionario della Coriasco di due miliardi di lire (vale a dire che sarebbero state emesse due milioni di azioni).
Aveva detto che la transazione sarebbe stata franco valuta (cioè che il denaro avrebbe aggirato le fiduciarie). Invece, secondo documenti ufficiosi della Saf, il 20 marzo 1979 Dal Santo telefonò per dire che le avrebbe dato mandato di sottoscrivere un aumento di capitale azionario di due miliardi di lire. Inoltre, sempre secondo documenti ufficiosi della Saf, il 21 marzo 1979 Dal Santo revocò il mandato di sottoscrizione e rese disponibili due miliardi di lire in contanti. La Saf versò questi soldi alla Cariplo e alla Banca popolare di Novara e ottenne due assegni bancari non barrati per un totale di due miliardi di lire.
La Saf girò questi assegni alla Coriasco, che risultò quindi aver ricevuto due miliardi di lire di aumento del capitale azionario pagati con due assegni bancari. Ma non era così – il denaro delle azioni fu in realtà versato in contanti. In altre parole, Dal Santo aveva riciclato due miliardi di lire attraverso la Saf con l’aiuto della stessa fiduciaria.
Chiunque avesse ispezionato i documenti ufficiali dell’emissione (cioè la lettera di Foscale), avrebbe pensato che il denaro avesse aggirato la fiduciaria. Questo perché non ci sarebbe stato motivo di supporre che l’operazione non fosse avvenuta come stabilito nella lettera di Foscale.
Secondo i documenti contabili della Fininvest per il 1979, all’epoca la sua quota della Coriasco era solo del 9,09 per cento (vale a dire le 200mila azioni che aveva nel dicembre 1976). Non era dunque chiaro chi avesse sborsato i due miliardi in contanti nel marzo 1979. Il consulente tecnico di Dell’Utri dichiarò ai magistrati di Palermo che la Coriasco era “assolutamente marginale e irrilevante”.
Dopo aver ottenuto la licenza edilizia, un’altra società, denominata Cantieri Riuniti Milanesi (cioè non la stessa società coinvolta nell’operazione con la Palina) più tardi realizzò un grosso progetto immobiliare sulle terre che la Coriasco aveva acquistato nel 1979.
Nel 1980, l’Immobiliare Idra, una società diretta da Dal Santo, diventò la proprietaria legale di Villa San Martino (del suo parco, della sua collezione di libri, dei suoi quadri, e così via). A un certo punto l’Immobiliare Idra deve essere appartenuta alla Fininvest perché più tardi la Fininvest vendette la società a lei.
Giovanni Dal Santo
Alcuni personaggi importanti che hanno segnato l’inizio della sua carriera – Cesare Previti, Giancarlo Foscale, Scabini, Dell’Utri e Berruti – in seguito hanno ricoperto posti di prestigio insieme a lei. Come lei, negli anni novanta furono tutti incriminati per qualche motivo. Molto più enigmatica è la figura di Dal Santo.
Nato in Sicilia nel 1920, negli anni settanta Dal Santo lavorava già a Milano come contabile. È stato direttore unico di un certo numero di società in momenti cruciali della loro esistenza: per esempio, della Milano 3 Srl quando acquistò la Crm dalla Palina, e dell’Immobiliare Idra quando comprò Villa San Martino. È stato anche “interlocutore” tra Luigi Foscale e le fiduciarie della Bnl. È stato lui a fornire le informazioni trovate nei documenti non ufficiali della Saf (cioè che i 16.9 miliardi di lire di prestiti degli azionisti alla Fininvest Srl erano stati ricevuti in 25 tranche tra il febbraio 1977 e l’agosto 1978). Ha fatto parte del collegio dei revisori dei conti delle società della Holding Italiana. Lei sicuramente lo conosce.
Nel marzo del 1979, Dal Santo riciclò due miliardi di lire (equivalenti a 5,1 milioni di euro) attraverso la Saf e la Coriasco. Dalla data della sua acquisizione da parte della Fininvest Srl nel 1976 al gennaio 1978, l’unico direttore dell’Istifi era Dal Santo. Questa società sarebbe poi diventata il polmone finanziario del gruppo.
Era ovviamente un uomo di fiducia.
LE NOSTRE DOMANDE
• Ha qualche spiegazione alternativa per le transazioni citate?
• Chi investì quattro miliardi di lire nella Edilnord e nella Sogeat sotto forma di capitale azionario tra il 1967 e il 1975?
• Chi investì 16,94 miliardi nella Fininvest Srl sotto forma di prestiti degli azionisti nel 1977-78, e da dove veniva quel denaro?
• Perché questo denaro fu versato in 25 tranche nel corso di 20 mesi? • Di chi era l’uomo di fiducia Dal Santo?
• Pensa che la Casati Stampa sia stata pagata adeguatamente per Villa San Martino e le sue terre di Cusago?
• Chi era il proprietario delle 400mila azioni della Crm registrate a nome dell’Unione Fiduciaria e quindi chi incassò gli 860 milioni pagati dalla Palina?
• Chi investì due miliardi di lire nella Coriasco nel marzo 1979 e da dove venivano quei soldi?
• Perché ha effettuato tante transazioni azionarie franco valuta?
• Perché si è avvalso del diritto a non rispondere quando i pubblici ministeri volevano interrogarla a palazzo Chigi il 26 novembre 2002 su queste e altre questioni?
La sua appartenenza alla P2
Nell’ottobre 1990 la corte d’appello di Venezia scoprì che lei aveva testimoniato il falso durante la sua deposizione del 1988 nell’ambito di una sfortunata causa per diffamazione che lei aveva intentato contro Giovanni Ruggeri e Mario Guarino, due giornalisti italiani che hanno scritto insieme Inchiesta sul Signor TV, un libro basato su accurate ricerche che tratta degli inizi della sua carriera in affari, pubblicato nel 1987.
Lei fu giudicato colpevole ma l’accusa di falsa testimonianza cadde in seguito a un’amnistia generale. Tra le altre cose, durante il processo lei disse di essere diventato membro della P2 solo poco prima che venisse scoperta nel 1981 e di non aver pagato per la sua iscrizione. Il tribunale di Venezia decretò che queste dichiarazioni non erano vere. Lei era entrato nella Loggia P2 all’inizio del 1978 e aveva pagato le sue centomila lire di iscrizione.
Il mese dopo che Berruti l’ebbe interrogata sulla Edilnord e la Sogeat nel novembre 1979, Salvatore Gallo, un alto ufficiale della guardia di finanza di Roma, scrisse all’ufficio italiano dei cambi, raccomandandogli di non portare avanti alcuna ulteriore azione contro di lei. Gallo era entrato nella Loggia P2 nel luglio del 1980.
La Bnl aveva più alti dirigenti membri della P2 di qualsiasi altra banca italiana. Almeno sei alti funzionari della Bnl facevano parte della loggia, compreso Gianfranco Graziadei, amministratore delegato di una delle fiduciarie della Bnl.
Negli anni settanta le sue società furono generosamente sostenute dalle banche italiane, compreso il Monte dei Paschi di Siena, il cui direttore generale, Giovanni Cresti, era un membro della P2. Più tardi, il collegio dei revisori dei conti del Monte dei Paschi di Siena giunse alla conclusione che: “Il livello di rischio [nei confronti del suo gruppo] era assolutamente eccezionale. Gli ispettori che hanno esaminato il registro dei prestiti lo hanno analizzato accuratamente e sono giunti alla conclusione che sono stati fatti dei favoritismi [nei confronti del suo gruppo]”.
LE NOSTRE DOMANDE
• Perché ha mentito sulla data della sua iniziazione alla Loggia P2?
•Ha usato la sua appartenenza alla Loggia P2 per ottenere cose che altrimenti non avrebbe ottenuto?
Nota dell’Economist. Abbiamo compilato questa sezione in base ai rapporti sulle sue società stilati da un investigatore antimafia e dal consulente tecnico della Banca d’Italia per i magistrati di Palermo. La loro indagine è stata innescata dall’affermazione di un pentito secondo cui per costruire l’impero televisivo della Fininvest erano stati usati venti miliardi di lire provenienti dalla mafia. Nel periodo 1975-1985 i due investigatori hanno passato diciotto mesi a setacciare i registri delle società in cima alla gerarchia aziendale della Fininvest (di società a esse collegate, e così via), di fiduciarie collegate a lei, e conti bancari appartenenti a lei e alle società esaminate. Hanno entrambi testimoniato su quello che avevano scoperto al processo del suo amico Marcello Dell’Utri, che nel 1996 è stato accusato di aver aiutato e spalleggiato la mafia. A parte un breve periodo alla fine degli anni settanta, Dell’Utri, un parlamentare siciliano che ha fondato con lei Forza Italia e ha diretto la sua campagna elettorale del 1994, ha lavorato per lei dalla metà degli anni sessanta al 1994.
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Dear Economist
“Sappiamo che è corrotto, ma lo sono tutti”. Le lettere dei lettori dell’Economist che protestano per il dossier su Silvio Berlusconi
Sir – Silvio Berlusconi è un politico democraticamente eletto in un paese sovrano. Alle prossime elezioni italiane, gli elettori avranno l’opportunità di emettere il verdetto su di lui. Le leggi approvate da questo governo potrebbero essere cestinate da un nuovo esecutivo. La vostra campagna potrebbe rafforzare il sostegno a Berlusconi da parte della gente comune, come il mio giardiniere, che lo vede come una persona abile che ha fatto fortuna grazie alla sua intelligenza, non come molti altri che hanno depredato lo stato. Si dice che sia stato il disprezzo britannico a spingere Mussolini tra le braccia di Hitler. Anche se oggi non ci sono Hitler in giro, bisognerebbe stare attenti a non alienarsi le simpatie di un popolo così amichevole e capace.
Antony Wood, Comano, Svizzera
Sir – Gli italiani hanno votato per Berlusconi perché i governi precedenti non hanno mantenuto le promesse. Sappiamo tutti che è corrotto, ma lo è ogni politico in Italia, come la maggior parte dei burocrati e gli uomini d’affari. A voi non va giù che lui sia al vertice da così tanto tempo, ma gli italiani lo ammirano proprio per questo. In un paese dove non cambiava nulla Berlusconi sta portando avanti dei progetti. Forza Italia ha ottenuto così tanti seggi in parlamento perché i suoi avversari non avevano niente di valido da offrire. Per scalzarlo ci vorrebbe un grande politico, ma direi che in giro non se ne vedono.
Mathias Sapper, Los Angeles, Stati Uniti
Sir – Ho sempre tenuto in grande considerazione la vostra rivista. Però la vostra ultima bordata contro Berlusconi è ridicola. Vi riduce al rango di un tabloid da quattro soldi. La vostra tenacia comincia a sembrare più che altro una vendetta personale. Gli italiani non hanno bisogno dell’Economist per ricordarsi degli affari del nostro primo ministro. Possiamo lavare i nostri panni sporchi in famiglia.
Filippo Maria Olivi, Singapore
Sir – Berlusconi certamente ha dei problemi, ma uno che dice che Jacques Chirac “ha perso un’occasione per stare zitto” non può essere troppo cattivo.
Steve Hagen, Littleton (Colorado), Stati Uniti
(Traduzioni di Aldo Piccato e Bruna Tortorella)
Questa è la versione integrale del dossier dell’Economist uscito il 1 agosto 2003. Era diviso in sei parti, due pubblicate su carta e quattro solo online. In copertina il titolo era “Dear Mr. Berlusconi… La nostra sfida al premier italiano”. In fondo al dossier, pubblichiamo anche le lettere di protesta uscite sull’Economist nel numero del 16 agosto 2003.
• Il nostro lavoro di traduzione e revisione dei testi è sempre molto accurato e approfondito, indipendentemente dall’articolo o dall’argomento trattato. Ma in questo caso ci siamo particolarmente impegnati, soprattutto per cercare di rendere il più fedelmente possibile un testo inglese in cui si parla di questioni italiane. Anche per questo abbiamo chiesto la consulenza di due giornalisti italiani che da anni seguono le vicende giudiziarie e politiche di Silvio Berlusconi.
• Accanto a queste ventiquattro pagine di attacco a Berlusconi, avremmo voluto pubblicare un articolo in difesa del premier uscito su qualche giornale straniero. Non è stato possibile. Nessun giornale straniero di centrodestra ha difeso Berlusconi. La stragrande maggioranza dei giornali ha semplicemente ignorato il dossier, mentre altri (per esempio il Figaro in Francia, il Mundo in Spagna, la Frankfurter Allgemeine Zeitung in Germania) si sono limitati a dare brevemente la notizia annunciando l’intenzione di Berlusconi di denunciare il settimanale britannico.
• Le due parti uscite sull’edizione cartacea dell’Economist sono state pubblicate in Italia anche dal quotidiano il Foglio, il 2 agosto 2003, accompagnate da due articoli: uno di Oscar Giannino, che dopo aver studiato gli archivi dell’Economist è arrivato alla conclusione che nei confronti di Berlusconi il settimanale britannico è fazioso; l’altro del direttore, Giuliano Ferrara, che ha scritto una lettera al direttore dell’Economist, Bill Emmott. Ferrara rivolge a Emmott qualche domanda sul merito del dossier, e conclude: “Come mai siete così severi con Silvio Berlusconi e così compiacenti con Jacques Chirac? Che differenza c’è la legge che ha sospeso il processo al premier italiano e quella che decreta ‘l’inviolabilità’ del presidente francese? È forse un doppio standard, il vostro?”.
Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2003 nel numero 503 di Internazionale.
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