Questo articolo fa parte di una serie dedicata ai trent’anni dalla fine dell’Unione Sovietica.

Spero che il calcio vi piaccia, o che almeno non lo odiate. Volenti o nolenti, potete essere certi che vi capiterà di vederlo alla tv. I tifosi di oggi sono più fortunati: basta avere i canali giusti e ci si può godere tutto il calcio che si vuole. In tv, al computer e sul cellulare. E, anche senza volerlo, sul telefonino si ricevono messaggi su quello che sta succedendo, per esempio, al White Hart Lane: chi ha segnato e chi si è beccato un cartellino giallo.

Molti, magari, si lamentano perché in tv il calcio è troppo e non ne possono più. Ma chi lo ha desiderato disperatamente e ne è stato a lungo privato non avrà mai niente da ridire sul fatto che il pallone è diventato un fedele amico della televisione e che i due sono ormai inseparabili.

Ma non è stato sempre così: i pionieri che hanno portato per primi il calcio in tv sono celebri e, più in generale, la storia di questo sport è stata scritta. Ma qui parliamo di una cosa diversa. Se eri innamorato del pallone e vivevi nel paese che, prima del crollo del “grande Stato sovietico”, non aveva mai trasmesso una partita – né di Coppa dei campioni né di Coppa delle coppe e nemmeno una finale di Coppe Uefa – a meno che in campo non ci fosse una delle sue squadre, ebbene la fame di calcio e il rammarico per le occasioni perse ti perseguiteranno per sempre. Amareggiato per aver perso tutte quelle grandi partite, continuerai a cercarle su YouTube, chiedendoti cosa avresti provato se le avessi viste allora, in diretta.

Ma cos’era l’Unione Sovietica negli anni settanta e ottanta? Com’era viverci? Ufficialmente era il paese del socialismo vittorioso, pronto a entrare nell’era del Comunismo, che avrebbe prodotto frutti tangibili di cui tutti avrebbero goduto.

E cos’è il comunismo?

È cibo gratis per tutti, nient’altro. A quei tempi la penuria di generi alimentari era il problema principale. Ma dipendeva dalla regione. Se vivevi a sud, potevi contare sulla generosità della natura: quando le cose si mettevano male, erano sempre disponibili pomodori, cetrioli e peperoni.

A livello personale le persone erano solidali finché i rapporti con gli altri non mettevano a rischio il loro benessere

In quegli anni il capo di stato era Leonid Brežnev. Si diceva che fosse gentile, ma forse solo se paragonato all’isterico Chruščëv, con la sua fissazione per l’agricoltura, e al famigerato Stalin, che guidò il paese prima di lui.

Nei giorni di gloria della Dinamo Tbilisi, l’Unione Sovietica di Brežnev aveva già invaso l’Afghanistan con l’obiettivo di instaurarvi il socialismo. Oggi sappiamo quanto successo abbia avuto quella decisione.

Intanto in Polonia Solidarność dava voce alla protesta dei cittadini, ma l’Unione Sovietica credeva ancora fermamente di essere superiore e invincibile.

Fin dai primi giorni dell’impero sovietico, le persone con opinioni e idee alternative furono distribuite tra reparti psichiatrici e campi di lavoro. Era una realtà accettata. Vennero efficacemente applicate restrizioni di ogni tipo, ogni passo della gente comune era controllato. Quando visitavano i paesi dell’Europa occidentale, i cittadini sovietici dovevano passeggiare in gruppi di tre, perché almeno uno di loro nella sala interrogatori del Kgb avrebbe ammesso qualunque misfatto.

A livello personale le persone erano solidali finché i rapporti con gli altri non mettevano a rischio il loro benessere, che si basava sui “grandi princìpi” promossi dal “grande paese”.

In realtà era un paese orribile. Nella mia università c’erano molti studenti di talento che volevano studiare seriamente. Ma l’edificio principale ospitava anche il Secondo e il Terzo dipartimento: il Secondo era responsabile del servizio di leva, mentre il Terzo reclutava volontari che lavoravano per la sicurezza dello stato. Volontari in teoria, perché la realtà era molto diversa: potevi iscriverti ai corsi di ginnastica, fare sport o partecipare ai circoli letterari organizzati nell’ateneo, ma prima o poi il Terzo dipartimento ti avrebbe convocato. E non occorrevano abilità o talento particolari per farne parte.

A ogni modo, l’Unione Sovietica di Brežnev era più mite rispetto a quella dei suoi predecessori, ma pur sempre rigida, smaniosa di conquistare il dominio mondiale con le rivoluzioni e lo sterminio di qualunque pensiero liberale o alternativo. Era un paese triste con gente felice ma frustrata perché dentro di sé sapeva di non avere un bene prezioso: la libertà.

Il calcio era un gioco di culto in Unione Sovietica, le competizioni nazionali erano avvincenti e offrivano sempre partite interessanti. I club sovietici hanno vinto la prestigiosa Coppa delle coppe tre volte: due la Dinamo Kiev e una la Dinamo Tbilisi.

Proprio come oggi, anche allora il calcio era uno sport globale, eppure le partite internazionali si potevano vedere solo quando le squadre sovietiche dovevano incontrare dei club stranieri nelle competizioni europee. Non c’era praticamente altro.

I giornali degli altri
La stampa sovietica non parlava quasi per niente del calcio internazionale. Nemmeno i giornali sportivi ne scrivevano. Dai quotidiani stranieri venivano riprese delle notizie, ma riguardavano esclusivamente le squadre nazionali, mai una parola sui club degli altri paesi.

Poi, a un certo punto, il settimanale russo Futbol-Hockey cominciò a pubblicare una sintesi delle partite di coppa Uefa: bisognava accontentarsi di queste magre informazioni, sempre che si fosse tanto fortunati da riuscire a procurarsi la rivista. Gli abbonamenti erano limitati, perciò il giornale si vendeva nelle edicole di nascosto, abitualmente a un prezzo cinque volte più alto di quello ufficiale. E bisognava conoscere il giornalaio.

C’era anche una stazione radio russa, Mayak, che trasmetteva i risultati delle partite europee. In sostanza, le partite si svolgevano di mercoledì ma non si sapeva niente fino al giorno dopo: i risultati arrivavano il giovedì via radio.

Sembrano cose banali rispetto a quello che ha fatto l’Unione Sovietica nella sua storia, ma queste piccole cose soffocavano l’interesse popolare e il desiderio di intrattenimento, confinandoli in limiti prestabiliti.

A Tbilisi, la capitale della Repubblica Socialista Sovietica della Georgia, c’erano un paio di edicole che vendevano segretamente riviste sportive dei paesi socialisti dell’Europa dell’est e, neanche a dirlo, costavano cinque volte di più del prezzo di copertina.

Questo spiega perché i tifosi più accaniti di quei tempi sono ancora capaci di leggere e capire un po’ di polacco, ungherese e bulgaro. La stampa del blocco socialista era più generosa nel dare informazioni sul calcio internazionale. Non era molto, ma sempre più di quello che si trovava nei giornali sovietici.

Tbilisi, Georgia, 9 novembre 1996. Tifosi prima della partita della nazionale contro l’Inghilterra per le qualificazioni ai Mondiali. (Clive Brusnkill, Allsport/Getty Images)

La rivista cecoslovacca Stadium era particolarmente affascinante. L’ultima pagina conteneva notizie sugli eventi sportivi internazionali, mentre la retrocopertina aveva sempre una foto a colori di questo o quel club. Quando la squadra era poco conosciuta era una delusione, ma la foto si poteva sempre attaccare sul muro della propria stanza. Poteva capitare il Manchester United, il Valencia, oppure qualche club brasiliano, inglese o tedesco. In un certo senso le foto erano un vero tesoro perché riportavano i nomi dei giocatori, cosa che permetteva di conoscere i componenti della squadra. Sulla tv georgiana c’era invece un programma, Sports Kaleidoscope, che mandava in onda alcuni spezzoni delle partite internazionali, citando spesso club per noi sconosciuti e permettendoci di vedere dei gol molto belli.

Non c’erano altri modi per avere informazioni. Non si può dire che il vuoto fosse totale, ma il sistema sembrava quello del razionamento nei campi di lavoro sovietici ai tempi di Stalin. Ogni volta che arrivava un nuovo giornale straniero, l’entusiasmo saliva alle stelle. Un giorno qualcuno riuscì a procurarsi una rivista sportiva jugoslava, Tempo, che si dimostrò molto migliore delle sue concorrenti ceche e polacche. I prodotti jugoslavi, però, erano quasi introvabili in Unione Sovietica, molto probabilmente per i contrasti con Tito. Se poi qualcuno riusciva a mettere le mani su Don Balón, Onze Mondial o un’altra rivista del genere ne aveva estrema cura, e file di amici e tifosi aspettavano con impazienza l’occasione di sfogliarla.

Lantenna magica
Le cose probabilmente sarebbero andate avanti così, se non fosse accaduto un evento memorabile: nel 1978 la Dinamo Tbilisi divenne campione dell’Unione Sovietica, per la seconda volta. Nella prima partita della Coppa dei campioni sconfisse il Liverpool, ma al secondo turno fu eliminata dall’Amburgo.

La comparsa dei principali club stranieri nello stadio di Tbilisi aggiunse al calcio un brivido speciale. Non si trattava solo di un’importante vittoria o di una dolorosa sconfitta, ma soprattutto del fatto che in quegli anni la Dinamo Tbilisi partecipava regolarmente alle competizioni europee. Così a Tbilisi arrivarono l’Inter, il Milan, il Napoli, il West Ham United, l’Hertha Berlino, il Feyenoord e altre grandi squadre europee. Tre anni dopo, nel 1981, la Dinamo Tbilisi vinse la Coppa delle coppe, un’impresa centrata da una sola squadra sovietica prima di allora. Fu un momento importante per la Georgia: ospitare partite di alto livello accrebbe l’interesse dei giovani e avvicinò i tifosi al calcio straniero.

A quei tempi giravano centinaia di storie incredibili su come era possibile guardare le partite europee in diverse città dell’Unione Sovietica. Si diceva, per esempio, che i canali finlandesi fossero facilmente accessibili da molti hotel di Tallinn, in Estonia, e che quei canali trasmettessero spesso partite di cui altrove si poteva solo sognare. Ma chi poteva permettersi di andare in Estonia per guardare una partita?

All’epoca qualcuno diffuse la notizia che nella città di Leninakan, in Armenia, si potevano vedere i match internazionali se si affittava una stanza d’albergo che guardava verso la Turchia e si orientava la tv in quella direzione. Era risaputo che la Turchia trasmetteva generosamente non solo gli incontri nazionali, ma anche le partite internazionali.

Presto si venne a sapere che la cittadina di Tetri Tsqaro, a un’ora di viaggio da Tbilisi, offriva un’altra possibilità. La località ospitava una base militare sovietica con un potente sistema di localizzazione, perciò chi viveva intorno alla base poteva ricevere i canali turchi se le antenne venivano orientate correttamente.

Ma molto dipendeva anche dall’abilità tecnica delle persone. Alcuni riuscivano a progettare antenne speciali per raggiungere luoghi lontani che trasmettevano il calcio. Nel frattempo si diffuse la notizia che si potevano intercettare i canali stranieri anche da Batumi, la città costiera nel sudovest della Georgia, rigidamente controllata dalle truppe di frontiera sovietiche. Se qualcuno aveva un parente o un amico in quella città così vicina alla Turchia, e se questo era pronto ad accogliere ospiti provenienti dalla capitale, allora per i tifosi era il paradiso.

L’Unione Sovietica non trasmise le partite degli Europei di calcio che si tennero in Italia nel 1980. Non stupisce che furono in tanti a partire alla volta di Batumi per guardare tutti gli incontri di una competizione così segreta.

Credo che fosse il 1982 quando improvvisamente si scovò una nuova località: sulle colline sopra Tbilisi c’era un ristorantino sul bordo della strada, e qualcuno scoprì che da lì era possibile ricevere i canali turchi. E quindi guardare le partite internazionali.

Le autorità molto probabilmente si convincevano che guardare il calcio era un male minore rispetto ad ascoltare le stazioni radio antisovietiche

Il posto si chiama Pantiani, e i tifosi potevano andarci ogni mercoledì per godersi gli incontri delle coppe europee. È vero, le immagini erano in bianco e nero e la voce non si sentiva, ma cosa importava se si poteva vedere la partita?

All’epoca a Tbilisi si producevano antenne di vario tipo, spesso illegalmente. Ma nessuna funzionava senza il ricevitore principale: una televisione sovietica rossa con lo schermo piccolo, dotata di un interruttore a sensore.

Il procedimento era il seguente: l’apparecchio si metteva sul cofano della macchina, e quando ci si attaccava l’antenna gli spettatori si infilavano in macchina e guardavano la partita dai sedili interni. Chi non aveva la televisione poteva restare in piedi accanto all’auto.

Si dice che all’inizio le auto fossero poche, poi varie decine, poi centinaia e alla fine migliaia. La passione per il calcio era così diffusa, e i luoghi per guardare le partite così numerosi, che le autorità dovevano essere perfettamente consapevoli della portata del fenomeno. Ormai non erano più solo i giovani a raggiungere quei luoghi, ma anche i tifosi più anziani, disposti a godersi le partite in bianco e nero e su schermi minuscoli.

Ma nessuna pattuglia della polizia ha mai fatto incursione in quei luoghi e neanche il Kgb si è mai preso il disturbo di ficcare il naso. Non hanno mai neppure interrogato nessuno per queste “pericolose” attività all’aperto. Agli spettatori spesso si mescolavano alcuni agenti, anche loro interessati a vedere le partite insieme agli altri. Ma dopo aver analizzato la situazione, le autorità molto probabilmente si convincevano che guardare il calcio era un male minore rispetto ad ascoltare le stazioni radio antisovietiche.

Le cose andarono avanti così per un bel po’, fino all’inizio della perestrojka. Il nuovo corso portò più calcio sui nostri schermi e finalmente arrivarono i canali specializzati, dove tutti possono trovare quello che cercano. Perfino troppo, in un certo senso.

Il luogo degli spettacoli magici, il campo di Pantiani, è ancora lì, visibile dalla strada.

Probabilmente il calcio vi piace, o almeno riuscite a sopportarlo. Il problema è che una volta ce n’era troppo poco e c’erano paesi dove la gente, con piccoli apparecchi tv e antenne improvvisate, andava a cercarlo su e giù per campi e colline.

Ma il calcio era niente rispetto alla libertà: ben presto nessuno ricordò più la ricerca delle partite perché la lotta per l’indipendenza diventò una priorità, seguita dal primo bagno di sangue: il 9 aprile 1989 le truppe russe dispersero una manifestazione pacifica a Tbilisi uccidendo venti persone. Poi fu solo guerra e povertà nel nome della conquista dell’indipendenza.

Il calcio sarebbe potuto diventare la principale forma di intrattenimento, almeno alla televisione, non fosse stato per la lotta coraggiosa e determinata in cui era coinvolta la Georgia. Il paese si batteva per una causa apparentemente persa. All’inizio non ha ottenuto nulla, se non distruzione e desolazione. Ma è sempre guidato da qualcosa di più grande, qualcosa di vero ed eterno.

(Traduzione di Giuseppina Cavallo)

Questo articolo è il primo di una serie dedicata alla fine dell’Unione Sovietica. In collaborazione con Voxeurop.

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