Dall’inizio di marzo, con l’aumento del numero dei casi di nuovo coronavirus, la paura e il panico si sono diffusi in Cisgiordania. Il 19 marzo il governo palestinese ha confermato 59 contagi nel territorio, la stragrande maggioranza a Betlemme. Le misure adottate dalle autorità per fermare la diffusione del virus hanno riportato un certo senso di calma tra la popolazione, ma per i palestinesi sono arrivate altre cattive notizie: il nuovo coronavirus ha raggiunto le carceri israeliane, dove sono rinchiusi cinquemila prigionieri politici palestinesi.

Il Comitato per i prigionieri palestinesi ha riferito che un detenuto del carcere di Ashkelon, nel sud d’Israele, aveva avuto contatti con un medico israeliano risultato poi positivo al nuovo coronavirus. Qadri Abu Bakr, presidente del comitato, ha annunciato che il detenuto è stato messo in quarantena insieme ad altri 19. Intanto i mezzi d’informazione israeliani e palestinesi hanno parlato di casi sospetti in altre due carceri, quella di Ramla e il centro di detenzione Moscobiya a Gerusalemme.

In entrambe le prigioni i detenuti sono stati messi in quarantena dopo aver avuto contatti con agenti israeliani sospettati di essere stati esposti al virus. I Servizi penitenziari israeliani hanno annunciato un piano per sgomberare un carcere vicino al confine egiziano e destinarlo ai detenuti contagiati, e hanno deciso di bloccare tutte le visite dei familiari.

I palestinesi però temono che il governo e le autorità carcerarie israeliane non stiano facendo abbastanza per impedire la diffusione del virus e curare le persone che potrebbero ammalarsi.

Il sovraffollamento potrebbe favorire il contagio tra i detenuti palestinesi

“È noto che le carceri israeliane sono vecchie, sporche e sovraffollate. Sono carenti di forniture igienico-sanitarie, anche le più basilari”, dichiara l’attivista palestinese ed ex detenuto Mohammed Abed Rabo, 48 anni. “Anche nel migliore dei casi nelle celle vivono tra i sei e i dieci detenuti, ma spesso sono di più”. All’ora dei pasti e durante le attività all’aria aperta più di 120 persone stanno insieme a distanza ravvicinata.

Abed Rabo teme che il sovraffollamento sarà uno dei principali fattori della diffusione dell’epidemia tra i detenuti palestinesi. Inoltre, aggiunge, l’assenza di prodotti igienici come i disinfettanti per le mani e il sapone non farà che peggiorare le cose. “Già in condizioni normali i detenuti non hanno a disposizione i prodotti di base per lavarsi”, afferma Abed Rabo. Secondo gli avvocati di alcuni detenuti i servizi penitenziari israeliani non hanno fatto niente per affrontare il problema.

“Dovrebbero dare ai detenuti mascherine, guanti, disinfettanti per le mani e una quantità maggiore di sapone, oltre a concedergli la possibilità di lavare più spesso vestiti e lenzuola. Si limitano a metterli in quarantena”. Una quarantena, osserva Abed Rabo, che consiste nel finire in isolamento. “Come possono ricevere le cure adeguate se finiscono in quelle terribili celle? È così che si trattano degli esseri umani malati?”.

Negligenza deliberata
Per anni gli attivisti palestinesi per i diritti umani hanno documentato quella che hanno definito una politica di “negligenza medica deliberata” da parte delle autorità carcerarie d’Israele. Dalla seconda intifada (2000-2005) 17 detenuti palestinesi sono morti come risultato diretto della negligenza dei medici.

In un rapporto del 2016 il gruppo in difesa dei diritti umani Addameer registrava la presenza di almeno duecento prigionieri con patologie croniche, tra cui una ventina di malati oncologici, altre decine affetti da disabilità fisiche e psicologiche e 25 ricoverati in modo permanente nella clinica del carcere di Ramla.

“Molti di questi pazienti hanno problemi respiratori e cardiologici, e malattie autoimmuni”, dichiara Abed Rabo, sottolineando che una parte significativa della popolazione carceraria è formata da uomini di mezz’età o anziani.

“Le caratteristiche demografiche dei detenuti sono le stesse di quella fascia della popolazione per cui il nuovo coronavirus potrebbe essere letale”, commenta. “E questo è terribile”.

Già ora i detenuti ammalati non ricevono le cure di cui avrebbero bisogno. “I dottori vengono raramente, ai pazienti con disturbi gravi sono spesso prescritti antidolorifici generici, mentre chi ha bisogno di cure come la dialisi o la chemioterapia non le riceve con regolarità”, dice Abed Rabo. “Immaginate cosa potrebbe accadere se questi detenuti dovessero essere esposti all’epidemia”.

Gli israeliani stanno affrontando la minaccia del nuovo coronavirus con grande serietà, ma Abed Rabo dubita che curare i detenuti palestinesi sarà una priorità. “Hanno dimostrato più volte di non avere considerazione per le vite dei palestinesi, in particolare dei detenuti. Perché ora dovrebbe essere diverso?”.

(Traduzione di Giusy Muzzopappa)

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