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Le cinque sfide del nuovo sultano dell’Oman

Il sultano Haitham ben Tarek bin Taimour al Said (al centro) incontra il segretario di stato statunitense Mike Pompeo al palazzo reale, Muscat, il 21 febbraio 2020. (Andrew Caballero-Reynolds, Reuters/Contrasto)

Contrariamente alle previsioni di molti occidentali ma come disposto dal testamento del sultano Qabus bin Said al Said (1940-2020), aperto dopo il suo decesso, in Oman il potere è passato nelle mani del cugino Haitham ben Tarek bin Taimour al Said.

Dopo i cinquant’anni di regno del suo predecessore, quest’ultimo dovrà trovare un equilibrio tra la continuità diplomatica e le riforme economiche e politiche.

Il nuovo sultano era stato adeguatamente preparato da Qabus ad assumere l’incarico. Nel corso degli anni, infatti, gli erano state affidate diverse funzioni ufficiali, tra cui quella di segretario generale incaricato degli affari politici all’interno del relativo ministero, quella di ministro delegato (1994-2002), quella di rappresentante speciale del sultano (dal 2002 fino alla scomparsa di Qabus) e quella di presidente del comitato Oman 2040, il progetto con cui il sultanato vorrebbe diversificare le fonti di reddito e le attività extra petrolifere creando nuovi posti di lavoro.

Generazioni future in pericolo
Le sfide che attendono il nuovo sovrano, sul fronte esterno e interno, sono numerose. A cominciare dalla riforma economica, con la creazione di posti di lavoro per i giovani, la diversificazione delle fonti di reddito, l’attrazione di investimenti e il sostegno a una crescita che non supera il 4 per cento. Studi recenti indicano che in base alle previsioni più ottimiste le riserve di petrolio basteranno per appena una ventina d’anni, mentre quelle di gas naturale dureranno per non più di 35 anni (a meno di scoprire nuovi giacimenti).

Il tema della riforma economica è determinante in un paese dove il 20 per cento dei giovani non ha un impiego a causa della discrepanza tra il livello di istruzione e il mercato del lavoro, e dove gli stranieri rappresentano circa il 60 per cento della manodopera.

Il crollo del prezzo del petrolio dopo il 2014 ha incrementato il deficit delle finanze pubbliche. Per riequilibrare la bilancia servirebbe un prezzo del barile superiore al tetto degli 80 dollari (72 euro), come accade anche negli altri paesi del Golfo. Nel 2016 il deficit era di 13,8 miliardi di dollari, ovvero il 20 per cento del pil nazionale. Nel 2017 il debito interno ha raggiunto il 46,9 per cento del pil, mentre quello estero, costituito soprattutto da prestiti contratti con la Cina, ammontava a 46,27 miliardi di dollari, una situazione che inevitabilmente avrà un forte impatto sul reddito nazionale e rappresenterà un peso per le generazioni future.

Nonostante il modesto pil statale rispetto alle altre monarchie petrolifere del Golfo (72,64 miliardi di dollari), in Oman il pil per abitante resta molto elevato (15.668 dollari). Per fare un paragone, il pil dell’Arabia Saudita è di 638,8 miliardi di dollari, ma quello pro capite non supera i 20.760 dollari. Eppure, in assenza di una reale riforma, la forte crescita demografica dell’Oman (4,7 per cento) rischia di compromettere quella economica.

Nel frattempo la lotta contro il coronavirus potrebbe prosciugare le riserve monetarie, perché sarà necessario assicurare l’approvvigionamento di derrate alimentari e contemporaneamente contrastare la disoccupazione e iniettare capitali nelle borsa per rilanciare un’economia claudicante. Il sultanato ha già adottato diverse misure d’austerità, come la cancellazione parziale dei sussidi sui prodotti derivati dal petrolio, una decisione che ha innescato manifestazioni di protesta soprattutto da parte dei giovani che lo stato, fedele alla sua tradizionale politica di diniego, ha scrupolosamente passato sotto silenzio.

Informazione imbavagliata
La seconda sfida che attende il nuovo sultano è quella della riforma politica, con l’aumento delle libertà e l’apertura dello spazio pubblico alla società omanita. Secondo l’indice della libertà di stampa redatto da Reporters sans frontières, nel 2019 l’Oman si è piazzato al 132º posto su 180. La tv di stato conta appena due canali, e nel paese esistono solo cinque quotidiani, che pur essendo controllati dai privati sposano la linea del governo. Le autorità hanno rafforzato una censura già severa nei confronti di giornali e pubblicazioni, e hanno moltiplicato gli arresti dei militanti politici soprattutto dopo gli eventi della “primavera araba”, con una durissima repressione da parte dell’apparato di sicurezza. Al momento non si conosce il numero di detenuti politici nel paese. Nel luglio 2010 una cinquantina di persone aveva presentato al sultano Qabus una petizione per rivendicare “una costituzione contrattuale”, diritti fondamentali e un’assemblea legislativa interamente eletta. Ma le richieste erano state respinte.

La legge omanita non prevede che i cittadini possano scegliere il loro governo attraverso elezioni libere e trasparenti. Nella sua edizione del 12 marzo 2014, il quotidiano online Al Balad si chiedeva se non fosse arrivato il momento di nominare un primo ministro, anche considerando che il sultano Qabus subiva le critiche dei militanti politici e dei difensori dei diritti umani a causa della stretta che esercitava sulla politica interna ed estera. In Oman il sultano presiede il consiglio dei ministri e ricopre gli incarichi di ministro della difesa, ministro degli esteri, ministro delle finanze, governatore della banca centrale e capo supremo delle forze armate.

In un contesto segnato dall’aumento di persone scolarizzate e dall’aumento del numero dei giovani (secondo il Centro nazionale di statistica e informazione 1,2 milioni di omaniti, ovvero il 46,7 per cento della popolazione, hanno un’età compresa tra 18 e i 27 anni) la società chiede con insistenza la nascita di una monarchia costituzionale, la creazione di partiti politici, l’adozione di una costituzione degna di questo nome e l’organizzazione di elezioni libere e trasparenti. Le riforme politiche introdotte dal sultano Qabus – l’adozione di una legge fondamentale facente le veci di una costituzione e la creazione del consiglio del sultanato dell’Oman, un parlamento bicamerale composto da un consiglio consultivo e da un consiglio di stato – hanno avuto una certa rilevanza se paragonate alla situazione nei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg). Tuttavia non sono più sufficienti nell’epoca delle nuove tecnologie di comunicazione, in cui la popolazione può avere accesso ad altri modelli politici.

L’importanza della diplomazia
La terza sfida riguarda la politica estera. Durante il regno di Qabus l’Oman ha sempre scelto la neutralità, mantenendo rapporti equilibrati con i diversi protagonisti del conflitto mediorientale e conservando relazioni cordiali sia con Israele sia con l’Autorità palestinese. I rapporti erano distesi anche con l’Iran e gli Stati Uniti, e questo ha permesso alla monarchia di ricoprire un ruolo importante nella trattativa che nel 2015 ha portato alla firma dell’accordo sul nucleare tra Teheran e Washington. Il sultanato ha coltivato relazioni equilibrate anche con la Cina, l’India e il Pakistan, malgrado le tensioni persistenti tra gli ultimi due paesi. Mascate ha addirittura permesso all’India, alla Cina, all’Iran e al Regno Unito di investire nel settore logistico senza fare alcuna distinzione. Questa politica estera bilanciata e pragmatica ha permesso al potere di non restare invischiato nei conflitti regionali, nonostante il pericolo che questi rappresentavano per la sicurezza nazionale.

Presentando il suo paese come stato pacifista, il defunto sovrano aveva cercato di affermare “l’eccezione omanita”

Dal 2014 l’Oman ha inoltre adottato una posizione ufficiale di neutralità nella crisi del Qatar con i paesi del Ccg, e ha tentato di trovare una via d’uscita attraverso una mediazione diplomatica. Numerosi rappresentanti delle élite politiche e di sicurezza omanite hanno sostenuto questo approccio diplomatico e considerano il sultano defunto uno stratega di alto livello. Ora però le stesse persone temono un possibile cambiamento in politica estera.

In effetti, pur mantenendo ufficialmente la sua neutralità nella questione yemenita e operando come mediatore, l’Oman chiude un occhio davanti al passaggio di armi iraniane destinate agli huthi attraverso la sua frontiera con lo Yemen, un fatto che ha irritato sia Washington sia Riyadh e Abu Dhabi. In questo senso bisogna ricordare che l’Oman considera gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita come le principali minacce potenziali per la sua sicurezza nazionale, ritenendoli nemici del sultanato molto più dell’Iran. Durante la sua visita nel marzo 2018, il capo del Pentagono aveva affrontato il tema del traffico di armi destinate agli huthi attraverso la frontiera omanita. Più recentemente, il 4 marzo 2020, lo stesso problema è stato discusso a Mascate dal viceministro saudita della difesa Khaled bin Salman (fratello di Mohamed bin Salman), in un’atmosfera piuttosto tesa.

La diplomazia della mediazione è la conseguenza diretta della debolezza militare del sultanato. Presentando il suo paese come stato pacifista, il defunto sovrano aveva cercato di affermare “l’eccezione omanita” per ritagliarsi, nel contesto della politica internazioanle, un ruolo slegato dalle possibilità militari e dall’impatto reale del paese nell’equilibrio tra le forze mondiali e regionali.

Al momento nulla lascia pensare che in futuro l’Oman rinuncerà a questo approccio. Al massimo sarebbe auspicabile che l’Oman passasse dal suo attuale ruolo ridotto nella diplomazia della mediazione (che consiste nel mettere a disposizione dei belligeranti un luogo neutro per condurre i negoziati) a un’attività più concreta, magari presentando alcune proposte come base di trattativa.

Uno stato confessionale
La quarta sfida è quella della riforma amministrativa. Nell’ultimo decennio del regno di Qabus la corruzione ha travolto il paese, spingendo il sultano a deporre diversi ministri. Questo fenomeno si spiega in parte con il sistema di quote politiche e amministrative instaurato dal defunto sovrano su base etnica e tribale. L’Oman è uno stato confessionale che non ammette di esserlo. All’interno del paese coesistono tre gruppi etnici di cui ignoriamo il peso a causa della mancanza di numeri: i beluci non arabi, gli omaniti arabi e gli omaniti africani. Le nomine per gli incarichi ad alto e medio livello vengono decise in base a questa composizione, senza alcuna considerazione né di merito né di competenza.

Per fare un esempio, il presidente arabo dell’università Sultano Qabus ricopre l’incarico da una ventina d’anni, e seguendo il sistema di quote anche quasi tutti i presidi di facoltà e i capi di dipartimento sono omaniti arabi. I beluci dominano le istituzioni militari e di sicurezza, perché dopo la guerra del Dhofar hanno conquistato la fiducia del sultano defunto e perché sono entrati nelle forze armate e nell’apparato di sicurezza ben prima degli arabi. Queste quote etniche ricalcano una divisione confessionale: i beluci sono sunniti, mentre gli omaniti arabi e africani sono in maggioranza ibaditi.

Declino dell’istruzione
L’ultima sfida che attende il nuovo sultano è quella della riforma dell’insegnamento. Dopo aver creato una serie di scuole pubbliche, il sultano Qabus non ha voluto aumentarne il numero. Il livello dell’insegnamento preuniversitario è molto basso a causa dell’incompetenza dei responsabili, dell’esiguità dei fondi dedicati all’istruzione e della pessima qualità dei programmi. Fatta eccezione per le scuole internazionali e comunitarie, in Oman non si può parlare di un vero insegnamento preuniversitario.

L’università fondata dal sultano defunto segue formalmente il modello occidentale ed è dotata di un bilancio speciale, separato da quello del ministero dell’istruzione. Non volendo creare altre istituzioni, il sovrano ha autorizzato solo la fondazione di università private, spesso di qualità scadente. Nel corso degli anni anche il livello dell’università Sultano Qabus è progressivamente peggiorato, e l’istituzione è scomparsa dalle classifiche internazionali. Questo declino si spiega in parte con ragioni amministrative e finanziarie, ma anche con considerazioni legate alla politica e alla sicurezza. Le prime sono relative alla scelta dell’università di ridurre le spese a scapito della parte pedagogica.

Costretti a dimenticare la loro preparazione scientifica e rimasti in fondo alla scala sociale mantenendo il titolo di maestri assistenti, gli insegnanti hanno visto il loro stipendio ridursi della metà. Cancellate le promozioni, sono stati tagliati anche i fondi dedicati alla ricerca, con un disinteresse crescente verso le pubblicazioni scientifiche e la creazione di centri specializzati. Per questo motivo numerosi insegnanti stranieri hanno lasciato l’università per trasferirsi in istituti che valorizzano di più le loro competenze o per raggiungere i paesi d’origine.

La ragione legata alla sicurezza, invece, è la stessa che spiega il numero limitato di scuole, ovvero il rifiuto di allargare la base della classe media istruita in modo da ridurre al minimo l’opposizione. Il sultanato dell’Oman vorrebbe presentarsi come la Svizzera del Medio Oriente, uno stato neutro e difensore della pace. Il nuovo sultano manterrà questa linea, perché altrimenti perderebbe il sostegno dei militari. L’esercito, infatti, è perfettamente consapevole che il paese non può ricoprire un altro ruolo considerando i suoi mezzi, senza contare che l’economia nazionale è troppo debole per sostenere le pressioni che nascerebbero da un’inversione di rotta. Al momento l’unica riforma che sembra davvero all’ordine del giorno e quella del settore economico, anche perché è indispensabile per la sopravvivenza dell’Oman.

(Traduzione di Andrea Sparacino)

Questo articolo è uscito sul giornale online Orient XXI.

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