Era da tempo che Barack Obama aveva programmato il suo viaggio a Cuba del 21 e 22 marzo. La visita sull’isola, la prima di un presidente statunitense in 88 anni, aveva lo scopo di ratificare l’avvicinamento tra i due paesi. Sia tra i democratici che tra i repubblicani si sono levate voci critiche per contestare il viaggio a causa delle violazioni dei diritti umani all’Avana. La Casa Bianca ha quindi pensato di trasformare la visita a Cuba in un tour latinoamericano e ha aggiunto una destinazione molto più lontana: l’Argentina. E così Obama ha bilanciato l’incontro con il leader comunista Raúl Castro con quello con Mauricio Macri, il presidente argentino che in meno di quattro mesi di governo ha avviato una radicale apertura dell’economia dopo i dodici anni di amministrazione Kirchner.
Tuttavia, se a Cuba Obama ha dovuto rivendicare maggiori libertà e ha addirittura incontrato alcuni dissidenti, anche in Argentina è stato costretto ad affrontare il tema dei diritti umani. Il caso ha voluto che si trovasse a Buenos Aires il 24 marzo, proprio il giorno del quarantesimo anniversario del colpo di stato che ha inaugurato i sette anni più bui della storia argentina e che era stato appoggiato dall’allora presidente degli Stati Uniti, il repubblicano Gerald Ford (1974-1977).
Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace per la sua lotta contro il regime militare, aveva sperato che il leader democratico riconoscesse “l’interventismo” statunitense nei colpi di stato in America Latina negli anni settanta, in piena guerra fredda. Ma i governi di Stati Uniti e Argentina non sono riusciti a concordare un incontro tra Obama e i familiari delle vittime della dittatura (1976-1983). Le associazioni dei familiari hanno ottenuto almeno che Obama non visitasse la Escuela mecánica de la armada (Esma), dove sono state torturate migliaia di persone e centinaia di donne hanno partorito prima di sparire nel nulla. Macri ha quindi portato Obama al parco della memoria che si estende di fronte al Río de la Plata, in cui centinaia di sequestrati sono stati gettati vivi nei cosiddetti voli della morte. Subito dopo, il presidente statunitense ha preferito andare in Patagonia invece di fermarsi a Buenos Aires, dove migliaia di persone stavano per marciare contro il terrorismo di stato, come ogni 24 marzo.
Obama ha ammesso che gli Stati Uniti stanno riflettendo sul ruolo avuto nel colpo di stato del 1976
Al parco della memoria Obama ha messo in scena una sorta di autocritica. Dopo aver riconosciuto che quella piazza rappresenta “un omaggio all’eroismo” delle vittime della dittatura e che i familiari di quei morti combattono in prima linea per far sì che non si ripeta mai più nulla di simile, il presidente della maggiore potenza politica, economica e militare del mondo ha ammesso che “gli Stati Uniti stanno riflettendo su quanto è accaduto”. Il capo di stato, che nel 1976 aveva 14 anni, ha continuato: “So che esistono polemiche sul ruolo giocato dagli Stati Uniti in quegli anni. Ci stiamo lavorando. Le democrazie devono avere il coraggio di ammettere quando non sono state all’altezza degli ideali che sostengono, quando hanno indugiato troppo nell’esprimersi a favore dei diritti umani: è stato il caso dell’Argentina”. È stato un modo di ammettere il sostegno di Ford e del suo segretario di stato Henry Kissinger alle dittature latinoamericane e di rivendicare la svolta a favore dei diritti umani compiuta dal governo del democratico Jimmy Carter (1977-1981).
La stampa argentina ha interpretato il suo pensiero in modi molto diversi. Il giornale conservatore La Nación l’ha definita una “forte autocritica” degli Stati Uniti al loro appoggio ai regimi militari degli anni settanta. Il quotidiano Página/12, vicino al kirchnerismo e alle organizzazioni dei familiari delle vittime della dittatura, ha lamentato l’assenza di un’esplicita condanna del ruolo giocato da Washington in quegli anni. Anche il Nobel Pérez Esquivel, seppure critico nei confronti del kirchnerismo, è rimasto deluso.
Finora i terroristi di stato morivano in carcere, come il dittatore Jorge Videla, deceduto nel 2013 a 87 anni
A meritarsi invece encomi generalizzati è stata la decisione del presidente degli Stati Uniti di togliere il segreto di stato sugli archivi della Cia e del Pentagono degli anni della dittatura argentina. Nel 2000 Bill Clinton aveva rivelato l’esistenza di documenti del dipartimento di stato che poi sono stati presentati come prova ai processi contro gli esponenti del regime sudamericano.
L’Argentina ha ricordato i quarant’anni del golpe manifestando in modo abbastanza compatto contro il terrorismo di stato e a favore dei processi che hanno portato alla condanna di 669 criminali, tra cui militari, agenti di polizia e civili. In questo senso non c’è discontinuità tra i Kirchner, che nel 2003 avevano sollecitato la ripresa dei processi contro i terroristi di stato, e Macri, anche se per lui la commemorazione di quel tragico passato non è mai stata una priorità politica.
Eppure negli ultimi giorni il governo di Macri ha innescato una polemica proponendo che anche chi è condannato per crimini contro l’umanità (è il caso dei vertici del regime) possa scontare la pena agli arresti domiciliari dopo aver compiuto i 70 anni d’età. Finora i terroristi di stato morivano in carcere, come il dittatore Jorge Videla, deceduto nel 2013 a 87 anni. Ma i tempi sono cambiati.
A non essere cambiato invece è l’appello del Nobel Pérez Esquivel, che chiede di non condannare solo le violazioni dei diritti umani di quarant’anni fa, ma anche quelle che hanno continuato e continuano a perpetrarsi nel ventunesimo secolo in un’Argentina dove almeno un quarto della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
(Traduzione di Alberto Frigo)
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