Gli effetti collaterali in Italia del turismo spinto da cinema e serie tv
Com’è lontano il mondo visto da Lio Piccolo, poche case raccolte attorno a uno spiazzo sterrato, l’acqua come unico orizzonte, e appena un po’ di terra sotto i piedi. Sembra lontana perfino Venezia. Ci si arriva inseguendo una strada stretta quanto un’auto, che miracolosamente penetra l’acqua per qualche chilometro. Ogni cosa, in questo lembo estremo della laguna veneta, sembra inghiottita da nebbia e silenzio. Ma è un’illusione: un tempo qui erano tutte giuggiole, e ora sono solo turisti. Tanti. Così, per difendersi, Lio Piccolo è diventato una ztl, come fosse il centro di una grande città.
“Qui si veniva per lavorare”, racconta Giuseppe, 84 anni, contadino, che se ne sta seduto sotto una pergola, tra la chiesa e palazzo Boldù. “Poi sono arrivati il cinema e la tv. E un disastro di turisti”, dice, “ma se si comportano bene, a me non danno fastidio”. La notorietà a questo luogo così remoto l’hanno regalata infatti il cinema e la televisione: prima con Il signor Diavolo (2019) di Pupi Avati, quindi con L’Alligatore, serie tratta dai romanzi di Massimo Carlotto. Poi, naturalmente, pesa la straordinaria bellezza del posto. “E anche i fenicotteri”, aggiunge Lucia Zanella, titolare di un’osteria storica che si trova proprio dove la strada che porta a Lio Piccolo si stacca da quella principale.
“Qui noi continuiamo a fare ciò che abbiamo sempre fatto, c’è una tradizione che ci guida”, spiega Zanella, “ma questa era una zona famosa per gli orti e molti sono stati abbandonati. Chi aveva una casetta ci ha fatto un b&b. Ormai si vive sempre più di servizi al turista”. Certo, “il posto ha ancora una sua poesia”, dice, “ma ci sono momenti in cui non si riesce a camminare. Sembra di essere sulla Fifth avenue a New York e invece siamo nel mezzo della laguna di Venezia. Ci sentiamo un po’ intrappolati”.
Peggio è andata a Braies, in Alto Adige, sontuoso riassunto dolomitico, dove si trova un lago di una bellezza che si fatica a definire. Utilizzato come set per la fiction Rai Un passo dal cielo con Terence Hill, il lago è diventato velocemente una star internazionale capace di attrarre fino a 15mila turisti al giorno. Troppi per una valle che conta 650 abitanti in tutto. Così, alcuni imprenditori hanno proposto un piano per tenerne sotto controllo il flusso. E non è un paradosso che a farlo sia proprio chi lavora con il turismo.
Bruno Heiss, titolare della palafitta sul lago che nella fiction è il rifugio di Terence Hill e nella realtà affitta barche a remi ai turisti, spiega infatti che “il mordi e fuggi danneggia la valle. Abbiamo i dati peggiori di tutto l’Alto Adige per quanto riguarda la gente che rimane a dormire, forse perché a tanti non fa piacere restare in un posto così affollato da turisti giornalieri”. Non tutti naturalmente sono d’accordo, ma intanto nella valle si è aperta una discussione. E, visto che la proposta di Heiss e dei suoi colleghi aspetta ancora risposte, anche qui non è rimasto che chiudere con una sbarra l’unica strada di accesso alla valle, e farne una ztl.
Ma al successo di Braies, va detto, insieme a cinema e tv, hanno contribuito, e molto, anche i social network. Infatti, da quando il lago si è conquistato una solida fama internazionale come destinazione tra le più fotografate e condivise su Instagram, gran parte dei turisti arriva dall’estero, soprattutto in cerca di uno scatto. Molte coppie vengono qui per le foto del matrimonio, pur essendosi sposate altrove. Yuxi e Duncan, per esempio, sono venuti dal North Carolina, negli Stati Uniti, con fotografo al seguito perché mentre erano in vacanza sul lago di Como alcuni amici gli hanno parlato di questo posto, e per averlo poi visto sui social. E così questo splendido lago ha finito per diventare il lago dei selfie, come lo hanno definito i giornali. Mentre il vecchio albergo fatto di grandi saloni, vetrate e boiserie, abituato ai tempi dilatati della villeggiatura del tempo che fu, e che da un secolo se ne sta sulle sponde del lago con severa dignità, si trova anch’esso assediato da una nuova forma di turismo, decisamente più rapida e rapinosa.
Quelli di Lio Piccolo e Braies sono casi emblematici ma non unici. Raccontano gli eccessi di un fenomeno vecchio quanto il cinema, ma che fino alla fine del novecento ha vissuto per lo più di amatori e scoperte casuali, e invece da qualche tempo sta radicalmente cambiando pelle. Si tratta del film induced tourism, o turismo cinematografico, un modo di viaggiare influenzato da cinema e tv, per cui si visitano i luoghi utilizzati come set, per semplice curiosità o per rivivere le emozioni vissute guardando un film. All’estero alcuni casi lo hanno reso oggetto di studio, per esempio Il signore degli anelli che, rileva Licia Bocchiola nel volume curato da Roberto Provenzano Al cinema con la valigia (FrancoAngeli 2007), è stato capace di ridefinire “il profilo della Nuova Zelanda e il suo appeal turistico”.
In Italia è dai primi anni duemila – quando all’Ischia film festival fu introdotto il neologismo cineturismo – che ha cominciato ad avere una certa consistenza, anche economica. Secondo uno studio riportato in Cinema, ambiente e territorio (Unicopli 2020) curato da Elena dell’Agnese e Antonella Rondinone, “ogni euro investito in produzioni audiovisive produce sul territorio in cui viene effettuato un reddito tra i 3,35 e i 3,54 euro”. E un rapporto del 2023 di Jfc stima che il cineturismo ormai sarebbe in grado di generare un valore pari a seicento milioni di euro a favore delle località coinvolte.
Si capisce allora l’interesse del settore pubblico e dei privati. Il sistema si è riorganizzato rapidamente, perdendo in parte la natura spontanea che aveva all’origine. È nata una borsa internazionale delle location cinematografiche. E soprattutto sono nate anche in Italia le film commission. La prima, nel 1997, in Emilia-Romagna. Sono per lo più emanazioni delle regioni, nate per sostenere il lavoro delle produzioni, per esempio nel rapporto con le burocrazie locali, nella ricerca delle location, nella gestione della permanenza delle troupe sul territorio, occupandosi anche della promozione del prodotto.
Quella pugliese è comunemente ritenuta un caso di studio, per il lavoro svolto e i risultati raggiunti. “In poco più di quindici anni di attività”, spiega la sua presidente Anna Maria Tosto, “Apulia film commission ha contribuito in maniera determinante a fare della Puglia una terra di cinema, con importanti ricadute economiche, comprese quelle nate dall’aumento dell’attrattività turistica”. “Oggi”, aggiunge, “la nostra regione conta una filiera produttiva locale dell’audiovisivo in piena evoluzione, e ciò dà luogo a occasioni di lavoro, di formazione professionale, di ricchezza”.
Il bilancio, insomma, è più che positivo. E molti studi condotti negli ultimi vent’anni sul rapporto tra cineturismo e territorio in Italia sembrano confermarlo. Tuttavia, molti di questi studi prendono in considerazione solo l’aspetto economico, senza porsi il problema del ruolo del cineturismo nella sempre più profonda turistificazione del territorio, che può avvenire in modo anche molto rapido e aggressivo, come dimostrano i casi di Braies e Lio Piccolo.
È evidente che la questione non riguarda il turismo cinematografico di per sé, attività piuttosto divertente, ma le dinamiche che si mettono in moto a causa della dimensione industriale che il fenomeno raggiunge. Si pensi per esempio a tutta l’attività di marketing territoriale che ormai gli ruota attorno. Un esempio classico è quello di Basilicata coast to coast, film del 2010 di Rocco Papaleo. Enrico Nicosia in Cineturismo e territorio (Patron editore 2012) e Andrea Lolli in Cinema e turismo (Carocci editore 2020) raccontano come soggetti istituzionali e stakeholder locali abbiano partecipato al finanziamento della pellicola, con una “operazione di branding” che, scrive Lolli, ha attribuito alla regione “lo status di una filosofia di vita vera e propria, fatta di umanità, qualità della vita e bellezza”.
L’operazione evidentemente è molto ben riuscita, tanto che, secondo uno studio della fondazione Enrico Mattei, l’uscita del film ha prodotto nell’immediato un aumento del 20 per cento delle presenze turistiche.
Tutto ciò dà la dimensione della capacità del cinema di costruire un immaginario che poi si trasforma in patrimonio popolare, e quindi in una sorta di realtà percepita, anche perché la sua seduzione fa leva su spettatori che gli si offrono disarmati rispetto, per esempio, a chi guarda uno spot pubblicitario.
Basti pensare a Roma, e a come a distanza di decenni la sua immagine per il pubblico internazionale sia ancora influenzata da film come La dolce vita (1960) di Federico Fellini o Vacanze romane (1953) di William Wyler. Un’infinità di turisti arriva in città inseguendo le atmosfere di quei film, e nulla sembra scoraggiarli, neanche il ruvido atterraggio nella realtà di una via Veneto desolatamente dimessa da decenni, o di una Fontana di Trevi trasformata in una bolgia infernale proprio per la massiccia presenza di turisti. Mentre la fila che si allunga stabilmente a Santa Maria in Cosmedin è formata da stranieri che vogliono rivivere la scena di Audrey Hepburn e Gregory Peck di fronte alla Bocca della verità, non certo da turisti interessati alla basilica.
Perfino Martin Parr, che per la capacità di ritrarre questo genere di scenari è considerato tra i grandi fotografi della modernità, di recente ha raccontato la difficoltà di scattare un’immagine soddisfacente a Fontana di Trevi.
Cinema e tv, insomma, hanno contribuito alla creazione di un’immagine irreale e stereotipata dei luoghi che hanno utilizzato, e l’avvento dei social network ha ulteriormente rafforzato il fenomeno, omologando anche desideri e aspettative dei turisti, e finendo per massificare ulteriormente alcune destinazioni. Com’è successo in val d’Orcia – dove in molti ormai vanno per farsi una foto sulle location del film Il gladiatore, condividerle online e poi ripartire – questo processo contribuisce a una perdita d’identità di luoghi che sono costretti a modificare la propria struttura economica per corrispondere alle attese dei visitatori e non perdere flussi turistici, finendo spesso per diventare caricature di se stessi. Ciò porta anche alla perdita di attività tradizionali e, più in generale, di una cultura del lavoro.
C’è insomma uno sviluppo che, per citare Pier Paolo Pasolini, non porta con sé alcun progresso. “È questa la ragione”, dice Anna Maria Tosto, “per la quale le film commission, per legge destinate a una missione prettamente economica, operando comunque in un settore a forte valenza culturale, devono farsi carico di incentivare anche qualitativamente le produzioni, e lavorare per una valorizzazione del territorio che resti ancorata ai modelli culturali propri dei luoghi, favorendo infine un’evoluzione culturale degli spettatori”.
Per il momento, questo riverbero del turismo cinematografico sulla realtà sembra particolarmente significativo sul mezzogiorno, rappresentato di frequente come un mondo felicemente arcaico, una sorta di idillio mediterraneo senza storia, e quindi antimoderno, in cui i turisti, arrivando dalle grandi città e inseguendo l’immagine costruita da film e serie tv, sembrano andare in cerca di una momentanea redenzione dalla modernità, e perfino di esotismi.
Senza arrivare a tanto, un esempio di questo genere di processi lo si vede da tempo nella Sicilia che ha ospitato le riprese del Commissario Montalbano, serie tratta dai romanzi di Andrea Camilleri e andata in onda con enorme successo sulle reti Rai a partire dal 1999. Si può dire anzi che la fiction, insieme all’inserimento del val di Noto nella lista Unesco arrivata tre anni dopo, abbia reinventato la Sicilia sudorientale come meta turistica, modificando profondamente la sua economia. Così, “nel 2005”, scrive Lolli, “la città di Modica ha decuplicato le presenze rispetto agli anni precedenti. Stesso discorso per la provincia di Ragusa dove, dalle poche decine di strutture ricettive presenti prima della serie tv, si è passati in pochi anni ad alcune migliaia, con un incremento costante dei visitatori nel corso degli anni, stimabile attorno al 15 per cento con alcune oscillazioni”.
Di tutto questo è un perfetto riassunto la storia del castello di Donnafugata, sontuoso palazzo isolato nelle campagne di Ragusa, utilizzato più volte come set. “Il castello”, spiega la responsabile della struttura Daniela Sgarioto, “è stato chiuso a lungo per restauro, perché si trovava in uno stato di forte abbandono. L’arrivo dei turisti è coinciso con la comparsa di Montalbano in tv. All’inizio alcuni visitatori volevano vedere solo la terrazza dove il commissario incontra l’anziano boss della famiglia mafiosa dei Sinagra, trascurando gli ambienti interni del palazzo. Oggi la situazione è cambiata. Le presenze sono in aumento e in pochi, ormai, chiedono degli ambienti dov’è stata girata la fiction”.
Soprattutto, l’arrivo del turismo di massa non sembra aver travolto il castello snaturandolo, “nonostante alcuni eccessi e certe bizzarrie”, dice Sgarioto. “Così, alla fine, il fenomeno Montalbano è stata una vera opportunità”. E tuttavia da queste parti ultimamente si vedono meno turisti di un tempo. “Forse perché è da un po’ che in tv non trasmettono le repliche della fiction”, aggiunge scherzando ma non troppo Sgarioto.
Lo stesso sembra succedere a Punta Secca, località sulla costa ragusana che negli ultimi vent’anni ha conosciuto una fama improvvisa e travolgente. A fine agosto la spiaggia è ancora affollata, ma davanti alla casa in cui nella fiction vive il commissario Montalbano non c’è più la folla di un tempo, animata da turisti di ogni parte del mondo.
È però Ragusa Ibla la città che più di tutte negli ultimi vent’anni ha riplasmato se stessa, adeguandosi alle attese dei visitatori in cerca delle atmosfere della serie tv. Ibla, comunque splendida, né è uscita come masticata, più simile a uno stereotipo camilleriano che a una città con secoli di storia alle spalle, quasi una scenografia a uso e consumo dei visitatori, come avevamo scritto nel 2020. Erano gli ultimi anni del picco montalbaniano, ma la crisi d’identità era già evidente. Ora che il fenomeno comincia a scemare ci si pone il problema di cosa fare di un’intera economia Montalbano-dipendente.
“Sì, la fine del fenomeno Camilleri si sente. E ora dovremmo reinventarci e capire cosa fare da grandi”, conferma Daniele La Rosa, presidente del consorzio Antica Ibla, formato da una novantina di aziende che operano nel centro della città. “Il fatto è”, spiega, “che ci siamo ritrovati una città turistica all’improvviso. C’è stata una forte crescita di bar, b&b e servizi destinati al turista, ma è accaduto senza una preparazione imprenditoriale e senza che la politica abbia saputo governare il fenomeno”.
Si contava insomma su una crescita inarrestabile, “ma stava facendo tutto Montalbano”, riassume con una battuta il libraio Marco Lo Monaco. E la politica, aggiunge La Rosa, “ancora oggi non sembra in grado di fare scelte, soprattutto quelle impopolari. Così la città diventa un luna park”.
Un po’ diversa è la situazione di Scicli, splendida cittadina barocca tra Modica e il mare, sede di numerosi set della fiction Rai, uno dei quali – il commissariato di Vigata – è diventato un’attrazione turistica con tanto di biglietto e visita guidata. Scicli, infatti, non si è consegnata del tutto a Montalbano, nonostante per Scicli Montalbano sia “uno spot che dura da venticinque anni”, come dice Emanuele Caschetto della cooperativa Agire, che gestisce alcuni luoghi turistici, tra i quali proprio il set ospitato al piano terra del palazzo comunale. “Quella fiction”, spiega il presidente di Agire, Enrico Statello, “ci ha messo nelle mani un tesoro enorme. Attorno gli è cresciuta un’economia forte, e forse la città si è fatta prendere la mano. Il punto ora è come andare oltre Camilleri”. Tuttavia, “quei mobili”, dice Statello indicando la scrivania di Montalbano, “riescono a mantenere progetti come il nostro, gestito da una cooperativa sociale che promuove cultura e inclusione. Altri luoghi della città da soli non ce la farebbero. Ora, però, con le istituzioni si dovrà lavorare per renderlo sostenibile”.
Va detto tuttavia che una certa crisi del turismo la si riscontra anche altrove, ed è dovuta, tra l’altro, all’affermazione di destinazioni come l’Albania. È successo, per esempio anche a Matera, come conferma Pasquale Doria, consigliere comunale eletto con una lista civica e cronista di lungo corso. “Quest’anno gli italiani sono quasi scomparsi”, dice, spiegando che probabilmente dipende anche dalla crisi che ha colpito il ceto medio. Mentre è buono il riscontro degli stranieri. “Il marchio Matera”, aggiunge, “si è consolidato, ma è sbagliato pensare che una città come questa possa vivere solo di turismo e attrarre a lungo quello di massa”. Inoltre, “Matera è stata un set eccezionale, ma non è stato solo il cinema a portare i turisti”.
Questo forse, anche per un tradimento, consumato all’atto della candidatura a capitale europea della cultura, evento che a partire dal 2019 ha stravolto irrimediabilmente la vita della città. In quella occasione le ragioni che spinsero Pasolini a sceglierla come set per Il vangelo secondo Matteo, ossia una critica feroce a un genere di modernità alla quale Matera aveva resistito fino a quel momento, furono prima invocate come strumento di marketing, e poi, appunto, tradite quando la città decise di inseguire quello stesso modello di sviluppo che Pasolini, scegliendo Matera, stava criticando. E così, per esempio, oggi porta Pistola, scelta per la sua ieraticità da Pasolini, ma anche da Mel Gibson per La passione di Cristo, appare assediata da locali, da un parcheggio e da un cantiere che sembra giacere abbandonato.
Diverso è il caso di Craco, paese disperso nelle campagne lucane, da cui gli abitanti se ne andarono nella seconda metà del novecento e spesso usato come set. Tra le macerie del paese ci sono tre croci, tirate su per uno spettacolo teatrale e poi rimaste lì. Sono tanti i turisti che chiedono se siano quelle usate per la pellicola di Gibson. “Molti vengono proprio per quel film, o per quello di Papaleo, facendo lo stesso percorso dei protagonisti della storia”, racconta Pasquale Ragone, della cooperativa che gestisce le visite. Ragone ricorda ancora quando, sempre qui, nel 1979 fu girato Cristo si è fermato a Eboli di Francesco Rosi. I visitatori sono circa trentamila ogni anno, e aumentano costantemente. Ma, dice Ragone, “la crescita non ha snaturato questo luogo”. A Craco insomma il cineturismo mostra il proprio volto gentile. Ma è un’eccezione.
E, anzi, proprio lo sviluppo industriale del turismo cinematografico sta favorendo un più generale fenomeno che ha investito il modo di fare turismo negli ultimi anni. Nel viaggio cineturistico di massa e condiviso sui social network, infatti, al centro di ogni cosa c’è sempre più il turista stesso. Così che, più che un dialogo tra viaggiatore e paesaggio, ogni attività si risolve sempre più frequentemente in un monologo del turista. Non a caso, più che di viaggio ormai si parla di esperienza, con un linguaggio che riprende e rinnova nel significato quello dei viaggi iper-organizzati, come le crociere. Infine, i social network hanno favorito la trasformazione della visita di un luogo in una messa in scena permanente.
“Milioni di persone”, ha osservato Martin Parr, “prendono un aereo, fanno lunghi viaggi per arrivare nei luoghi che desiderano visitare. E una volta lì, fanno lunghe code per accedervi. E quando è il loro turno, prendono il cellulare e si scattano un selfie. L’impressione è che non facciano neppure attenzione al luogo in cui sono, l’importante è quella foto ricordo”. Siamo dalle parti di quanto scriveva Guy Debord in La società dello spettacolo: “Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”.
Ciò che conta insomma non è più la realtà, non sono più l’incontro, la scoperta o il piacere del viaggio, ma l’immagine di tutto questo e la propria autorappresentazione da condividere con i follower. Come scriveva Jean Baudrillard nel Delitto perfetto, “la realtà è stata scacciata dalla realtà”, e al suo posto ora c’è “una profusione di immagini in cui non c’è niente da vedere”. Viene in mente allora Ammore e malavita, dei Manetti bros, in cui è acutamente messa in scena la felicità di una turista per aver vissuto “l’esperienza turistica definitiva”, ossia essere stata scippata a Scampia nel corso di una visita guidata sui luoghi di Gomorra. Ammore e malavita è del 2017. Appena ieri. A rivedere oggi quella sequenza non c’è più ironia, e neanche sarcasmo. Ciò che resta è una desolante fotografia dell’esistente.
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