Pochi giorni dopo aver vinto le elezioni, Giorgia Meloni ha pubblicato un tweet in cui diceva di essere vicina agli abitanti della Florida, colpiti dall’uragano Ian, e al governatore dello stato Ron DeSantis. Questo messaggio abbastanza insolito – non capita spesso che una (futura) leader di governo europea si rivolga direttamente al governatore di uno stato americano – forse ci dice qualcosa sul posizionamento di un futuro governo Meloni sulla scena internazionale (atlantista in senso classico ma senza bruciare i ponti con l’estrema destra); di sicuro dice qualcosa sul governatore della Florida.

DeSantis è uno dei politici statunitensi più rilevanti in questo momento, visto che ambisce a prendere il posto di Donald Trump alla guida della destra americana. Negli ultimi tempi, a mano a mano che sono aumentati i problemi giudiziari dell’ex presidente, è cresciuto anche il protagonismo del governatore (qualche settimana fa ho raccontato di come ha usato i migranti venezuelani per mettere in difficoltà i democratici e alimentare la sua immagine nazionale).

Prima che DeSantis diventi il nuovo volto del Partito repubblicano devono ancora succedere molte cose, ma osservare la sua parabola politica può aiutare a capire la direzione della destra americana e del paese in generale. Qualche settimana fa il New York Times Magazine gli ha dedicato un lungo articolo.

La storia personale e politica di DeSantis rispecchia bene l’evoluzione della destra statunitense negli ultimi quarant’anni. È nato a Jacksonville, in Florida, in una famiglia di origini italiane della classe media – suo padre installava sistemi per misurare l’audience televisiva, sua madre era un’infermiera. Da ragazzo DeSantis idolatrava Richard Nixon e sognava di diventare a sua volta presidente.

In meno di tre anni, da quando è diventato governatore della Florida, ha messo il suo stato alla guida del movimento conservatore nazionale

A differenza di Nixon, che aveva sempre disprezzato le cosiddette élite (un sentimento ampiamente ricambiato) e non aveva mai dovuto fingere di essere un outsider, DeSantis è arrivato in politica con addosso il marchio dell’élite – capitano della squadra liceale di baseball, laurea in storia a Yale e in diritto a Harvard, servizio nella marina – e ha dovuto sforzarsi parecchio per liberarsene. Quando è stato eletto alla camera in rappresentanza della Florida, nel 2012, i sostenitori lo chiamavano “the résumé”, il curriculum.

Da parlamentare non si è distinto per nessuna battaglia o posizione particolare. Di sicuro non sembrava particolarmente estremista. Era cattolico, ma non interessato alle crociate sull’aborto o ai diritti lgbt+, e sembrava abbastanza insofferente nei confronti dell’ala paranoica del partito (quella del “ci stanno portando via il nostro paese”), all’epoca ancora minoritaria.

Se si parte da queste premesse, il cambio di traiettoria di DeSantis è notevole, ed è notevole anche il successo della sua operazione politica. In meno di tre anni, cioè da quando è diventato governatore della Florida, ha messo il suo stato alla guida del movimento conservatore nazionale, ancora prima del Texas. Ci è riuscito prima di tutto facendo propri i temi e le parole d’ordine introdotti da Donald Trump: la grande frode elettorale dei democratici e dello stato profondo, la dittatura del politicamente corretto, la corruzione delle élite urbane e colte, i danni della cosiddetta ideologia gender.

Un tocco di rispettabilità
La svolta è arrivata nella seconda fase della pandemia di covid-19, quando DeSantis si è messo alla testa di quella parte del paese che si opponeva alle chiusure e alle restrizioni volute dall’amministrazione Biden. Ha cominciato a vantarsi di essere il governatore dello “stato libero della Florida”. Il suo approccio alla pandemia ha fatto danni enormi: in Florida 81mila persone sono morte finora di covid-19. Ma DeSantis non ne è stato danneggiato politicamente, anzi ha guadagnato ulteriori consensi tra chi – famiglie con figli in primis – è diventato insofferente a qualsiasi tipo di restrizione. A tutto questo bagaglio trumpiano DeSantis cerca di aggiungere un tocco di rispettabilità che possa attirare l’elettorato conservatore stanco degli eccessi caratteriali e della mancanza di visione strategica dell’ex presidente. “Un Trump 2.0”, sintetizza il New York Times.

Per ora la strategia sembra funzionare, visto che il governatore sta guadagnando il favore di due settori fondamentali del mondo conservatore: le emittenti televisive di destra e i principali donatori elettorali.

Ma è presto per fare previsioni in vista delle presidenziali del 2024, perché al momento la destra americana sembra vivere una fase di congelamento, in cui Trump è in grossa in difficoltà ma troppo popolare per essere buttato giù dal piedistallo. Se DeSantis dovesse gettare il guanto di sfida troppo presto, rischierebbe di compromettere le sue ambizioni politiche nazionali.

Per questo, spiega il New York Times, in privato dice ai donatori di volersi candidare alle elezioni del 2024, ma rifiuta di rispondere a chi gli chiede se sarebbe disposto a sfidare Trump alle primarie repubblicane. Trump ovviamente lo considera un ingrato e un traditore, visto che nel 2018 gli ha dato una grossa mano per diventare governatore della Florida. Intanto a novembre DeSantis dovrà vincere le elezioni per essere confermato governatore (i modelli di previsione lo danno nettamente favorito).

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