L’ultimo numero del mensile The Atlantic è dedicato alla Ricostruzione, il periodo che va dal 1865, l’anno in cui finì la guerra civile, al 1877. La maggior parte degli storici la considera una grande occasione persa: le promesse che avrebbero dovuto trasformare il sud in un posto più moderno dal punto di vista economico, politico e sociale furono tradite, i problemi legati all’integrazione dei neri dopo l’emancipazione restarono irrisolti e anzi peggiorarono, lasciando spazio al terrore del Ku klux klan e a quasi cento anni di segregazione.
Ma durante la Ricostruzione furono anche gettate le basi per una serie di tendenze che hanno segnato in positivo la cultura degli Stati Uniti. È il caso, per esempio, del contributo degli afroamericani alla musica del novecento. Dell’influenza dei negro spirituals (i canti religiosi nati tra gli schiavi) si è parlato molto, ma non tutti conoscono la storia delle persone che portarono questa forma d’arte all’attenzione del grande pubblico. Ne scrive Vann R. Newkirk II nello speciale dell’Atlantic.
Un inizio difficile
Nel 1871 dieci ragazzi che facevano parte del coro della Fisk university di Nashville, in Tennessee, partirono per una tournée. Avevano tra i 14 e i vent’anni. Alcuni erano nati in schiavitù. Uno di loro, Benjamin Holmes, nel 1863 aveva letto ad alta voce ad altri schiavi il proclama di emancipazione promulgato da Abraham Lincoln. Il loro obiettivo era raccogliere fondi per salvare la scuola, che dopo l’abolizione della schiavitù aveva perso donazioni e rischiava di chiudere.
Speravano che cantando le loro canzoni nelle città del nord, davanti a pubblici prevalentemente bianchi, avrebbero potuto raccogliere fino a ventimila dollari (circa 500mila dollari di oggi). Si facevano chiamare i Fisk Jubilee Singers. Nel loro repertorio c’era Steal away, uno spiritual che poi sarebbe stato interpretato da molti artisti.
Mahalia Jackson e Nat King Cole cantano una versione di Steal away
La prima parte del tour fu difficile e pericolosa. Quelle persone non avevano mai viaggiato in vita loro: quando partivano dal sud rischiavano di essere aggredite e linciate (in quel periodo proprio in Tennessee era nato il Ku klux klan), e le minacce di violenza non cessavano una volta che erano arrivati a nord. Il pubblico bianco spesso si prendeva gioco degli artisti durante i concerti, e al gruppo veniva regolarmente vietato di alloggiare negli alberghi.
Poi, tra una tappa e l’altra, successe qualcosa che avrebbe cambiato il destino del gruppo e la storia della musica. All’inizio del tour i Fisk Jubilee Singers attinsero per lo più a un repertorio di canzoni conosciute al grande pubblico, per dimostrare di poter essere all’altezza dei cori formati da bianchi e per impressionare gli spettatori davanti ai quali si esibivano.
“Non era una cosa da poco”, spiega Vann R. Newkirk II. “In quel periodo gli statunitensi bianchi, anche molti di quelli liberali, erano convinti che i neri appena usciti dalla schiavitù fossero inferiori dal punto di vista intellettuale, morale e culturale. Al massimo gli afroamericani venivano associati ai minstrel shows”, spettacoli che erano un misto di sketch comici, balli e musica, il più delle volte interpretati da attori bianchi con la faccia dipinta di nero.
Canzoni del dolore
Nonostante questo il pubblico non era contento. Così nella tappa di Oberlin, in Ohio, i Fisk Jubilee Singers decisero di presentare un nuovo repertorio, canzoni che la maggior parte dei bianchi non aveva mai sentito. “Mettevano insieme frammenti di canti di lavoro e sorrow songs (canzoni del dolore) che molti studenti, o i loro genitori, avevano imparato durante la schiavitù. Per quell’occasione buttarono giù i pezzi, formalizzando il genere man mano che procedevano”.
Sembra che i cantanti fossero molto combattuti sull’opportunità di portare in scena gli spirituals. Quelle canzoni erano associate a eventi orrendi che gli artisti avevano vissuto in prima persona, a un passato da dimenticare. “Inoltre erano anche considerate sacre. Per alcuni mettere i testi su carta significava violarne lo spirito”.
È un elemento comune a tutte le storie di emancipazione di gruppi oppressi: la tensione tra il tentativo di guadagnare legittimità nella società, facendo confluire le proprie forme artistiche nella cultura mainstream, e il rischio di indebolire la propria identità e la propria cultura.
Alla fine i Fisk Jubilee Singers divennero uno degli spettacoli più famosi del mondo. Andarono in tournée fino al 1872, catturando l’attenzione del pubblico bianco e nero. Il loro successo nazionale li lanciò all’estero. Cantarono per la regina Vittoria e per il kaiser Guglielmo I. Raccolsero quasi 100mila dollari, cinque volte l’obiettivo iniziale.
“Il tour salvò la Fisk university, ma soprattutto preservò una forma d’arte. Il repertorio del gruppo diventò la base per le raccolte di canzoni usate ancora oggi nelle chiese nere. Gli spirituals catturarono l’immaginazione degli scrittori. Mark Twain divenne una specie di groupie dei Jubilee Singers, assistendo a diversi spettacoli per sperimentare la musica che definì ’il fiore più perfetto dei tempi’”.
Questo testo è tratto dalla newsletter Americana
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