×

Fornisci il consenso ai cookie

Internazionale usa i cookie per mostrare alcuni contenuti esterni e proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o negare il consenso, consulta questa pagina.

Joe Biden e il complesso del salvatore

Joe Biden a Marietta, in Georgia, Stati Uniti, 27 giugno 2024. (Mandel Ngan, Afp)

Nei giorni dopo il primo dibattito tv, disastroso per Joe Biden, i democratici statunitensi sono passati velocemente dal panico al caos. A inizio settimana, quando si è capito che la strategia del presidente e dei suoi collaboratori consisteva sostanzialmente nel minimizzare le conseguenze del dibattito, alcuni dirigenti del Partito democratico, tra cui l’ex presidente della camera Nancy Pelosi, hanno espresso per la prima volta in pubblico le loro preoccupazioni sulla campagna elettorale.

I giornali hanno pubblicato resoconti sugli sforzi affannati della Casa Bianca per convincere i dirigenti democratici più critici a non voltare pubblicamente le spalle al presidente. Secondo una notizia riportata dal New York Times il 3 luglio, “Biden avrebbe detto a un alleato che potrebbe decidere di farsi da parte se nei prossimi giorni non riuscirà a convincere l’opinione pubblica di essere all’altezza della campagna elettorale”. La notizia è stata smentita con sdegno della Casa Bianca, e poche ore dopo c’è stata una riunione d’emergenza tra il presidente e alcuni governatori democratici, che hanno confermato il loro sostegno alla campagna elettorale di Biden. Intanto però un gruppo di senatori democratici organizza un fronte compatto per cercare un’alternativa. Importanti donatori dicono che non finanzieranno il partito finché Biden non si ritirerà. E cresce il nervosismo tra i democratici in corsa per un seggio al congresso alle elezioni di novembre, che temono di essere trascinati a fondo dall’impopolarità del presidente. Gli argini insomma stanno saltando e presto la piena potrebbe diventare incontrollabile.

Politico ha riassunto così lo stato delle cose: “Nei colloqui con i membri della famiglia e i collaboratori più vicini non si è parlato di abbandonare la candidatura alla rielezione. Ma Biden e la sua cerchia ristretta sanno che i prossimi giorni devono andare bene, cioè il presidente deve mostrarsi all’altezza nei comizi e nelle interviste”.

È improbabile che delle buone apparizioni di Biden in quei contesti possano far cambiare la percezione dell’opinione pubblica su di lui (la maggior parte degli elettori, circa la metà di quelli democratici, voleva che si facesse da parte già prima del dibattito, nonostante i tanti successi legislativi raggiunti dalla sua amministrazione e nonostante l’ottima situazione dell’economia); l’obiettivo sembra essere piuttosto dimostrare al resto del partito di poter andare avanti, voltare pagina e rilanciare la campagna elettorale con una strategia più aggressiva, che comporti una maggiore presenza pubblica di Biden. Con rischi evidenti: è plausibile che il presidente possa riuscire a mostrare versioni di se stesso migliori di quella vista nel dibattito tv (il 6 luglio ha tenuto un comizio in Wisconsin e ha dato un’intervista all’Abc, che non sono andati male me nemmeno bene); ma le gaffes, le esitazioni o i vuoti di memoria sarebbero sempre dietro l’angolo; sui giornali, in tv e sui social non si parlerebbe d’altro, e nel frattempo i democratici avrebbero perso tempo prezioso per cercare un’alternativa.

In questo contesto caotico, mentre i sondaggi condotti dopo il dibattito mostrano un ulteriore allargamento del vantaggio di Donald Trump, i giornali immaginano scenari di tutti i tipi. Eccone alcuni, dal più sobrio ai più estremi.

Il primo è quello in cui Biden rifiuta di farsi da parte e nel partito resta maggioritaria la posizione di chi pensa che si rischi di più con un avvicendamento in corsa che continuando con lui. Una posizione espressa da Charles M. Blow sul New York Times e riassumibile così: la scelta più logica in caso di rinuncia del presidente sarebbe Kamala Harris, che secondo i sondaggi è appena meno impopolare del suo capo; se venisse scavalcata nascerebbe una forte protesta tra i sostenitori democratici, in particolare tra le donne non bianche, un blocco elettorale senza il quale i democratici non potrebbero ambire a restare alla Casa Bianca. A questo si aggiunge che neanche gli altri potenziali candidati, governatori con poca visibilità fuori dal loro stato, danno molte garanzie.

Il secondo scenario è quello in cui Biden, parlando onestamente al popolo americano, rivendica i tanti risultati ottenuti in questi anni ma ammette di non essere in grado di portare avanti la campagna elettorale, e annuncia di voler passare il testimone a Kamala Harris. È vero che la vicepresidente è impopolare e che in questi anni ha faticato nel suo ruolo (anche a causa dei suoi limiti politici), ma una campagna elettorale ben organizzata le permetterebbe di farsi conoscere meglio e di recuperare consensi. La sua energia potrebbe risvegliare un elettorato stanco e scontento. Harris, una ex procuratrice, è a suo agio nei dibattiti e potrebbe tenere testa a Trump nel confronto televisivo di settembre. Inoltre, in quanto vicepresidente potrebbe usare i fondi raccolti fin qui dal comitato elettorale democratico.

L’idea che il compito di un partito e dei suoi dirigenti sia quello di difendere il leader a tutti i costi è discutibile a vari livelli

Un altro scenario è riassumibile nel vecchio slogan when in trouble, go big, cioè fare qualcosa di coraggioso per trasformare un momento difficile in un’opportunità. Ha scritto Anne Applebaum sull’Atlantic: “Se Biden si farà da parte, i democratici potrebbero organizzare un nuovo ciclo di dibattiti tra i potenziali aspiranti, town hall (incontri in cui i candidati rispondono alle domande degli elettori) e interventi pubblici da ora fino al 19 agosto, quando comincerà la convention nazionale democratica. Una volta alla settimana, due volte alla settimana, tre volte alla settimana: le reti televisive farebbero a gara per trasmettere questi eventi. Milioni di persone li guarderebbero. La politica tornerebbe a essere interessante. Dopo un’estate turbolenta, chi uscirà vittorioso dal voto dei delegati alla convention potrà passare l’autunno a fare campagna elettorale in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, e vincere le elezioni”.

In un articolo sul New Yorker, la giurista Jeannie Suk Gersen sostiene che le difficoltà di Biden fanno pensare che non solo non sia in grado di gestire la campagna elettorale, ma non possa nemmeno continuare a fare il presidente. Se Biden lasciasse la Casa Bianca (o fosse costretto a farlo), in base al venticinquesimo emendamento della costituzione Harris prenderebbe il suo posto (dovrebbe poi nominare un vicepresidente che entrerebbe in carica dopo essere stato confermato da entrambe le camere del congresso). Il fatto di essere candidata da presidente in carica le darebbe un vantaggio in campagna elettorale, perché potrebbe rivendicare i tanti risultati della sua amministrazione, ma senza la zavorra di Biden, e garantirebbe al partito la stabilità di cui ha bisogno, evitando le divisioni che nascerebbero da una open convention.

Andando oltre gli aspetti strategici del breve periodo, cosa ci dice questo momento sul Partito democratico e in generale sulla politica statunitense?

Dopo aver incontrato Biden alla Casa Bianca il 3 luglio, Wes Moore, il governatore del Maryland, ha detto una cosa rivelatrice: “Il presidente ci ha sempre protetto, ora noi faremo lo stesso con lui”. L’idea che il compito di un partito e dei suoi dirigenti sia quello di difendere il leader a tutti i costi, anche quando mostra di essere palesemente inadeguato, è discutibile a vari livelli.

Negli ultimi anni si è parlato molto del perché i repubblicani statunitensi continuassero a sostenere un leader che li ha guidati a tre pessimi risultati elettorali (le presidenziali del 2020, le elezioni di metà mandato del 2018 e del 2022). C’era certamente il timore che Trump usasse il suo consenso tra gli elettori più radicali per sabotare un eventuale nuovo corso, ma c’è una ragione più profonda, che si ritrova anche nel rifiuto di buona parte dell’establishment democratico di mettere in discussione la candidatura di Biden nonostante i tanti campanelli d’allarme emersi molto prima del dibattito del 27 giugno.

Come scrive Ezra Klein in un commento su Internazionale di questa settimana, i partiti statunitensi sembrano essere diventati un veicolo per le ambizioni personali dei loro leader. Nel caso dei democratici questo atteggiamento è ancora più incomprensibile e per certi versi più grave, perché nasconde il fatto che gli ottimi risultati degli ultimi anni – nelle elezioni e in termini di leggi approvate dal congresso – sono stati ottenuti grazie agli sforzi coordinati di un partito compatto, e non con la bacchetta magica del presidente. “Ma ora quegli stessi dirigenti non credono di poter essere all’altezza della situazione se Biden dovesse farsi da parte. Nel Partito democratico l’abilità e il talento politico non mancano, ma c’è un’evidente carenza di fiducia e coerenza”.

Questa dinamica crea un circolo vizioso, in cui il leader si convince di essere imprescindibile. Lo ha spiegato molto bene il giornalista irlandese Fintan O’Toole, in uno degli articoli migliori che ho letto dopo il dibattito: “Il grande problema, che ora minaccia di travolgere la democrazia americana, è che Biden ha iniziato a pensare a se stesso come a un salvatore” (durante l’intervista all’Abc ha detto che “solo il signore onnipotente può convincermi a ritirarmi”), e così facendo ha cominciato a somigliare al suo “arcinemico”.

“Le motivazioni di Biden sono infinitamente più nobili di quelle di Trump, ma è finito nello stesso posto: con la grande illusione del ‘solo io posso salvare l’America’. È un confronto che Trump vincerà sempre. I suoi sostenitori credono davvero nella sua eccezionalità – come ha dimostrato la misera performance di Ron DeSantis alle primarie repubblicane – e non si preoccupano di cosa sarà la destra senza di lui. Pochi sostenitori di Biden pensano lo stesso del loro candidato. La valorizzazione del salvatore solitario si adatta alla politica reazionaria, ma non alla democrazia. È l’ultimo caso di forze anti-Trump che operano alle condizioni di Trump”.

Questo testo è tratto dalla newsletter Americana.

pubblicità