Oltre il dibattito televisivo tra Harris e Trump
A inizio aprile del 1992 il giornalista Phil Donahue doveva moderare un dibattito televisivo tra Bill Clinton e Jerry Brown, candidati alle primarie del Partito democratico in vista delle presidenziali. Fece una breve introduzione – “sono lieto di presentare il governatore Clinton e il governatore Brown” – e poi non disse più una parola. Per quasi un’ora i due candidati parlarono dei temi della campagna elettorale conversando tra di loro, senza mediazione, seduti a un piccolo tavolo tondo. Donahue era un giornalista esperto e preparato, tutt’altro che pigro; impostò così il dibattito perché pensava che fosse il modo migliore per consentire agli elettori di farsi un’idea sul carattere e sulle idee dei candidati.
Era anche un modo per riportare la pratica del dibattito alle sue origini, al confronto in stile oxfordiano, importato dai coloni inglesi, in cui due studenti rispondevano a turno a una domanda o discutevano a partire da una proposta. L’idea di fondo era che l’abitudine a discutere permettesse agli studenti di perfezionare e approfondire il loro pensiero e di metterlo in discussione, rendendoli più consapevoli e anche più preparati ad affrontare la vita dopo la laurea (per chi volesse approfondire, ne ho parlato qui).
Dopo l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa qualcuno provò a portare questo modo di discutere nel mondo della politica, ma senza successo. Come ha raccontato Jill Lepore in un articolo uscito anni fa, nel novecento i dibattiti sono stati per molto tempo il risultato di aspre negoziazioni tra gli staff dei candidati, il cui obiettivo principale era evitare passi falsi che potessero compromettere la campagna elettorale e portare invece l’avversario a sbagliare, più che difendere una posizione o confutare una proposta. “Su un ring di boxe un attaccabrighe batte un avvocato. In un’aula di tribunale, un avvocato batte un attaccabrighe. Una sala dibattiti è come un’aula di tribunale. Ma una campagna elettorale è più simile a un ring di pugilato”, ha scritto Lepore. Di conseguenza i candidati hanno sempre preteso regole molto rigide – nel dibattito tra Jimmy Carter e Gerald Ford del 1976 si stabilì che i leggii dei candidati intersecassero il busto a un’altezza tale da non far sembrare nessuno dei due più alto dell’altro – e un moderatore, che a quel punto somigliava all’arbitro sul ring più che al giudice in tribunale. All’inizio del video del 1992 è evidente lo spaesamento del governatore Brown quando Donahue gli passa la parola senza prima fare una domanda.
Negli ultimi decenni queste dinamiche sono state esasperate dalla polarizzazione politica, che oltre a rendere più aspri i confronti tra i candidati ha anche alterato la società a un livello più profondo. Ha scritto Lepore: “Gli studi sullo stato della conversazione democratica negli Stati Uniti suggeriscono che gli americani non parlano più con le persone con cui non sono d’accordo. Un americano su tre rifiuta di discutere di politica se non in privato; meno di uno su quattro parla con qualcuno con cui non è d’accordo politicamente; meno di uno su cinque ha mai partecipato a una riunione per la soluzione di problemi, anche online, con persone che hanno opinioni diverse dalle proprie. Che razza di democrazia è questa?”. È importante tenere conto di questi fattori quando, dopo un dibattito presidenziale come quello di qualche giorno fa, ci chiediamo “chi ha vinto?” e “come influirà sulle elezioni?”. Forse una domanda che dovremmo farci ancora prima è “a cosa servono i dibattiti?”.
Generalmente si dice che i dibattiti presidenziali sono più spesso persi che vinti, nel senso che una brutta prestazione, o anche solo una gaffe, può danneggiare più di quanto una buona prestazione possa aiutare; e si dice anche che i dibattiti sono momenti in cui i candidati devono dimostrare di saper reggere la pressione in situazioni delicate, cioè di avere il temperamento per fare il presidente, più che convincere le persone della forza delle loro idee. In quest’ottica Kamala Harris ha avuto sicuramente un’ottima serata. È riuscita a schivare le questioni che potevano metterla più in difficoltà – le sue giravolte politiche su una serie di temi, il suo legame con l’impopolare amministrazione Biden, la crisi migratoria alla frontiera – e ha spostato la conversazione su degli argomenti, e soprattutto su un tono, che hanno messo in difficoltà l’avversario. Trump è caduto sistematicamente in tutte le trappole piazzate da Harris, lanciandosi in affermazioni confuse e false, sostenendo che gli immigrati “mangiano i cani, i gatti e gli animali domestici” e che in alcuni stati governati dai democratici i bambini vengono uccisi dopo la nascita. È rimasto quasi sempre sulla difensiva, una condizione in cui non dovrebbe mai trovarsi un candidato “d’opposizione”, e si è rivolto ai suoi sostenitori fedeli invece che alle persone che hanno riserve su di lui e che dovrebbe provare a corteggiare.
Ha fatto insomma tutto quello che in teoria un candidato non dovrebbe fare in un dibattito. Ma ormai sappiamo da tempo che le teorie tradizionali della politica si applicano a Trump solo in parte. Nel 2016 i mezzi d’informazione erano abbastanza compatti nel dire che Hillary Clinton avesse nettamente vinto i dibattiti presidenziali contro Trump, che si era dato più volte la zappa sui piedi ed era sembrato tutt’altro che “presidenziale”. Ci sono differenze tra oggi e otto anni fa, a cominciare dal fatto che Clinton era una candidata più debole di Harris e sbagliò completamente la strategia della campagna elettorale, ma è bene ricordare che c’è quasi sempre una distanza tra chi commenta un evento politico usando categorie e strumenti tradizionali e il modo in cui quell’evento viene interpretato dagli spettatori e dagli elettori. Quella distanza oggi è alimentata dalla polarizzazione politica e sociale e anche dal filtro dei social network, che frammentano l’evento in questione, soprattutto un dibattito tv, e lo rimettono in circolo dandogli nuovi significati.
Questo non vuol dire che non sia stata una pessima serata per il candidato repubblicano (lo dimostrano i tentativi di dare la colpa ai moderatori del dibattito, il modo in cui i suoi collaboratori hanno cercato di limitare i danni in settimana e il no a un secondo dibattito). Ma è ragionevole pensare che il suo consenso, rimasto praticamente fermo negli ultimi mesi nonostante varie incriminazioni, processi, affermazioni allucinanti e un attentato, non sarà intaccato dall’esito del dibattito. Trump non vuole offrire agli elettori una versione migliore di se stesso, perché semplicemente non esiste. E ormai sembra occupare una posizione immutabile nella politica americana: è troppo estremista per allargare il suo consenso (i suoi numeri non sono migliorati nemmeno dopo l’attentato subìto a luglio), ma è in grado di mobilitare rapidamente un elettorato molto fedele.
Harris si trova in una condizione completamente diversa. Secondo un sondaggio pubblicato dal New York Times prima del dibattito, il 28 per cento degli elettori diceva di aver bisogno di saperne di più su di lei prima di prendere una decisione (non è da escludere che per alcune persone indecise questa affermazione serva a mascherare i dubbi sul fatto di eleggere una donna nera alla presidenza). Al dibattito Harris aveva l’occasione di convincere molte di quelle persone di avere un progetto per il futuro del paese. C’è riuscita? Anche se molti commentatori l’hanno elogiata per aver promosso una visione positiva che contrasta con quella cupa e tragica di Trump, Harris ha “vinto” il dibattito imbrigliando il suo avversario, sottolineandone le malefatte e i difetti. Ha fatto la procuratrice. Ha battuto Trump sul suo terreno, quello della provocazione, dell’attacco, della personalità. È interessante in questi giorni leggere i commenti della stampa conservatrice, che a partire da questa analisi ha cercato di ridimensionare la prestazione della candidata democratica. Qui la National Review: “Harris è arrivata al dibattito con la sensazione di essere una persona relativamente sconosciuta.
I sondaggi Cbs News/YouGov della scorsa settimana hanno rilevato che molti elettori di stati decisivi (37 per cento in Michigan, 40 per cento in Pennsylvania e 42 per cento in Wisconsin) dicono di non sapere ‘per cosa si batta’ Harris. Il suo obiettivo, quindi, non era quello di presentare l’ennesimo caso contro Trump ma di proporne uno positivo per se stessa”. È evidente comunque che i repubblicani non hanno ancora capito come gestire una campagna elettorale completamente diversa da quella che avevano immaginato prima del ritiro di Biden. Alla fine Trump resta il peggior nemico di se stesso, e la principale risorsa dei suoi avversari. E torniamo al punto di partenza: come e quanto inciderà il confronto tv sulla campagna elettorale? I sondaggi dei prossimi giorni, che dovrebbero mostrare una crescita di Harris, ci diranno qualcosa ma non molto.
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Gli effetti potrebbero farsi sentire in modi diversi e difficili da registrare. Sono legati a quella che generalmente chiamiamo “narrazione”: l’insieme di percezioni e sensazioni prevalenti nell’opinione pubblica sui candidati e sui loro messaggi. C’è da scommettere che nelle prossime settimane il tono di Trump diventerà ancora più cupo e rancoroso, mentre Harris cercherà di usare lo slancio del dibattito per creare un circolo virtuoso: più donazioni al comitato elettorale, più annunci pubblicitari ed eventi negli stati decisivi, altri attacchi a Trump che reagirà in modo scomposto, tanti altri nuovi volontari per fare campagna elettorale, quindi più entusiasmo e maggiori possibilità di convincere la gente a registrarsi alle liste elettorali e ad andare a votare. In quest’ottica è importante l’endorsement di Taylor Swift, che di per sé forse non sposta molti voti ma contribuisce ad alimentare la narrazione di una campagna elettorale cool e proiettata verso la vittoria.