Karthoum Dembelé gioca a calcio con il fratello maggiore e i suoi amici da quando ha sei anni, tra i complessi di case popolari in una banlieue di Parigi, in Francia. Da questi quartieri sono usciti grandi campioni, tra cui Paul Pogba, Kylian Mbappé e N’Golo Kanté. È qui, nel regno del calcio di strada, che Dembelé si è innamorata di questo sport. Ora però, a 19 anni, ha perso un po’ di ottimismo. Non perché non abbia talento o si sia infortunata, ma a causa della politica. In quanto donna musulmana che indossa l’hijab, il velo islamico, Dembelé non ha il permesso di giocare nella maggior parte delle gare sportive del paese, comprese quelle calcistiche. Infatti la Federazione francese di calcio (Fff) vieta d’indossare “simboli religiosi evidenti” anche se nel 2014 la Federazione internazionale di calcio (Fifa) ha tolto dal suo regolamento il divieto di portare l’hijab.
Il dibattito su ciò che le donne musulmane possono o non possono indossare è riemerso di recente in Francia con la legge contro il separatismo religioso, entrata in vigore il 24 agosto. I parlamentari hanno cercato di usare la norma per vietare formalmente il velo in tutte le competizioni sportive, anche se i legislatori ne avevano decretato l’incostituzionalità il 9 giugno.
La legge, proposta nel 2020 dal governo del presidente Emmanuel Macron, punta a sconfiggere l’estremismo islamico e a rafforzare la laicità dello stato, ma è stata criticata per la prossimità alle politiche dell’estrema destra in vista delle elezioni del 2022 e per la stigmatizzazione dell’islam e dei circa sei milioni di musulmani che vivono in Francia, la comunità più numerosa d’Europa.
In lotta per l’inclusività
Parigi raccoglie il testimone olimpico dopo Tokyo e ospiterà i Giochi del 2024. E la Francia è l’unico paese in Europa a escludere le donne che indossano l’hijab dalla maggior parte delle competizioni sportive nazionali. La legge, però, stabilisce che nelle gare internazionali, come le Olimpiadi, le giocatrici straniere con il capo coperto possono giocare in Francia, perciò in molti si chiedono perché il bersaglio di Parigi siano nello specifico le sue atlete musulmane con l’hijab.
La federazione francese di calcio sta ricevendo sempre più pressioni affinché modifichi le sue regole. Simbolo del movimento è il collettivo Les hijabeuses, guidato da Dembelé e da altre giovani calciatrici dei dintorni della capitale che indossano l’hijab. Il collettivo è stato fondato nel 2020 da un gruppo di ricercatrici e attiviste di Citizen’s alliance, che si batte contro l’ingiustizia sociale in Francia.
Oggi del gruppo fanno parte 150 persone e i follower su Instagram sono cinquemila. Il 23 luglio il collettivo ha organizzato una protesta davanti alla sede della federazione francese e ha scritto diverse lettere al suo presidente, Noël Le Graët, chiedendo di interrompere l’esclusione delle donne musulmane. Ma ancora non ha ricevuto risposta.
“Ci battiamo per un calcio più inclusivo, che integri tutte le donne”, ha dichiarato Dembelé. “Stiamo cercando di far capire alle persone che siamo atlete, e non dobbiamo essere escluse dal campo solo perché portiamo l’hijab”. Una delle fondatrici, Haifa Tlili, ha dichiarato che “la posizione della federazione segue una tendenza diffusa in Francia, dove dagli anni novanta sono aumentati i discorsi a sfondo islamofobo”.
“Il problema è che sono considerate degli oggetti”, dice Tlili a proposito dell’impatto che le norme della Fff hanno sulle calciatrici musulmane. “Le donne vogliono essere trattate come delle calciatrici”.
Costrette a scegliere
Secondo alcuni critici le regole, intenzionalmente vaghe, sono un modo per perpetuare l’esclusione delle atlete musulmane. Ognuna delle atlete del collettivo ha molte storie da raccontare su com’è stata presa di mira sul campo. Founé Diawara, una delle calciatrici con più talento del gruppo, aveva 15 anni quando un arbitro le ha detto: “O togli l’hijab e giochi, o resti in panchina”.
“La cosa peggiore è che nemmeno l’allenatrice l’ha sostenuta. Era sola”, racconta Dembelé. “È triste perché siamo costrette a scegliere tra il velo e quello che amiamo, tra la nostra dignità e il desiderio di fare sport”.
Il regolamento della federazione stabilisce che nelle partite ufficiali è vietato “indossare qualsiasi segno o indumento che esprima visibilmente un’affiliazione politica, filosofica, religiosa o sindacale”. In un’altra pagina, però, si afferma che “è possibile indossare accessori (come bandana o cappelli) che non implichino il proselitismo e rispettino i regolamenti in termini di salute e sicurezza”.
Chaïb ha cominciato a portare l’hijab quando aveva 13 anni ed è sempre stata discriminata a scuola e a lavoro. Sperava che nel calcio sarebbe stato diverso
Questa seconda norma ha spinto le calciatrici che portano l’hijab a trovare dei modi più sottili per giocare al loro sport preferito. Bouchra Chaïb, ostetrica di 27 anni e una delle presidenti delle Hijabeuses, si è procurata un certificato medico in cui c’è scritto che, per motivi di salute, durante le partite di calcio deve indossare un caschetto da rugby. Un giorno, però, un arbitro le ha detto che non poteva giocare con il caschetto. Secondo Chaïb, il concetto di segni religiosi visibili è “molto vago” sia per i giocatori sia per i funzionari e può essere facilmente usato contro le atlete musulmane.
Per Rim-Sarah Alouane, docente universitaria che si occupa di libertà religiose e civili in Francia, il regolamento della federazione è “volutamente ambiguo”. La proposta di legge contro il separatismo è altrettanto piena di “termini confusi per giustificare la restrizione di una libertà”, dice.
Le autorità “guardano sempre i musulmani e l’islam attraverso il prisma della sicurezza”, ha proseguito, e l’hijab viene trasformato in un’arma, un nemico simbolico. “In Francia consideriamo ancora la diversità una minaccia, anche se il calcio dimostra che la diversità ci rende più forti”.
Speranza e discriminazione
Il divieto dell’hijab secondo gli esperti unisce questioni di genere, etnia e classe, oltre a quella dell’islamofobia. “La prima discriminazione c’è stata quando lo stato ha deciso di costruire quegli enormi complessi di case popolari per dire agli immigrati: ‘Non fate parte del nostro popolo’”, spiega Alouane.
Una ricerca del 2019 condotta dal Collettivo contro l’islamofobia in Francia ha messo in evidenza che nel 70 per cento dei casi le vittime dei reati d’odio contro i musulmani sono donne. Un altro rapporto dello stesso anno ha rilevato che il 44,6 per cento della popolazione francese considera i musulmani una minaccia all’identità nazionale.
Chaïb ha cominciato a portare l’hijab quando aveva 13 anni ed è sempre stata discriminata a scuola e a lavoro. Sperava che nel calcio sarebbe stato diverso. “Non pensavo che nello sport avrei dovuto subire delle lezioncine sulla laicità, invece è successo”. Ha avvertito “un costante senso di rifiuto” che l’ha quasi spinta ad abbandonare lo sport.
“Cominci ad avere dei sentimenti negativi. Non ti va di fare niente. Ti dici: ‘Non mi iscrivo qui, non farò questo, non farò quello, perché sarò esclusa e mi sentirò umiliata’”.
Ma il collettivo e il legame tra donne le ha dato speranza. “Capisci di avere un tuo posto”, dice. “Quando gioco con Les hijabeuses è come giocare con delle sorelle”.
Andare lontano
Chaïb è stata una delle prime giocatrici a essere selezionata per Les hijabeuses e ora che il collettivo si sta ampliando vuole essere di ispirazione per le giovani musulmane in tutto il paese.
Nonostante la numerosa popolazione musulmana in Francia, le donne con l’hijab si vedono raramente nella vita pubblica e negli sport a causa dei discorsi spesso ostili verso i musulmani. “Mi piacerebbe vedere in tv una donna giocare a calcio con l’hijab”, afferma Dembelé. “È frustrante non essere rappresentata nel calcio”.
Secondo l’attivista sportiva e giornalista Shireen Ahmed, “ci sono generazioni di donne che non hanno cominciato a giocare a calcio perché non avrebbero potuto andare avanti”. Anche se le atlete in teoria dovrebbero essere considerate al di là del loro modo di vestire, afferma, vedere più giocatrici musulmane con l’hijab contribuirebbe a normalizzare la diversità agli occhi dell’opinione pubblica.
“Non sto difendendo il velo, ma la libertà di scelta”, dice Ahmed. “Chiediamo alle donne di dare il meglio di sé come atlete, e poi non le lasciamo decidere quale uniforme indossare”.
La colpa non è solo della federazione francese, ma anche della Fifa, che ha esentato la Francia dal rispetto delle sue regole. “La Francia sta infrangendo la pratica stessa del calcio e il regolamento scritto dalla Fifa”, ha detto Ahmed. “La Fifa è complice perché lo consente”.
Un portavoce della Fifa, rispondendo alla richiesta di un commento, ha detto: “La Fifa continua a monitorare la situazione relativa all’applicazione delle regole sul gioco del calcio all’interno delle associazioni che ne fanno parte”.
La federazione francese ha inviato ad Al Jazeera una dichiarazione in cui sostiene di avere “una missione di servizio pubblico: applicare le leggi della repubblica. Sostiene e difende i valori della laicità, della convivenza, della neutralità e della lotta contro ogni forma di discriminazione, e non autorizza l’esibizione di simboli politici o religiosi visibili nel contesto della pratica collettiva e pubblica del calcio e nelle relative competizioni”.
“Al posto di Le Graët, il presidente della federazione calcio francese, starei attenta a queste ragazze, perché cambieranno le cose”, afferma Ahmed. Di nuovo sul campo, pronta a giocare, Dembelé dice: “Mi piacerebbe dimostrare alle ragazze più giovani che è possibile, così potranno dire a se stesse: ‘Posso farcela, posso andare lontano’”.
(Traduzione di Giusy Muzzopappa)
Questo articolo è uscito su Al Jazeera.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it