Silvio Berlusconi è morto il 12 giugno 2023. Questo articolo è stato pubblicato il 10 marzo 2006 sul numero 632 di Internazionale.

Il 24 gennaio 2004, dieci anni dopo il famoso discorso con cui Berlusconi aveva annunciato la propria decisione di “scendere in campo”, Forza Italia organizzò una mega celebrazione per l’anniversario della propria fondazione.

Canale 5 interruppe la programmazione regolare per dedicare due ore del sabato sera, in prime time, quasi esclusivamente a lodi sperticate del grande leader. La celebrazione era condotta da Gabriella Carlucci, presentatrice delle tv berlusconiane e parlamentare di Forza Italia. Venne proiettato il discorso storico di Berlusconi, per cui gli spettatori a casa si trovarono a guardare un video di un evento live nel quale si guardava un video. Poi la Carlucci invitò sul palco un gruppo di giovani militanti (che chiamò “i nostri giovani azzurri”) che per più di venti minuti lessero brani dei discorsi di Berlusconi. La presentatrice-parlamentare spiegò che costituivano “una sorta di credo laico per noi”.

Poi tra gli applausi scroscianti, mentre in sottofondo veniva suonato l’inno di Forza Italia, Berlusconi salì sul palco e lesse un lungo articolo del sacerdote-militante Gianni Baget Bozzo che sosteneva che la decisione berlusconiana di fondare ForzaItalia era stata una “ispirazione” guidata “dallo Spirito Santo”.“ Da quel momento in poi”, lesse Berlusconi, “considerai Berlusconi come un evento spirituale…”. Il curioso spettacolo fu temperato dalla modestia di Berlusconi, che sostenne che quel discorso spiegava tutto meglio ancora di quanto avrebbe potuto fare egli stesso. In un’intervista il segretario di Forza Italia disse che il suo partito era come “un bambino piccolo che Berlusconi deve tenere per mano” e che avrebbe avuto bisogno dell’assistenza del suo fondatore per altri trent’anni. Il grande leader non era solo insostituibile, ma anche pressoché immortale.

Il programma per il decennale di Forza Italia sembrava l’apoteosi di un grande leader carismatico destinato a governare per decenni – nella tradizione del presidente Mao e del generalissimo Franco – ma in realtà il gradimento di Berlusconi nei sondaggi era in calo, trascinato verso il basso da tre anni di recessione economica e da una guerra impopolare in Iraq. E mentre il suo gradimento calava, i tentativi di Berlusconi di controllare i mezzi di informazione parvero farsi più disperati.

Cinque mesi dopo, meno di una settimana prima delle elezioni europee del giugno 2004, Emilio Fede condusse il Tg4con un cartello attaccato al collo come un ostaggio di una qualche organizzazione terroristica costretto ad andare in onda per fare una pubblica confessione. Il cartello conteneva la censura emessa dall’authority per le comunicazioni, nella quale si affermava che il telegiornale di Fede aveva costantemente violato le norme di “equilibrio, obiettività, completezza e imparzialità dell’informazione televisiva”. L’authority aveva imposto che Fede leggesse la censura in diretta, e lui lo fece chiarendo però di non essere d’accordo e che lo stava facendo come se fosse stato una sorta di ostaggio. Poco dopo la lettura della censura, il telefono sulla scrivania di Fede squillò e il conduttore iniziò a tenere una conversazione telefonica in diretta. “Ah, è lei, ministro. Ma lei non fa parte della maggioranza? Mi dispiace, ma non posso parlarle”. Così Fede trasformò un programma nel quale avrebbe dovuto fare ammenda per i suoi telegiornali faziosi in una sorta di sketch di cabaret in cui interpretava il ruolo del campione perseguitato della libertà di stampa e si prendeva gioco dell’authority pur obbedendo formalmente al suo ordine.

Fede non lesse le statistiche della ricerca con cui l’authority aveva monitorato i contenuti del suo telegiornale nelle sei settimane precedenti. Berlusconi e gli altri membri della coalizione di centrodestra avevano occupato il 61,6 per cento degli spazi informativi di Fede, alle “figure istituzionali” – il presidente della repubblica ma anche figure istituzionali legate al governo – era stato dedicato il 34,8 per cento degli spazi, lasciando un misero 3,6 per cento all’opposizione. In altre parole, nelle sei settimane che avevano preceduto delle importanti elezioni, i candidati del centrosinistra non avevano praticamente avuto la possibilità di parlare in uno dei principali telegiornali serali del paese.

Ciononostante, pochi giorni dopo, alle elezioni europee, il centrosinistra registrò una considerevole vittoria sulla coalizione di Berlusconi. A questa seguì nel 2005 una vittoria ancora più larga in una serie di elezioni regionali, nelle quali il centrosinistra conquistò 12 delle 14 regioni in cui si votava, 7 delle quali passarono dalla destra alla sinistra. Berlusconi, pur facendo mostra di avere la situazione sotto controllo, guardava con un senso di rabbia impotente i voti di Forza Italia scendere abbondantemente sotto il 20 per cento nella maggior parte dei collegi elettorali d’Italia.

L’immagine da sola non basta. Dopo dieci anni di videocrazia, sembra che la magia di Berlusconi si stia finalmente esaurendo

“È uno strano tipo di regime quello in cui si presume che il governo controlli l’informazione eppure l’opposizione riesce a vincere lo stesso”, sostiene Paolo Mieli, ex direttore sia della Stampa sia del Corriere della Sera, recentemente tornato alla direzione del quotidiano milanese.

“Forse Berlusconi non è il genio del male che tutti credono”, ha detto Vittorio Sgarbi, ex dobermann della televisione berlusconiana passato ai seggi del parlamento. “Il paradosso dell’era Berlusconi è che lui ha speso tutte queste energie per cercare di controllare tutto, soprattutto i mezzi di comunicazione, e questo non gli è servito a nulla. Il fatto è che al governo si è dimostrato incapace”.

In effetti Berlusconi dava la colpa delle sue sconfitte alla legge sulla “par condicio” che lo costringeva a dividere il palco (almeno in certa misura sulle reti pubbliche) con gli avversari e gli alleati della sua coalizione di governo. Ma in realtà la sua onnipresenza negli ultimi dieci anni potrebbe avere progressivamente eroso l’efficacia della sua presenza mediatica. Nell’ottobre 2003 il programma-contenitore Domenica in tenne un gioco con gli spettatori chiamato “Basta con?”, chiedendo al pubblico di inviare via fax o via email un elenco delle cose a cui avrebbero voluto dire basta. Con grande sorpresa e imbarazzo dei produttori di Raiuno in cima alla classifica – sopra Saddam Hussein, Osama bin Laden e le tasse – c’era “Basta con Berlusconi!”. Il segnale, considerato che proveniva da un programma popolare di intrattenimento della televisione pubblica come Domenica in, era particolarmente infausto. Era proprio il pubblico di Berlusconi, le persone che guardavano le partite di calcio e la televisione di intrattenimento, la spina dorsale dell’elettorato, che stava dicendo: “Basta con Berlusconi!”.

L’ossessione e la capacità berlusconiana di controllare i mezzi di comunicazione potrebbero finire per essere sia la sua maggiore forza sia la sua più grande debolezza. Berlusconi ha investito così tanto tempo per approvare leggi a proprio vantaggio e per assumere il controllo di diversi mezzi di informazione che ha semplicemente dimenticato di governare. La sua profonda convinzione che tutto sia una questione di percezione gli ha reso difficile cogliere che per lui era importante non solo sembrare un buon governante, ma anche governare bene nella realtà. Gli spettatori di Berlusconi che ne avevano abbastanza di lui ora lo mettevano in testa alla schiera dei politici che dicono ma non fanno. I mezzi di comunicazione possono aiutare a essere eletti o anche rieletti, ma l’immagine da sola, se non ha alcuna corrispondenza con la realtà, non basta. Dopo dieci anni di videocrazia, sembra che la magia di Berlusconi si stia finalmente esaurendo.

Alcuni interpretano i recenti insuccessi di Berlusconi come una prova del fatto che – come dice Paolo Mieli – “i mezzi di informazione e la democrazia italiana hanno retto abbastanza bene. Il fatto che Berlusconi abbia perso le elezioni europee e perderà a mio parere anche quelle politiche del 2006 significa che evidentemente sono passate informazioni sufficienti a consentire all’elettorato di formarsi un’opinione negativa su di lui”.

“Credo che questa ipotesi non abbia senso”, dice Giulio Anselmi, un giornalista altrettanto rispettato che in passato è stato vicedirettore del Corriere della Sera e direttore del Messaggero, dell’Ansa, dell’Espresso e ora della Stampa. “La gente ha voltato le spalle a Berlusconi non perché avesse informazioni sufficienti per cambiare idea, ma perché le cose che sentiva eleggeva sui mezzi di comunicazione erano così tanto in contrasto con quello che sperimentava nella realtà – recessione economica, prezzi sempre più alti – che alla fine ne ha avuto abbastanza”. Ma allora qual è in ultima analisi il significato e il lascito sul lungo periodo del fenomeno Berlusconi? (…) Se Berlusconi all’inizio entrò in politica per salvare il proprio impero mediatico e finanziario e per difendersi dalle accuse penali, la sua carriera politica può essere solo giudicata come un successo assoluto.

Ma Berlusconi ha già ottenuto molto più di questo: da solo ha quasi fatto deragliare l’operazione Mani pulite, ha riportato indietro nel tempo l’orologio della guerra alla mafia, ha stabilito una serie di inquietanti precedenti sulla commistione tra affari pubblici e affari privati e ha creato un panorama mediatico politicizzato che ha anticipato per molti versi gli sviluppi che si sono avuti negli Stati Uniti e nel resto del mondo. La sua combinazione di mezzi di comunicazione, denaro, celebrità e potere politico potrebbe rivelarsi troppo personalizzata per essere duratura, ma Berlusconi ha sperimentato una nuova formula di potere politico che potrebbe diventare un modello vincente a livello globale.

Il deragliamento di Mani pulite
Difficile sopravvalutare il livello di potere e popolarità di cui Mani pulite godeva nel 1994, quandoBerlusconi “scese in campo”. Il rispetto e la fiducia nella magistratura erano a livelli record e Antonio Di Pietro, il simbolo del pool di Milano, era la persona più popolare del paese, molto più dello stesso Berlusconi. Allo stesso modo tra il 1992 e il 1995 gli inquirenti in Sicilia e nel resto del paese avevano ottenuto un risultato apparentemente impossibile: avevano arrestato migliaia di mafiosi, compreso il boss dei boss, e avevano contribuito a ridurre del 50 per cento il tasso di omicidi in un paese di quasi 60 milioni di abitanti. La mafia sembrava sul punto di essere sconfitta e la lotta contro la criminalità organizzata godeva di un diffuso sostegno popolare. L’ingresso in politica di un uomo la cui azienda era già sotto indagine ebbe l’effetto immediato di politicizzare la giustizia criminale: qualsiasi ulteriore tentativo di indagare su di lui o sui suoi associati sarebbe stato automaticamente considerato un attacco politico.

Per arrestare l’abbrivio apparentemente irreversibile delle indagini, Berlusconi fece terra bruciata attorno ai magistrati diMilano e Palermo, modificando così il panorama politico italiano. Il coinvolgimento dietro le quinte di Paolo Berlusconi e Cesare Previti nell’avvio di un’indagine segreta su Di Pietro e nell’orchestrazione delle sue misteriose dimissioni fu una mossa importante per separare il popolare pubblico ministero dal resto della procura, un passo chiave per attribuire al pool anticorruzione l’etichetta di sinistrorso. Berlusconi e i suoi associati ebbero un ruolo chiave in una serie di campagne infamanti dirette contro Di Pietro, alcune delle quali erano veri e propri trucchi sporchi che comprendevano la falsa testimonianza e l’invenzione di prove, ma che finirono in ogni caso per confondere l’opinione pubblica e infangare l’immagine del magistrato. Anni di attacchi ininterrotti e accuse prive di fondamento costrinsero il Giornale a pagare un sostanzioso risarcimento economico a Di Pietro e a pubblicare un lungo articolo nel quale veniva ritrattato molto di quanto il quotidiano aveva scritto negli anni precedenti, ma l’effetto di anni di articoli diffamanti su accuse di corruzione e conti bancari stranieri segreti, anche se poi si dimostrarono falsi, superava di gran lunga quello di una singola ritrattazione.
Gli italiani si abituarono a tal punto all’infinita telenovela della lotta mortale di Berlusconi con la procura di Milano, da assuefarsi al dispiegamento senza precedenti delle armi a disposizione di un inquisito che era al contempo l’uomo più ricco del paese, il più grande proprietario di mezzi di comunicazione, il presidente del consiglio e il capo del principale partito politico italiano.

Silvio Berlusconi durante una conferenza stampa a palazzo Madama, 2005. (Alessandra Benedetti, Corbis/Getty Images)

Il controllo combinato di centinaia di seggi parlamentari(nonché di migliaia di posizioni chiave nella burocrazia statale) e di un grande impero mediatico consentiva a Berlusconi di creare degli pseudo scandali a proprio piacimento. Così per esempio un servizio esplosivo su ipotetici illeciti giudiziari scatenava le milizie di Berlusconi che invocavano in parlamento un’inchiesta parlamentare o sanzioni disciplinari nei confronti dei giudici. I mezzi di comunicazione di Berlusconi a quel punto parlavano di questi eventi citando membri del parlamento o del governo che davano un’apparenza di sostanza e di realtà alle loro accuse iniziali, che portavano a una nuova serie di articoli e a una nuova serie di reazioni da parte del mondo politico, creando una macchina mediatica perfetta e autoalimentante, tenuta in moto perpetuo da questo meccanismo di azione-reazione tra i dipendenti dei mezzi di comunicazione di Berlusconi e i suoi dipendenti politici. Le accuse dopo qualche settimana, qualche mese o qualche anno si dimostravano quasi invariabilmente prive di sostanza – un fatto che non veniva sottolineato dalla stampa di Berlusconi (e spesso neanche dagli altri organi d’informazione) – ma il paese a quel punto era già passato a una nuova serie di accuse altrettanto infondate.

L’11 ottobre 1996 Berlusconi sbalordì il paese tenendo una conferenza stampa in cui mostrò un apparecchio per la sorveglianza elettronica che a quanto affermava era stato trovato nella sua residenza romana di via del Plebiscito. Si scagliò contro i “persecutori fuorilegge” e tanto la destra quanto la sinistra denunciarono questo oltraggio che rischiava di sovvertire la democrazia italiana. Un alleato di Berlusconi, Rocco Buttiglione, sostenne che si trattava di uno scandalo peggiore del Watergate che aveva costretto alle dimissioni il presidente americano Richard Nixon. Venne avviata un’indagine penale e settimane dopo si scoprì che si trattava solo di una vecchia e inutile cimice installata in casa di Berlusconi dal suo stesso servizio di sicurezza. L’innocua conclusione della vicenda ricevette molta meno attenzione da parte della stampa rispetto al suo spettacolare inizio quando il popolo italiano fu messo in allerta contro il fatto che l’ordine costituzionale era posto a rischio a causa di inquirenti canaglia.

La stampa berlusconiana non aveva perso occasione permettere sullo stesso piano morale gli inquirenti e gli associati di Berlusconi che quelli avevano accusato, sulla base della cinica premessa “tutti colpevoli, nessun colpevole”.

Quando un ispettore di polizia che lavorava con il magistrato palermitano Antonio Ingroia, uno degli inquirenti di Marcello Dell’Utri, fu accusato di collusione con la mafia, si presentò l’occasione di portare nuovi attacchi alla Procura di Palermo. Gli inquirenti di Dell’Utri, sostenevano gli articoli, erano colpevoli dello stesso reato di cui stavano accusando Dell’Utri, e questo li rendeva corrotti e ipocriti.

Un attacco particolarmente insidioso venne portato a segno dal Foglio di Giuliano Ferrara. Anziché attaccare Ingroia, Ferrara si schierava a sua difesa sostenendo che era ingiusto dare per scontata la sua colpevolezza come lo era nel caso di Dell’Utri. Il disprezzo e la rabbia di Ferrara erano rivolti verso la stampa italiana, accusata di utilizzare “due pesi e due misure” per Dell’Utri e Ingroia. La maggior parte degli organi di stampa, scriveva Il Foglio, non aveva attaccato Ingroia come aveva fatto con Dell’Utri per la sua associazione con persone che si erano rivelate essere dei mafiosi. In apparenza tutto ciò sembrava assolutamente logico: tutti dovrebbero essere trattati allo stesso modo e i due casi erano effettivamente stati considerati in modo diverso dalla stampa. Ma l’articolo non rivelava che i fatti riguardanti i due casi erano totalmente diversi. Ingroia non sapeva nulla dei presunti crimini del suo investigatore e aveva tutti i motivi per considerarlo un poliziotto degno di fiducia, mentre Dell’Utri aveva assunto e frequentato persone che sapeva (o aveva ottimi motivi per ritenere) essere dei pericolosi criminali. Nessuna accusa è mai stata avanzata nei confronti di Ingroia, perché non vi è mai stata un’ombra di comportamento improprio da parte sua, mentre le accuse contro Dell’Utri erano abbastanza documentate da portare a condanne per collusione con la mafia ed estorsione. Vi erano ottime ragioni per trattare in modo differente i due personaggi: uno aveva rischiato la propria vita per perseguire i mafiosi, l’altro era stato loro amico (un fatto documentato, a prescindere dalla sua colpevolezza per il reato di collusione).

In un altro caso Vittorio Sgarbi annunciò un grosso scoop nella sua striscia quotidiana di venti minuti sulla rete principale di Berlusconi. Lesse quella che affermava essere una lettera scritta da un amico intimo di un sacerdote siciliano, padre Giuseppe Puglisi, che era stato assassinato dalla mafia. La lettera affermava di esprimere i pensieri e i timori di padre Puglisi nel periodo precedente la sua morte e si scagliava contro Giancarlo Caselli, il procuratore capo di Palermo, che accusava della morte di Puglisi. Si sosteneva che Caselli facesse pressione su Puglisi perché questi rivelasse quanto sapeva dei suoi parrocchiani mafiosi: “Caselli mi vuole obbligare a rinnegare i miei voti e la mia veste; vuole che io mi prostituisca a lui che crede di essere l’istituzione con la I maiuscola. Caselli più che essere nemico della mafia è nemico della Sicilia, di Palermo.(…) Caselli, contattandomi e facendomi contattare continuamente dai suoi uomini, ha fatto di me consapevolmente un sicuro bersaglio. Ho capito che una vittima di rango come un sacerdote impegnato nel sociale ora gli calza a pennello”.

Sgarbi disse in onda di non poter rivelare l’origine della lettera, ma si trattava di fatto di una lettera anonima, il che significava che il suo valore informativo era pari a zero. Chiunque conosca la mafia sa che fa spesso uso di lettere anonime per attaccare i propri nemici e confondere l’opinione pubblica. Trattare una lettera anonima come questa – e in particolare una che contiene accuse tanto infamanti e improbabili – senza estrema cautela è il massimo dell’irresponsabilità e della cattiva fede. Si dà il caso che Caselli non abbia mai incontrato padre Puglisi e non l’abbia mai fatto contattare dal proprio ufficio, tutti fatti elementari che avrebbero potuto essere accertati con un paio di telefonate. Non fare alcuno sforzo per verificare la verità dei contenuti e leggere la lettera su un canale televisivo a diffusione nazionale come se fosse stata un documento autorevole anziché una lettera anonima procurò a Sgarbi una condanna per diffamazione. La vera colpa di Caselli, naturalmente, consisteva nell’avere autorizzato l’indagine sui legami di Berlusconi con la mafia e la messa in stato d’accusa di Marcello Dell’Utri.

Molte delle puntate di Sgarbi quotidiani erano dedicate ad attaccare i nemici di Berlusconi, spesso i magistrati di Milano e di Palermo che venivano descritti come assassini, criminali, zelanti vanagloriosi o ideologi che non si sarebbero fermati davanti a nulla per raggiungere i propri scopi. L’effetto a lungo termine della denigrazione portata a segno da quotidiani, riviste e televisioni ed echeggiata da leader politici e parlamentari è stato quello di erodere progressivamente il rispetto e la fiducia di cui godeva la magistratura italiana.
Il fatto che queste siano spesso campagne premeditate e studiate per distruggere quelli che vengono percepiti come dei nemici è dichiarato esplicitamente in una conversazione registrata tra Paolo Liguori, conduttore e direttore del telegiornale di Italia 1, e un amico di Berlusconi, nel corso della quale discutevano di come “fottere” Caselli per un altro caso che aveva per le mani. Ecco cosa accadde: erano emerse le prove che un magistrato di Cagliari, Luigi Lombardini, fosse stato coinvolto, in collusione con dei criminali, nel racket dei sequestri di persona. Lombardini, benché non fosse nemmeno stato assegnato alle indagini sul caso, fece da contatto tra la famiglia di una ragazza rapita e i suoi sequestratori, organizzando il pagamento di un ingente riscatto e, secondo l’accusa, minacciando il padre perché aumentasse l’entità del riscatto. Essendo un magistrato, per gestire la situazione vennero chiamati degli inquirenti da altre procure. Caselli e quattro sostituti procuratori arrivarono dalla Sicilia per avviare le indagini e interrogarono il magistrato per cinque ore. Dopo l’interrogatorio, mentre si preparavano a perquisire il suo ufficio, Lombardini si chiuse nella stanza, prese una pistola e si suicidò.

“Assassini!”, urlò Vittorio Sgarbi nel suo programma. Il Giornale descrisse gli inquirenti come uno “squadrone della morte”. Alcuni resoconti del caso affermavano che Caselli avesse spinto il giudice Lombardini a suicidarsi tramite un lungo e spietato interrogatorio. Poco dopo il suicidio la polizia registrò una conversazione tra Liguori e l’uomo d’affari sardo Nicola Grauso, partner e amico di Berlusconi, il cui telefono era sotto controllo in quanto era a sua volta sospettato nelle indagini sul sequestro. Grauso, particolarmente ansioso che l’attenzione si spostasse dai sequestratori ai loro inquirenti, incitava Liguori a non perdere l’opportunità di dare addosso a Caselli. Liguori gli assicurò che la sua rete stava facendo tutto il possibile e mandava in onda sei servizi al giorno sul caso. Poi Grauso consigliava a Liguori di assicurarsi che i telegiornali non si limitassero a citare le critiche mosse a Caselli da Forza Italia ma anche quelle della sinistra. “È meglio andare sul sicuro (…) perché questa potrebbe essere un’opportunità unica di fotterli, non penso che ce ne capiterà un’altra come questa”. “Sono d’accordo, perché Caselli è isolato per il caso Berlusconi. (…) Quando meno se ne aspettavano, quando si aspettavano un contrattacco di Berlusconi… sono scivolati su una buccia di banana [il suicidio di Lombardini]”, commentò Liguori. E Grauso rispose:“Quella buccia di banana gliela devi tenere sotto i piedi per tre o quattro giorni”.

Evidentemente sapevano tutti e due che Caselli non aveva fatto nulla di male, che era soltanto “scivolato su una buccia di banana” trovandosi a indagare su un caso delicato in cui un sospetto si era suicidato, ma per Grauso (proprietario del principale quotidiano sardo e di una stazione televisiva locale) e Liguori, si trattava di un’opportunità per saltare alla gola del nemico.

I processi penali durano il doppio rispetto a dieci anni fa grazie in parte all’opera legislativa di inquisiti-parlamentari come Marcello Dell’Utri

Caselli fu posto sotto indagine ma dopo diversi mesi di lavoro la sua gestione del caso fu giudicata assolutamente corretta. Tra le altre cose gli investigatori ascoltarono la registrazione dell’interrogatorio, che era stato condotto in modo estremamente calmo e professionale; alla fine dell’interrogatorio l’avvocato di Lombardini ringraziava addirittura gli inquirenti per il rispetto con cui avevano trattato il suo cliente. Si scoprì che nell’ufficio del magistrato morto si trovava la documentazione del suo ruolo illegale nel racket dei sequestri: Lombardini si era evidentemente suicidato perché sapeva che una perquisizione avrebbe rivelato l’esistenza di quel materiale incriminante che avrebbe posto fine alla sua carriera e probabilmente lo avrebbe fatto finire in carcere. Praticamente nessuna delle numerosissime accuse contro i magistrati avanzate da Berlusconi e dai suoi mezzi di comunicazione è stata dimostrata, ma questo costante volano di accuse e contraccuse ha avuto un prezzo. Quando si getta una grande quantità di fango, si è sicuri che ne resterà attaccato almeno un po’ al bersaglio, soprattutto se si controllano così tanti mezzi di informazione. L’elettore medio italiano, confuso e spesso male informato, non sa cosa credere e quindi decide di non prestare più attenzione alle questioni giudiziarie, immaginando che entrambe le parti abbiano probabilmente i propri scheletri nell’armadio. La stampa italiana teoricamente indipendente (e certamente anche la televisione italiana) non si sognerebbe mai di pubblicare una tabella in cui si confrontino le accuse rivolte contro Berlusconi e i suoi associati che si sono dimostrate vere e quelle rivolte ai suoi accusatori. I principali editorialisti hanno invece progressivamente adottato buona parte del linguaggio di Berlusconi in riferimento alla magistratura, gettando casualmente qua e là termini come “magistratura politicizzata”, come se fosse una verità universalmente riconosciuta anziché un’opinione tutta da dimostrare. Non è affatto sorprendente che un pubblico confuso sia diventato sostanzialmente agnostico rispetto alla questione della corruzione e della giustizia penale, scegliendo di non considerarla un fattore rilevante nelle proprie scelte elettorali.

Come abbassare lo standard morale
Dieci anni passati con un premier che ha continuato a possedere un vasto impero mediatico mentre governava una delle principali economie del mondo e ha respinto accuse di corruzione ben documentate con l’aiuto delle leve del governo hanno abbassato in misura significativa lo standard morale in Italia, che peraltro non era mai stato particolarmente elevato. Benché la corruzione sia stata per lungo tempo una caratteristica della vita politica del paese, spesso al vertice del mondo politico italiano vi erano in passato figure di indiscussa statura morale: presidenti della repubblica come Luigi Einaudi e Sandro Pertini, premier come Alcide De Gasperi e Carlo Azeglio Ciampi, leader dell’opposizione come Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer. Nel passato preberlusconiano era di fatto sostanzialmente automatico che un funzionario di alto livello desse le dimissioni qualora fosse stato sospettato di un grave reato – per non parlare di una messa in stato d’accusa o di una condanna – in attesa di tornare alla vita pubblica solo dopo che le cose fossero state chiarite.

Oggi anche condanne penali per frode, corruzione, estorsione e collusione con la mafia non hanno impedito a figure vicine a Berlusconi come Cesare Previti e Marcello Dell’Utri di conservare delle cariche pubbliche o di svolgere un ruolo di primo piano nella modifica del codice penale. Al contrario, le figure più a rischio di subire una condanna sono state fatte eleggere per poter godere dell’immunità parlamentare.

A un certo punto Dell’Utri, nel corso di un ritiro per i futuri candidati di Forza Italia in un lussuoso albergo di Macerata, nel novembre del 2002, giunse a tenere delle lezioni pubbliche su come farla franca nel caso di un’accusa penale.

“Primo: non parlare mai, avvalersi sempre della facoltà di non rispondere”, consigliò. “Secondo: non patteggiare mai, salvo che si venga colti in flagranza di reato. Terzo: non mancare mai alle udienze, se no il giudice si sente snobbato e l’avvocato non si impegna. Quarto: seguire i consigli dell’avvocato solo quando la pensa come voi, anche se è un principe del foro”. Il suo quinto e più importante comandamento illustra bene la strategia principale di tutti gli inquisiti berlusconiani: “Quinto: far passare più tempo possibile. Nei casi disperati, cioè quasi sempre, non preoccupatevi dell’anomalia principale dei processi: la durata interminabile. Anzi, la regola è proprio quella di far passare comunque il tempo. Perché il tempo è galantuomo, il tempo alla fine rende giustizia. Se invece accelerate eccessivamente, non riuscirete a ottenere una sentenza che vi dia soddisfazione. E poi, col tempo, possono succedere tante cose: può essere che muore un pm, muore un giudice, muore un testimone, cambia il clima, cambiano le cose”.

E così nell’Italia di Berlusconi un uomo che è stato condannato per diversi reati ma è riuscito a passare pochissimo tempo in carcere tiene delle lezioni ai membri più giovani del principale partito politico del paese su come evitare la prigione. Il fatto che i processi penali ora durino in media il doppio rispetto a dieci anni fa è dovuto in parte all’opera legislativa di inquisiti-parlamentari come Dell’Utri. Il risultato: l’Italia ha un sistema giudiziario disfunzionale che serve il doppio scopo di consentire a Berlusconi e ai suoi associati di trascinare i propri processi ed evitare le condanne e di incentivare una sfiducia generalizzata nella magistratura.

Silvio Berlusconi partecipa alla trasmissione televisiva Matrix insieme a Francesco Rutelli, 2006. (Alessandra Benedetti, Corbis/Getty Images)

Questo atteggiamento si è diffuso fino a diventare sempre più comune. Nel 2002 la polizia, che stava seguendo le attività di un trafficante di droga siciliano, registrò una sua conversazione telefonica in cui faceva riferimento a una spedizione per “il sottosegretario” e vide un assistente del sottosegretario alle finanze entrare nel ministero portando con sé una quantità stimata di 20 grammi di cocaina, superare le guardie di sicurezza senza alcun controllo e consegnare la droga a qualcuno all’interno. Diverse intercettazioni di telefonate tra i due principali sospetti convinsero la polizia che il destinatario del considerevole acquisto di droga era niente meno che il sottosegretario alle finanze Gianfranco Miccichè, un ex dipendente di Berlusconi e coordinatore di Forza Italia in Sicilia. Nel corso di una telefonata l’assistente di Miccichè, Alessandro Martelli, spiegò che avrebbe potuto pagare il fornitore solo dopo avere consegnato la droga al suo capo. Si scoprì inoltre che Miccichè anni prima era stato sospettato di trafficare in cocaina quando era un dirigente di Publitalia. Allora si era difeso sostenendo che acquistava droga solo per uso personale, il che non costituiva un reato. Dato che la consegna finale degli stupefacenti non era documentata, era impossibile istruire un caso contro Miccichè, ma un normale senso del pudore avrebbe imposto che un uomo con un passato di consumatore di cocaina, il cui assistente gli porta la droga all’interno di un ministero, non conservasse la carica di sottosegretario e tanto meno la direzione del principale partito politico in una regione come la Sicilia, dove questo genere di frequentazioni avrebbe potuto renderlo decisamente ricattabile.

Ma alla vicenda fu dedicato solo qualche articoletto di cronaca locale e su Miccichè non fu mai esercitata una particolare pressione perché rassegnasse le dimissioni dalle sue due importanti cariche.

Nel 2005 si scoprì che il ministro della salute del governoBerlusconi, Girolamo Sirchia, prima di iniziare l’attività politica aveva ricevuto decine di milioni di lire di pagamenti non dichiarati da un’azienda farmaceutica americana. Secondo l’ex contabile della filiale italiana dell’azienda il denaro faceva parte di una serie di tangenti pagate ai dottori italiani che avevano ordinato la strumentazione per le trasfusioni sanguigne per i propri ospedali. L’azienda americana riconobbe di avere effettuato i pagamenti a Sirchia ma disse che si trattava di parcelle di consulenza. Gli inquirenti trovarono degli assegni a nome del futuro ministro, emessi in Svizzera dalla filiale tedesca dell’azienda. Se i pagamenti fossero stati per una consulenza legale, perché mai effettuarli all’estero, di nascosto dalle autorità italiane? Il ministro, di fronte a queste prove, si limitò a negare di avere preso del denaro e restò al proprio posto. (…)

Il parlamento come guscio vuoto
Oltre a indebolire fortemente il sistema giudiziario,Berlusconi ha fatto il possibile anche per prosciugare i poteri del ramo legislativo. Berlusconi non ha mai fatto segreto del suo desiderio di creare una “repubblica presidenziale” che affidasse molto più potere all’esecutivo e riducesse ampiamente quello del parlamento. È già a buon punto nella realizzazione di questo progetto: il denominatore comune di molte sue azioni è di fatto l’eliminazione di ogni tipo di controllo neutralizzando qualsiasi istituzione – la magistratura giudiziaria, la stampa, il parlamento, commissioni e authority bipartisan – che possa svolgere la funzione dicane da guardia o limitare in qualche modo il suo potere.

Berlusconi si presenta di rado in parlamento e fatica a nascondere il proprio disprezzo per le persone che vi ha fatto eleggere. “Sono stato come il principe azzurro con le zucche, li ho fatti diventare onorevoli”, sostiene.

In assenza di un vero dibattito tra i membri di un parlamento deprivato di qualsiasi funzione reale, Forza Italia ha avuto grandi difficoltà a far presentare i propri membri alle votazioni, il che significa che in parlamento è spesso venuto a mancare il numero legale. Quando i parlamentari di Forza Italia vennero sorpresi a votare anche per i propri colleghi assenti, Berlusconi liquidò lo scandalo come una faccenda priva d’importanza dato che “le decisioni vere vengono prese altrove”. Il parlamento è un’istituzione che rischia di perdere qualsiasi significato reale, occupata da persone che sanno di non contare nulla e che se osassero sfidare il proprio leader su questioni di una qualche importanza, la loro vita politica sarebbe finita.

Berlusconi è tanto più ricco e potente dei suoi colleghi in parlamento da essere come Gulliver nella terra dei lillipuziani. Il suo denaro e il suo controllo del parlamento sono tali che anche i suoi potenziali rivali all’interno della maggioranza di centrodestra si trovano in una poco salutare posizione di subordinazione rispetto a lui. Umberto Bossi, il leader della Lega nord un tempo fiero e imprevedibile che fece cadere il primo governo Berlusconi, è ora uno dei più fedeli alleati del premier, dopo che questi ha aiutato il suo partito a uscire dalle difficoltà finanziarie in cui si trovava. “Io ho la valigia sempre pronta, ma non lo capite che sono un prigioniero? Un ostaggio?”, ha detto per spiegare perché rimanga saldamente fedele alla coalizione berlusconiana.

Uno degli esempi più rivelatori dei rapporti distorti tra gli alleati di governo si è osservato poco dopo le elezioni europee del 2004 nelle quali Berlusconi perse buona parte del suo sostegno e qualche alleato della coalizione di centrodestra iniziò a trovare un po’ di coraggio e a sfidare il suo controllo assoluto.Stanchi di essere trattati come garzoni e fattorini, alcuni alleati iniziarono a richiedere un ruolo più paritario in parlamento. “La monarchia è finita, deve cominciare la repubblica”, disseMarco Follini, leader dell’Udc, la cui percentuale di voto era cresciuta. Berlusconi reagì con rabbia malcelata. “Marco, continua così e vedrai come ti tratteranno nei prossimi giorni le mie televisioni. (…) Non fare finta di non capire, la questione della par condicio è fondamentale. Capisco che tu non te ne renda conto visto che sei già molto presente sulle reti Rai e Mediaset”. Quando Follini sottolineò che di fatto nell’ultimo mese lui era stato presente solo per 42 secondi sulle reti di Berlusconi, il premier rispose: “Non dire sciocchezze, la verità è che su Mediaset nessuno ti attacca mai”. “Ci mancherebbe pure che mi attacchino”. “Eppure se continui così te ne accorgerai”. E Follini replicò: “Voglio che sia messo a verbale che sono stato minacciato”.

Qualche mese dopo Follini mise in discussione la leadership di Berlusconi nel centrodestra; il 15 ottobre 2005 fu costretto alle dimissioni da segretario dell’Udc in pochi giorni, dopo una efficace campagna di stampa. (…)

Siamo tutti Berlusconi
Per quanto Berlusconi possa apparire come una figura estrema e a volte addirittura grottesca, concepibile solo in una società senza alcuna tradizione giuridica sull’antitrust e sul conflitto d’interessi, con una lunga storia di corruzione politica e una cinica tolleranza dell’infrazione delle regole, sarebbe un grosso errore considerarlo un’anomalia italiana, un esempio di tipica follia nostrana come il traffico di Napoli. La formula sviluppata da Berlusconi (denaro + mezzi di comunicazione + celebrità = potere politico) è la formula vincente in molte democrazie avanzate, non ultimi gli Stati Uniti. Negli Usa queste forze sono più articolate (non vi è un unico grande proprietario di televisioni, ma vi sono Rupert Murdoch, Sinclair Broadcasting, Clear Channel, Disney, General Electric, Time-Warner eccetera) e non appartengono a George Bush o a uno dei principali partiti politici.

L’emergere di un’informazione televisiva estremamente partigiana (l’ascesa di Fox News, Sinclair Broadcasting, nonché di molti dei programmi delle televisioni via cavo di informazione 24 ore su 24) con il loro stile urlato, strafottente e diffamatorio ricorda in modo inquietante ciò che le televisioni diBerlusconi hanno fatto per anni. L’attacco a John Kerry organizzato dai Swift boat veterans for the truth assomigliava al genere di assalto polifonico tanto spesso praticato dalla macchina mediatica berlusconiana. Si prese una non-notizia – il fatto che John Kerry si fosse costruito da solo il curriculum militare che gli aveva fatto conquistare diverse medaglie di guerra in Vietnam – contraddetta da tutti i testimoni oculari e dalle prove documentarie e la si tenne viva sulla televisione via cavo per circa un mese, durante il quale il considerevole vantaggio di Kerry su George Bush ha finito per evaporare. La semplice esistenza di “accuse” ripetute giorno e notte nelle case di tutta l’America ha fatto sì che il curriculum militare di Kerry diventasse all’improvviso “un problema” e che il suo servizio in Vietnam, che avrebbe dovuto costituire un significativo vantaggio rispetto alla controversa leva di Bush nella guardia nazionale, diventasse all’improvviso uno svantaggio. Questi mezzi di comunicazione non erano di proprietà di Bush, ma si comporta rono in modo estremamente simile ai media berlusconiani inItalia. La concentrazione di importanti mezzi di comunicazione nelle mani di poche grandi aziende, generalmente conservatrici; la nicchia economica creata da una nuova progenie di giornalisti radiotelevisivi di destra ad alto tasso di testosterone; la necessità che ha la televisione via cavo 24 ore su 24 di alzare il volume e tenere vive le storie e alti gli ascolti; infine il chiaro intento di qualche grande mezzo di comunicazione come Fox News, Sinclair Broadcasting e Clear Channel di sostenere la rielezione di Bush a ogni costo hanno creato una bestia a più teste che si è spesso comportata con la stessa disciplina militaresca del leviatano berlusconiano.

Oggi i commentatori politici statunitensi riconoscono chela politica viene gestita in una condizione di “campagna elettorale permanente”. Ai vecchi tempi il candidato iniziava a fare seriamente campagna elettorale solo nei pochi mesi tra la convenzione estiva del partito e le elezioni autunnali. I restanti tre anni e mezzo del mandato presidenziale venivano dedicati a governare. Oggi la campagna non si ferma mai e vengono utilizzate senza alcun freno le arti oscure di Hollywood e Madison Avenue. Berlusconi ha portato la campagna permanente in Europa, ma si può dire che anche Blair abbia fatto fondamentalmente la stessa cosa. Il populista venezuelano Hugo Chávez tiene un proprio programma televisivo settimanale, Aló, Presidente, e Vladimir Putin si è assicurato la fedeltà di tutti i grandi mezzi di comunicazione russi. (…)

I parallelismi tra l’Italia e gli Stati Uniti non sono casuali: questi fenomeni hanno radici simili e si sono sviluppati per ragioni analoghe. Gli anni ottanta – il decennio di Reagan e della Thatcher e, in Italia, di Craxi – segnarono una svolta tanto per gli Usa quanto per l’Europa. Fu un decennio in cui il consenso del dopoguerra sullo stato sociale iniziò a sfaldarsi. Reagan dichiarò che lo stato non era la soluzione, ma il problema. Diversi paesi si rivolsero alla privatizzazione e alla deregulation di numerosi settori, la vecchia economia manifatturiera cedeva il passo a un’economia postindustriale, la manodopera sindacalizzata lasciava il posto a forme di lavoro più flessibili e precarie. La guerra fredda finì e le ideologie politiche del ventesimo secolo evaporarono. I tradizionali partiti basati sulla divisione di classe si atrofizzarono e furono sostituiti da forme politiche estremamente personalizzate, che venivano comunica te in ampia misura attraverso la televisione. Una cultura della solidarietà (il New deal e la Great society negli Stati Uniti, lo stato sociale in Europa) fu sostituita da una nuova serie di valori basati sull’iniziativa personale, il successo e la ricchezza.

La deregulation del settore televisivo svolse un ruolo significativo in questi cambiamenti.

Berlusconi era convinto che la sua televisione potesse essere il motore di un nuovo tipo di capitalismo commerciale che avrebbe promosso una cultura più individualistica allentandola presa che le ideologie collettive incentrate sulla solidarietà (la chiesa cattolica, il Partito comunista, l’attaccamento allo stato sociale) avevano sulla popolazione. Berlusconi fu un importante agente di questi cambiamenti, e non solo in Italia. “Io sono stato il missionario della televisione privata in tutta Europa”, mi disse quando lo intervistai a Roma nel 1996. “Sono riuscito a convincere molti capi di stato che la televisione privata creava una maggiore libertà, incrementava la competizione con la televisione pubblica, aiutava il settore e aumentava il livello di democrazia”. L’introduzione della televisione commerciale in società in cui le telecomunicazioni erano state monopolio del governo non solo cambiò il ruolo dello stato nella società, ma introdusse anche una cultura nuova e diversa nella vita europea.

Berlusconi si presenta di rado in parlamento e fatica a nascondere il proprio disprezzo per le persone che vi ha fatto eleggere

Berlusconi era perfettamente in linea con la cultura americana degli anni ottanta. Il presidente della Federal communications commission di Ronald Reagan, Mark Fowler, descrisse la televisione come “un tostapane con le immagini”, un elettrodomestico come tutti gli altri. Allo stesso modo Berlusconi comprese che la chiave della televisione commerciale consisteva nel creare un veicolo efficace per vendere dei prodotti.“Noi non vendiamo spazi, vendiamo vendite” era uno dei suoi slogan preferiti. Era un cambiamento epocale: da una società che considerava la televisione un servizio pubblico a un’impresa puramente economica. E per effettuare questo cambiamento era necessario sostituire dei valori politici con valori commerciali.

Quando alcuni ricercatori della University of California LosAngeles (Ucla) iniziarono nel 1968 a intervistare le matricole, gli studenti indicarono “acquisire una filosofia di vita” come la priorità numero uno della propria istruzione, mentre “ottenere un buon posto di lavoro e fare soldi” si trovava in fondo alla classifica. Nei venticinque anni seguenti quei valori furono letteralmente invertiti: “fare soldi” schizzò in vetta e “acquisire una filosofia di vita” sprofondò negli abissi della classifica.

Questo spostamento potrebbe avere molte spiegazioni: la fine della guerra in Vietnam, il declino della guerra fredda, la crisi economica degli anni settanta e il maggior costo dell’istruzione, ma i ricercatori furono sorpresi dalla scoperta di una forte correlazione tra la quantità di televisione che gli studenti guardavano e l’espressione di priorità materialistiche. La conclusione fu che un aumento dei valori conservatori e materialistici “era associato al numero di ore settimanali che gli studenti avevano passato a guardare la televisione nell’ultimo anno. (…) Più televisione guardavano, più forte era l’adesione all’obiettivo di ottenere ottimi risultati finanziari e più debole quella all’obiettivo di sviluppare una filosofia di vita significativa. Per quanto queste correlazioni non possano ovviamente dimostrare un rapporto di causa-effetto, sollevano alcune interessanti possibilità”.

In Italia, nello stesso periodo, Berlusconi e la televisione commerciale ebbero un effetto determinante sul modo in cui la gente passava il proprio tempo e su come pensava. La televisione italiana aveva avuto un solo canale fino agli anni sessanta e la tv a colori era comparsa solo nel 1974. Inoltre la Rai non teneva delle statistiche sul numero di ore settimanali che gli italiani passavano in media a guardare la televisione. Ma dieci anni dopo l’avvento di Berlusconi, nel 1987, in media gli italiani guardavano la tv almeno per tre ore al giorno (178 minuti). Nel 2002, in piena era Berlusconi, il tempo che gli italiani passavano ogni giorno di fronte alla tv aveva raggiunto la sbalorditiva media di 235 minuti, in testa gli anziani e le casalinghe.

Era estremamente rivelatore il fatto che subito dopo la tragedia dell’11 settembre il presidente Bush abbia incitato gli americani a “consumare” e viaggiare, a “visitare Disney world e altri luoghi di vacanza americani” anziché per esempio chiedere ai cittadini di sacrificarsi e risparmiare energia per ridurre la dipendenza degli Stati Uniti dal petrolio straniero. Berlusconi, nel bel mezzo della recessione post-11 settembre, fece un appello simile al popolo italiano. “Continuate a spendere e non risparmiate”, disse. “I vostri stipendi non scenderanno, nella peggiore delle ipotesi resteranno gli stessi. (…) Tutte queste voci secondo le quali l’economia va male creano solo inutili mal di stomaco. Non leggete quegli articoli”.

Con il trionfo della televisione sulla stampa centinaia di quotidiani chiusero e l’intrattenimento sostituì l’informazione nei mezzi di comunicazione sopravvissuti. Dal 1977 al 1987 Newsweek e Time ridussero il numero di copertine dedicate a problemi pubblici da una su cinque a una su venti. Nell’ultimo quarto del ventesimo secolo le notizie incentrate sul gossip triplicarono anche su mezzi d’informazione importanti come il New York Times, mentre le notizie serie (che in precedenza erano la maggioranza) si ridussero a un terzo del totale. Forse non è sorprendente che gli spettatori più fedeli di Chi vuole essere milionario? tendano a votare in massa per il premier miliardario.

Silvio Berlusconi durante una trasmissione televisiva, nel 2005. (Alessandra Benedetti, Corbis/Getty Images)

Ma questi elettori teledipendenti tendono anche a essere più poveri e meno istruiti della media degli italiani. È una delle curiose contraddizioni della vita contemporanea: via via che i mezzi di comunicazione moderni si sono sempre più concentrati nelle mani di pochi individui favolosamente ricchi o poche grandi aziende, il pubblico televisivo è diventato sempre più povero e meno istruito. I politici di destra dell’era televisiva – da Ronald Reagan a Ross Perot, da Berlusconi a George W.Bush – sono particolarmente abili nel raggiungere questo pubblico proiettando un appeal interclassista. Pur avendo interessi economici radicalmente diversi rispetto ai propri elettori e perseguendo politiche che raramente sono nell’interesse economico dei lavoratori meno istruiti, questi politici sono riusciti con grande efficacia ad adottare un linguaggio politico con un ampio richiamo che trascende le divisioni di classe tramite espressioni generiche di fede religiosa e attaccamento alla famiglia e patriottismo, proiettando una forte immagine virile e parlando il linguaggio chiaro e semplice dell’uomo comune. Al contrario i politici di centrosinistra, tanto in Italia quanto negli Stati Uniti, devono lottare contro il fatto di essere diffusamente percepiti come elitisti culturali che parlano il linguaggio affettato dei docenti universitari che cercano di spiegare la complessità dei temi che affrontano con frasi lunghe e difficili da capire. La destra è riuscita a fare della classe una questione di stile più che politica, etichettando candidati democratici tipo John Kerry come “privo di contatto” con la realtà americana o riferendosi all’opposizione in Italia come alla “sinistra snob” o “radical chic”. Tanto Berlusconi quanto Bush (comeReagan prima di loro) padroneggiano l’arte della retorica populista, si muovono o parlano come l’uomo comune e al contempo perseguono politiche economiche che sono tutto fuorché populiste.

Un altro elemento cruciale che collega l’elettorato berlusconiano alla propria controparte americana è che esprime pochissimo interesse e conoscenza della politica e, forse proprio per questo, nutre una profonda sfiducia nei suoi confronti. Molti di questi elettori non sono stati in grado di rispondere a domande elementari sulla politica italiana o sulla natura del suo sistema politico. Molti hanno affermato di prestare poca attenzione alle notizie e di discutere raramente di politica con amici e parenti. Questo ha qualcosa a che fare con l’ambiente mediatico della vita contemporanea. “I quotidiani sono per l’élite”, ha dichiarato Berlusconi nel dicembre 2003. “Le massaie non leggono il giornale”. Purtroppo la sua sprezzante osservazione ha in sé più di un elemento di verità. La percentuale degli italiani che utilizzano la televisione come principale strumento di informazione è schizzata dal 62,3 per cento del 1990 al 77,4 per cento del 2001, mentre la quota di persone che si affida per lo più ai quotidiani è crollata dal 19,7 per cento a un misero 6,4 per cento.

Tra questa fetta di popolazione che legge poco, sa poco e discute raramente di politica vi è un elevato livello di sfiducia e di avversione proprio per la politica. È un elettorato perfetto perla retorica dell’antipolitica. Berlusconi inveisce contro “il teatrino della politica”, contro i “politici di professione (…) che non hanno mai lavorato un solo giorno in una vera azienda e non fanno altro che intascare il denaro del contribuente” e che parlano in “politichese”. Tutto ciò dovrebbe suonare familiare a chiunque abbia seguito la politica americana degli ultimi trent’anni. Dopo Jimmy Carter e Ronald Reagan tutti i candidati di entrambi i partiti hanno cercato di presentarsi come degli outsider che si battevano contro Washington. La politica dell’antipolitica ha generato una proliferazione di nuove e curiose figure ibride: l’attore-politico (Reagan-Schwarzenegger),il miliardario-politico (Perot, Bloomberg, Corzine, Forbes) e addirittura il lottatore-politico Jesse “The Body” Ventura, che da professionista del wrestling è diventato governatore del Minnesota. Berlusconi è una combinazione di tutte queste figure: intrattenitore, celebrità, miliardario e magnate dei media. Il successo di “duri” del mondo dello spettacolo come Ventura e Schwarzenegger fa appello alla rabbia della classe lavoratrice bianca e alla sua alienazione dal sistema politico.

La deregulation del settore radiotelevisivo – negli Stati Uniti e in Italia – si è associata alla perfezione a questa tendenza generando una sorta di balcanizzazione dei media, la proliferazione di decine di canali, la perdita di grandi canali generalisti pensati per piacere a tutti. Allo stesso tempo l’abbandono negli Usa di princìpi come la dottrina di imparzialità e la dottrina della par condicio, nonché l’eliminazione dei requisiti di pubblico interesse ha aperto la strada alla programmazione estremamente partigiana che domina oggi i notiziari via cavo. La vecchia dottrina di imparzialità, che costringeva un’emittente a garantire un tempo pari all’opinione opposta nel caso il canale assumesse una posizione editoriale su un tema specifico, faceva in modo che le emittenti raggiungessero uno stato di equilibrio e tendessero a evitare di schierarsi. Questa tendenza era rafforzata dal desiderio delle grandi reti di richiamare un pubblico più ampio possibile. Con l’avvento della televisione via cavo le nuove stazioni si accontentavano di scavarsi una nicchia con un’audience di pochi punti percentuali. Allo stesso tempo dovevano essere più aggressive per sottrarre alle tre grandi reti l’attenzione degli spettatori. Nei programmi di intrattenimento questo significò un drastico aumento di sesso, violenza e turpiloquio, nella presentazione delle notizie portò a opinioni sostenute in modo forte e gare di urli tra ospiti e conduttori dei talk-show; in poche parole, il genere di lotta nel fango giornalistica che è diventato il pezzo forte della maggior parte dei programmi della televisione via cavo 24 ore su 24. Il genere di programmazione che Berlusconi sviluppò per primo inItalia divenne (più o meno consapevolmente) il modello per Fox News e altri canali di informazione via cavo.

Nel corso di questo processo il giornalismo così come lo conosciamo ha subìto una mutazione genetica che ha messo in crisi e minato alla base l’intera tradizione di obiettività giornalistica che costituiva le fondamenta dell’informazione americana. Naturalmente l’obiettività era un mito, ma un mito utile che incoraggiava i giornalisti a mantenere un senso di equilibrio, un sano rispetto per i fatti e un senso del dovere che li spingeva a riportare anche fatti che andavano contro le loro idee più radicate. Così un lettore liberal del conservatore Wall Street Journal poteva rifiutare le opinioni espresse nei suoi editoriali ma apprezzare comunque l’eccezionale completezza delle sue notizie. Un lettore conservatore del New York Times (o anche un lettore di estrema sinistra, se è per questo) poteva disapprovare il modo in cui il giornale trattava numerosi argomenti, ma anche formarsi quasi sempre un’opinione opposta alla linea editoriale basandosi sui fatti che il quotidiano riportava e ai quali forse dava un’importanza insufficiente. La massima fondamentale del giornalismo moderno (come anche del discorso politico moderno) è che “hai il diritto alle tue opinioni, ma non ai tuoi fatti”.

Ciò che hanno fatto sia Berlusconi sia la nuova informazione di destra americana è mettere in dubbio e minare l’idea stessa di “fatti”. Quando a Richard Viguerie, uno dei fondatori della nuova destra americana, fu chiesto come i mezzi di comunicazione conservatori potessero continuare ad affermare che Osama bin Laden sosteneva la candidatura di John Kerry senza citare alcuna prova a sostegno della loro tesi, questi rispose:“Il giornalismo è proprio questo. Opinioni. Solo opinioni”.

Berlusconi, Murdoch e altri hanno creato un contro-modello in cui il giornalismo è una pura arma politica in cui viene messo da parte ogni tentativo di imparzialità, se non come fumo negli occhi del lettore ingenuo. “Fatto numero uno: la Francia ci ha pugnalati alla schiena”, disse Bill O’Reilly al pubblico della Fox nel corso di un programma sulla divergenze tra StatiUniti ed Europa rispetto all’invasione dell’Iraq. Naturalmente O’Reilly ha tutto il diritto di credere che la Francia abbia tradito gli Usa non sostenendo l’invasione (come la Francia ha il diritto di credere di avere semplicemente esercitato il proprio buonsenso), ma questi non sono fatti. Eppure la Fox insiste a fare un uso orwelliano del linguaggio dell’obiettività chiamando “fatti” le opinioni e adottando gli slogan “Noi raccontiamo, voi decidete” e “Imparziale e obiettivo”, mentre pratica il giornalismo più selvaggiamente partigiano. I giornalisti delle trasmissioni Fox e Sinclair (come avviene in Italia) ricevono ordini dall’alto su quali argomenti trattare e come trattarli. (…)

Come nel caso di Berlusconi, la destra radicale americana ha creato i propri fatti. Quando nel 2004 chiesi ad alcuni delegati alla convention repubblicana se il fatto che in Iraq non fossero state trovate armi di distruzione di massa creava loro qualche problema, molti risposero: “C’erano, ma le hanno fatte uscire di nascosto dal paese su dei camion diretti verso la Siria”. Quando chiesi quali prove avevano per affermarlo, risposero semplicemente: “Noi abbiamo le nostre informazioni e voi ave te le vostre”. Il fatto che si trattasse di un’ipotesi di cui nessuno aveva parlato (nemmeno l’amministrazione Bush) era per loro una conferma della sua validità e della malizia dei mezzi di comunicazione liberal.

Allo stesso modo vi sono milioni di italiani che credono fermamente – perché se lo sono sentito ripetere tanto spesso – che tutti i problemi legali di Berlusconi sono stati il risultato diretto del suo ingresso in politica, anche se può essere dimostrato– fatti e date alla mano – che diverse e importanti indagini sulle sue aziende erano già in corso e che diversi dirigenti della sua azienda erano stati arrestati o accusati prima della sua discesa in campo.

Bush e Berlusconi sono state figure enormemente polarizzanti e i loro sostenitori e detrattori non si capiscono letteralmente a vicenda, non hanno praticamente un linguaggio in comune e vivono in universi informativi del tutto separati.

La nuova destra, Berlusconi e Murdoch sono veri teorici del postmoderno, che non credono in alcuna verità stabile. Per anni i conservatori negli Stati Uniti hanno accusato la sinistra di “relativismo morale”, di negare l’esistenza di un codice morale universale e delle “verità eterne” della società tradizionale. Madi fatto sono proprio loro a essere i veri postmoderni. “Sono solo opinioni”, come ha detto Richard Viguerie.

Berlusconi – come la destra americana – è stato abilissimo nel polarizzare il mondo dei media e della politica. Nel mondo di Bush o sei con lui o sei con i terroristi. In quello di Berlusconi o sei con lui o con i comunisti. Attaccando immediatamente qualsiasi fonte lo critichi, le informazioni prodotte da quella fonte diventano automaticamente inquinate e sospette. Nell’Italia di Berlusconi sollevare delle questioni di fatto non ideologiche come il problema del conflitto d’interessi viene fatto apparire come un attacco politico che può essere liquidato senza alcuna discussione. Così anche quando un quotidiano assai moderato come il Corriere della Sera ha scritto dei problemi legali di Berlusconi o ha criticato degli atti specifici del governo, è stato trasformato in un nemico e il suo direttore è stato allontanato. Negli Stati Uniti un articolo pubblicato dal NewYork Times può essere liquidato come il prodotto della cosiddetta “stampa liberal”. Si è diffusa l’idea che il New York Times sia per la sinistra americana quello che Fox News è per la destra, quando di fatto si tratta di realtà totalmente diverse.

Berlusconi e la destra americana sono stati molto efficaci nell’eliminare l’idea di un’istituzione indipendente (quotidiani, tribunali, commissioni bipartisan) che cerchi di arrivare a un insieme di fatti riconosciuti e documentati. Tutto è politicizzato, per cui il fatto che un’entità specifica raggiunga una conclusione che essi considerano negativa può essere usato come prova che quell’entità è “ostile” e quindi le sue conclusioni possono essere liquidate a priori. (…)

Il sostegno di Berlusconi è più elevato tra coloro che guardano più televisione, leggono meno e guardano con sospetto ai mezzi di informazione e alla politica. Una popolazione sospettosa e piuttosto ignorante è relativamente facile da manipolare.

Vi sono forti collegamenti tra gli alti livelli di uso del televisore e i bassi livelli di partecipazione elettorale e altre forme di partecipazione civile e politica. Il nostro ambiente informativo balcanizzato riflette (o forse contribuisce a creare) una società sempre più segnata dalla classe economica, con un’élite istruita, attiva e molto ben informata che sa come ottenere ciò che vuole dal governo e lo ottiene e, dall’altro lato, una maggioranza molto più passiva, male informata che guarda la televisione, guarda con sospetto al governo e ai media e sente di perdere terreno da un punto di vista economico ma non sa bene cosa fare al riguardo.

George Bush ha battuto John Kerry tra gli elettori bianchi della classe lavoratrice con uno sbalorditivo margine del 23 per cento. I salari medi durante l’amministrazione Reagan e le due amministrazioni Bush hanno continuato a calare, soprattutto per i lavoratori senza un’istruzione universitaria. La loro posizione economica è scivolata verso il basso sia in termini assoluti (stipendi in calo) sia in termini relativi, in quanto lo iato tra ricchi e poveri ha raggiunto un punto mai più visto dopo il crollo della borsa del 1929. La loro posizione si era indebolita in larga misura per ragioni strutturali come la globalizzazione, l’automatizzazione e la desindacalizzazione: le iscrizioni ai sindacati erano scese da circa un terzo della forza lavoro statunitense a un misero 12 per cento. Ma le amministrazioni repubblicane avevano prediletto apertamente politiche economiche favorevoli ai molto ricchi (eliminazione delle tasse sugli immobili, taglio delle tasse sui redditi da investimento) ed erano state ostili alle politiche per i lavoratori: l’aumento del salario minimo, l’estensione dei sussidi di disoccupazione nei momenti di recessione, i programmi per la riqualificazione dei lavoratori nei settori in crisi. Eppure erano stati proprio gli elettori della classe lavoratrice a voltare le spalle ai democratici, in parte perché ritenevano che questi, a prescindere dalle loro intenzioni, non fossero stati in grado di invertire questo profondo declino strutturale. Il risultato è che questo tipo di elettori sembra decidere come votare in base a fattori non economici: la guerra al terrorismo, la normativa sul controllo delle armi, l’aborto, la religione, il matrimonio per le coppie omosessuali, l’appeal personale del candidato, tutti temi combattuti su un livello simbolico dove la destra si è dimostrata estremamente efficace. Come ha detto al Washington Post un tipico elettore texano, un operaio di 49 anni, Bush è “un vero uomo, un uomo virile”, mentre Al Gore era un “ragazzino lamentoso”.

In quasi tutte le elezioni americane dopo l’avvento della televisione la vittoria è toccata al candidato più “gradevole”. Il fascino da zio simpatico e l’aura di celebrità di Ronald Reagan consentirono ai repubblicani di far approvare un programma rigidamente liberista che senza di lui forse non sarebbero riusciti a mettere in atto. Le frequenti dichiarazioni a sproposito di Reagan, come gli errori di sintassi di Bush e le gaffe di Berlusconi, pur rendendoli ridicoli agli occhi degli intellettuali, fanno in realtà parte del loro appeal interclassista. Un sondaggio tra gli elettori mostrava che questi trovavano Bush “più simile a loro”, anche se avevano dei dubbi sul fatto che gli stessero a cuore i loro interessi.

In questo ambiente fortemente depoliticizzato e apatico la pratica democratica è diventata pericolosamente simile a una formalità. Agli elettori viene chiesto ogni cinque anni (quattro negli Stati Uniti) di votare per le elezioni politiche. Generalmente vince il candidato con più soldi e con il maggiore livello di “gradevolezza” nei focus group televisivi. Negli Stati Uniti è sufficiente mobilitare il 25 per cento degli aventi diritto al voto per vincere. Ma tanto Bush quanto Berlusconi sono riusciti a usare le loro elezioni come un mandato per portare avanti dei programmi con i quali la maggioranza dei loro paesi è in realtà in disaccordo.

La concentrazione di mezzi di comunicazione, il declino della lettura e della partecipazione civile, il crollo dell’identificazione con i partiti politici, il ruolo della celebrità in politica, il richiamo dell’antipolitica, declino dei sindacati, il crescente iato tra ricchi e poveri: tutte queste sono realtà in crescita costante in molte democrazie capitalistiche avanzate. Questi elementi creano nuove e preoccupanti possibilità per governi gestiti dai (e a beneficio dei) pochissimi con un’enorme macchina mediatica a disposizione, persone a cui per continuare nella propria opera basta conquistare ogni quattro o cinque anniun minimo cenno di approvazione da un pubblico sempre più indifferente e male informato.

Silvio Berlusconi, come figura politica, può anche essere transitorio, ma il fenomeno Berlusconi con ogni probabilità è una realtà che non svanirà tanto facilmente. Berlusconi a volte può anche sembrare una caricatura, ma è un nostro riflesso in uno specchio deformante, un riflesso nel quale i nostri tratti, per quanto distorti ed esagerati, sono perfettamente riconoscibili.

Questo articolo è un estratto dal libro di Alexander Stille “Citizen Berlusconi. Vita e imprese”, pubblicato in Italia da Garzanti. La traduzione è di Fabio Paracchini. È stato pubblicato il 10 marzo 2006 sul numero 632 di Internazionale.

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