Autobiografia letteraria della rivoluzione russa
A novembre del 2017 ricorrono i cent’anni della rivoluzione bolscevica. Quella di ottobre (secondo la datazione del calendario giuliano allora in vigore), che spodestò il governo socialdemocratico, il quale a sua volta era entrato in carica a marzo dopo la cacciata del regime zarista. Un evento di tale portata, le cui conseguenze hanno cambiato per decenni il volto di mezzo mondo, si può ricordare con analisi politiche, saggi storici, commenti che cerchino di convincerci dell’importanza del leninismo o ci ricordino la brutalità del sistema a cui diede vita.
Altrimenti si può fare un passo indietro e tornare alle fonti. Scavare nei ricordi di vecchie letture, riprendere in mano libri impolverati rimasti sugli scaffali per anni, farli parlare. E raccontare i cent’anni della rivoluzione e il secolo sovietico attraverso frammenti letterari di autori russi. Ne abbiamo scelti cento: di romanzi, saggi, memorie, poesie, racconti di viaggio. Parole che sappiano restituire il fuoco della palingenesi rivoluzionaria, lo spaesamento dell’incontro con un ordine umano mai sperimentato, la disillusione delle speranze tradite, la violenza della repressione, l’assurdità di un mondo costruito su un’intricatissima impalcatura burocratica di regole e sigle spesso grottesche. E poi l’assuefazione, la necessità di fare i conti e convivere con la realtà del regime, fino alla sua implosione.
Generazioni di cittadini sovietici, uomini nuovi e no, hanno attraversato queste fasi storiche: sono sopravvissuti ai campi di lavoro e alla guerra, si sono abituati a parlare sottovoce in cucine piene di fumo, a convivere con la paura e a non perdere la fiducia nel futuro. Alcuni erano iscritti al partito, altri erano dissidenti. Alcuni avevano privilegi, altri finivano nel gulag. Alcuni cantavano le lodi di Lenin, altri si ritiravano in un universo privato, cercando di convincersi che il mondo esterno fosse solo una passeggera allucinazione. Tutti, però, hanno cercato di vivere. E molti hanno scritto, lasciando un patrimonio documentario e artistico straordinario. È seguendo queste tracce che abbiamo cercato di raccontare l’Unione Sovietica, con la consapevolezza di aver tracciato un quadro parziale e forse incompleto.
- La rivoluzione e la nascita del potere sovietico. 1905-1917
- Rossi contro bianchi: la guerra civile. 1918-1922
- Dalla Nep ai piani quinquennali. 1921-1929
- Carestie, collettivizzazione e Grande terrore. 1930-1938
- La Grande guerra patriottica e l’ultima fase dello stalinismo. 1939-1953
- Gli anni del disgelo e della speranza. 1954-1964
- Socialismo reale e stagnazione. 1966-1982
- L’esperimento della perestrojka. 1985-1989
- Il crollo dell’Urss e la Russia sovrana. 1991-2017
- Postilla
La rivoluzione e la nascita del potere sovietico. 1905-1917
In Russia la prima rivoluzione ha luogo nel 1905. Le sollevazioni di operai e contadini vengono represse dal regime zarista. Nel biennio 1911-1912 ci sono altre rivolte contadine e operaie. Poi arriva il 1917. A febbraio una serie di insurrezioni e cortei fanno cadere il regime zarista. Nicola II abdica e sale al potere un governo provvisorio di orientamento moderato, che divide il potere con il soviet di Pietrogrado, dominato da socialisti di diverse correnti. A ottobre la componente bolscevica prende il potere e dà vita al sistema monopartitico che durerà fino al crollo dell’Unione Sovietica.
1
“In piedi, avanti, uomini del lavoro, Alla lotta, affamati fratelli!”. Dalle strade la gente correva incontro alla bandiera rossa, gridava qualcosa, si univa a quelli del corteo e ripercorreva la strada con loro. Le grida si spegnevano nelle note della canzone, di quella canzone che a casa cantavano più piano delle altre, mentre ora per la via correva libera e chiara, echeggiava nell’aria con una forza terribile.
Maksim Gorkij, La madre, 1906
2
Non si possono conoscere i termini del tempo. Ma la patria risorgerà, risorgerà grazie al nostro sangue, risorgerà dalle profondità del popolo.
Boris Savinkov, Cavallo nero, 1923
3
Rivolta o rivoluzione? Velskij continuava ad avere difficoltà nello scegliere una di queste definizioni. La Duma aveva fatto il colpo di stato; alla testa c’erano liberali di censo, professori, personalità pubbliche, gente con grossi nomi, noti anche in Europa; della legalità della rivoluzione si parlava a destra e a manca, tutto questo era vero; d’altra parte, a considerare l’insieme, si sentiva un impercettibile puzzo di Pugačëv.
Georgij Ivanov, La terza Roma, 1929
4
Battete in piazza il calpestio delle rivolte! / In alto, catena di teste superbe! / Con la piena d’un nuovo diluvio / laveremo le città dei mondi. / Il toro dei giorni è pezzato. / Il carro degli anni è lento. / Il nostro dio è la corsa. / Il cuore è il nostro tamburo. Vladimir Majakovskij, La nostra marcia, 1917
5
“Dimmi adesso: in questo mondo vero ciascuno avrà la sua parte e tutte queste parti saranno uguali, è o non è così?”. “Certo che è così, eccezion fatta per i parassiti, che però in genere non esisteranno”.
Ilja Ehrenburg, La tempestosa vita di Lazik, 1928
6
In quegli anni strani, in quegli anni meravigliosi le ore incalzavano senza che riuscissimo a riaverci. Aspettavamo che rallentassero la loro corsa. Speravamo di poter fermare il pulsar febbrile delle vene e rifiatare una volta, una volta sola. Konstantin Fedin, La città e gli anni, 1924
7
Sono i primi di marzo. Dalla stazione vado in carrozzella a casa. Passo davanti al Palazzo d’inverno. Sul palazzo vedo una bandiera rossa. Dunque, una nuova vita. Una nuova Russia. E anche io sono nuovo, non sono più quello di una volta.
Michail Zoščenko, Prima che sorga il sole, 1943
8
Intorno all’isola Vassilevskij, in un vasto mare, si estendeva il mondo. Là c’era stata la guerra, poi la rivoluzione. Ma nella casa di Trofim Ivanič la caldaia emetteva sempre lo stesso brontolio, il manometro segnava sempre nove atmosfere. Soltanto il carbone era cambiato: prima c’era il Cardiff, adesso il Donetsk. Il Donetsk si sgretolava, la polvere nera invadeva ogni cosa, impossibile liberarsene. Sembrava che quella polvere nera avesse impercettibilmente ricoperto tutto nella casa. In apparenza nulla era cambiato.
Evgenij Zamjatin, L’inondazione, 1929
9
A migliaia di migliaia la Russia ha dato la libertà. / Non c’è cosa migliore. A lungo la ricorderanno per questo. / Io invece mi sono tolto la camicia, / E tutti i grattacieli di specchi dei miei peli, / Tutte le fessure / Della città del corpo / Hanno esposto tappeti e tessuti rossi. /Le cittadine e i cittadini / Del Me – stato / Si sono affollati alle finestre dei riccioli dalle mille finestre. / Le Olghe e gli Igor’, / Non per convenienza, / Rallegrandosi del sole, hanno guardato attraverso la pelle. / Era finita la prigionia della camicia. / Mi ero semplicemente tolto la camicia / E avevo dato il sole al popolo del Me. / Ero nudo, vicino al mare. / Così ho regalato la libertà ai popoli, / Alle genti che prendevano il sole.
Velimir Chlebnikov, Io e la Russia, 1921
Rossi contro bianchi: la guerra civile. 1918-1922
Dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi, il 3 marzo la Russia firma con le potenze centrali (Germania, Austria-Ungheria e Impero Ottomano) la pace di Brest-Litovsk, che segna l’uscita del paese dalla prima guerra mondiale. Comincia la guerra civile tra i rossi e le forze controrivoluzionarie, i cosiddetti bianchi, sostenute da Stati Uniti, Inghilterra e Francia. Il conflitto ha luogo soprattutto in Ucraina, ed è caratterizzato da violenze terribili. La guerra finisce nel 1922 con la vittoria dei bolscevichi, che consolidano il loro potere sulla nascente Unione Sovietica.
10
Natalia chinò la testa, le sue trecce pesanti ricaddero, e si mise a leggere i giornali. I giornali provinciali su carta marrone e i giornali di Mosca su carta blu di segatura erano colmi d’amarezza e di smarrimento. Non v’era pane. Non v’era ferro. V’erano la fame, la morte, l’orrore e il terrore; correva l’anno 1919.
Boris Pilniak, L’anno nudo, 1922
11
Dappertutto continue rivolte contadine. “Contro chi?”, domanderete voi. Come fate a pensarlo? Contro i bianchi e contro i rossi, a seconda del potere che è stato instaurato. Voi direte: oh, naturale, il contadino è nemico di ogni ordine, non sa nemmeno lui cosa vuole, solo che non è quello che vogliamo noi. Quando la rivoluzione lo ha svegliato, ha creduto che si realizzasse il suo sogno secolare di una vita autonoma, di un’esistenza anarchica nel suo podere lavorato con le sue braccia, senza dipendere da estranei e senza obblighi verso chicchessia. E invece, dalla morsa della vecchia statalità, è caduto sotto il potere incomparabilmente più aspro del superstato rivoluzionario. Ed ecco che la campagna si agita, non trova pace da nessuna parte.
Boris Pasternak, Il dottor Zivago, 1957
12
Mi dirigo alla volta di Leš, dove ha sede lo stato maggiore della divisione. Ho ancora come compagno Priščëpa – un giovane cosacco del Kuban, canaglia infaticabile, comunista cacciato dal partito, futuro ricettatore, sifilitico spensierato, indolente mentitore. Egli indossa un rosso mantello circasso di panno sottile e un cappuccio di pelo gettato all’indietro. Lungo la strada mi ha raccontato di sé. Non dimenticherò mai il suo racconto. È fuggito un anno fa dai bianchi. In contropartita essi presero in ostaggio i suoi genitori e poi li uccisero dicendo che erano delle spie. La proprietà venne saccheggiata dai vicini. Quando i bianchi furono cacciati dal Kuban, Priščëpa fece ritorno al paese nativo. […] Priščëpa noleggiò una carretta militare e girò per il paese a riprendersi i suoi grammofoni, i boccali per il kvas e gli asciugamani che la madre aveva ricamato. […] Passava da un vicino all’altro, e le tracce insanguinate delle sue scarpe si allungavano dietro di lui. Nelle case dove il cosacco trovava le cose di sua madre o il cannello della pipa del padre, egli lasciava vecchie sgozzate, cani impiccati sui pozzi e icone imbrattate di sterco.
Isaak Babel, L’armata a cavallo, 1926
13
Cara chitarra / suona, suona / fammi sentire, zingara, qualcosa / affinché scordi i giorni avvelenati / che non conobbero carezza e pace. / Il potere sovietico lo accuso, / e gli conservo rancore per questo: / nell’altrui lotta ho perduto di vista / la luminosa giovinezza. / Che cosa ho visto io? / Solo battaglie ho visto, / ed invece dei canti / ho ascoltato i cannoni. / Non è per questo che il pianeta ho corso / a perdifiato, con la testa gialla? / […] / Non sono un uomo nuovo! / A che serve nasconderlo? / Con un piede rimango nel passato / e, volendo raggiungere l’esercito d’acciaio, / scivolo e cado con l’altro.
Sergej Esenin, La Russia che se ne va, 1924
14
Noi ci siamo gettati con troppa foga e avidità verso il futuro perché ci potesse restare un passato. S’è spezzato il legame dei tempi. Abbiamo vissuto troppo del futuro, pensato troppo a esso, in esso troppo creduto, e per noi non c’è un’attualità autosufficiente: abbiamo perso il senso del presente. Noi siamo i testimoni e i compartecipi di grandi cataclismi sociali, scientifici e d’altri ancora. La vita quotidiana è rimasta indietro. Secondo una splendida iperbole del primo Majakovskij, l’altra gamba corre ancora nella via accanto.
Roman Jakobson, Una generazione che ha dissipato i suoi poeti, 1930
Dalla Nep ai piani quinquennali. 1921-1929
Il paese esce devastato dalla guerra civile. Nel 1921 viene adottata la Nuova politica economica (Nep), che reintroduce alcuni elementi del libero mercato. Sono anni di grandi ricchezze, confusione ed eccessi. Nel 1924 muore Lenin, e nel 1927 Stalin diventa il leader indiscusso del Partito comunista. La Nep viene abbandonata e sostituita dal principio della pianificazione, gestita direttamente dallo stato. Il primo piano quinquennale è inaugurato nel 1928. Il paese diventa un enorme cantiere. In questa fase c’è la prima grande ondata di emigrazione politica verso l’occidente. Cominciano a prendere forma i modelli e i rituali della convivenza sociale sovietica, e Mosca s’impone come la grande capitale del socialismo.
15
Poi ebbe inizio una vivacissima bevuta di tè, durante la quale il nepman si trovò al centro dell’attenzione. Per qualche motivo io mi offesi (ma cosa sono questi nepmen) e decisi di avviare il discorso. E lo avviai in modo eccellente. “Che stipendio guadagnate?”, chiesi al possessore del tesoro. A questo punto, sotto il tavolo, dalle due parti, sentii dei colpi negli stinchi. […] Ma il riccone non si offese. Al contrario, la mia domanda lo lusingò, chissà perché. Fissò i suoi occhi nei miei per un attimo, e io, a mia volta, li guardai, quegli occhi, e vidi che assomigliavano a due biglietti da dieci. “M… m… ma, come dire… Sciocchezze. Due, tre miliardi”, rispose, inviandomi dal dito fasci di luce.
Michail Bulgakov, Appunti sui polsini, 1922
16
All’angolo della via Ribackaja […] si trova il ristorante Čvanov. In questo ristorante ogni notte vengono, insieme alle loro dame, marinai con strabilianti pantaloni, bottegai in giacca e camiciotto, e semplici sconosciuti. […] I bottegai ascoltano la musica in disparte, e con pazienza, a lungo , scelgono l’amica adatta per un breve incontro. I semplici sconosciuti siedono a due, a tre in un angoletto e parlano di come Vaska l’Asso si sia bruciato, e Solokov tradisca, e di come Sedyi abbia avuto la ventura di trovare un ottimo buco sull’isola Vasilevskij, e del fatto che gli sbirri stanno alle calcagna di Pan Walet Szaszkowski. Giù per la strada, passeggiano le signorine con i fazzoletti variopinti, annodati e calati fino agli occhi. […] Verso mezzanotte, quando si spengono le insegne dei cinema, il prospekt Karl Liebknecht sprofonda nell’oscurità, solo il ristorante brilla ancora, rumoreggia, è in fermento. […] Allora comincia il lavoro duro per i poliziotti.
Veniamin Kaverin, Fine di una banda, 1925
17
Quando, nel 1925, i confini si riaprirono e lui si ritrovò a Parigi, la Russia la chiamava “Sovietia”, i bolscevichi “compagni”, Lenin “agente tedesco”. Era convinto di essere scampato alla fucilazione per miracolo, andava raccontando che in quel paese le quattordicenni partorivano a spese dello stato figli di padre ignoto e i contadini mangiavano carne umana. Poi gli era passata, della Russia si era dimenticato. Era l’inizio di una vita nuova in un posto nuovo. E all’inizio nello scontro con quella vita, per poco non vi aveva lasciato la pelle. Vivevano nella banlieue, in una sola camera senza riscaldamento.
Nina Berberova, Alleviare la sorte, 1988
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Non ho patria né popolo, non sono / italiano, né russo, né tedesco, / in me la libertà è illimitata / e senza i limiti sono annientato. / Sono un granello di cosmica luce / per un attimo entrato in questa oscurità, / una folle staffetta del Creatore, / un granchio rannicchiato nel crepaccio.
Anatolij Gejntselman, Malinconia, 1957
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Con la nazionalizzazione dei beni immobili, il governo sovietico cominciò a risolvere il problema delle abitazioni in modo centralizzato. A partire da allora, le case né si compravano né si affittavano, ma erano aggiudicate dallo stato. I borghesi, ossia coloro che avevano una sala da pranzo, uno studio e altri spazi inutili, furono “compressi”; i metri quadrati in eccesso si ridistribuivano secondo le necessità e negli appartamenti, divenuti komunalka o case in coabitazione, la cucina e il bagno erano comuni e vi potevano convivere una contessa, un autista, un attore famoso e un alcolizzato con tre cani. […] Le liste d’attesa per ottenere uno di questi appartamenti duravano anni e le komunalka segnarono la vita di tutte le generazioni sovietiche. “È brava gente”, dice un personaggio di Bulgakov, “il problema è che la casa li ha rovinati”.
Tatiana Pigarëva, Mosca. Autobiografia di una città, 2001
20
“È stato sollevato il problema dell’assegnazione…”. “Basta! Ho capito! Certo saprete che in base alla disposizione del dodici agosto di quest’anno il mio appartamento è escluso da qualunque assegnazione e coabitazione…”. “Lo sappiamo”, rispose Švonder, “ma l’assemblea generale, dopo aver dibattuto la questione, è giunta alla conclusione che in fin dei conti voi occupate un’area eccessiva. Davvero eccessiva. Voi da solo vivete in sette stanze”. “Io da solo vivo e lavoro in sette stanze”, replico Filipp Filippovič, “e desidererei possederne un’ottava. Mi occorre una biblioteca”. Michail Bulgakov, Cuore di cane, 1925
21
“Il bolscevismo ha eliminato la vita privata”, scrisse Walter Benjamin dopo il suo melanconico viaggio a Mosca del 1927. L’opera di soppressione prese avvio dall’organizzazione abitativa. […] Naturalmente nelle maglie del rimodellamento bolscevico del byt (vita e abitudini quotidiane) finì anche il focolare domestico. Malgrado la sfida erculea di sfamare una nazione devastata dalla guerra civile, la cucina tradizionale venne bollata come ideologicamente reazionaria e assolutamente inutile. “Quando ogni famiglia mangia per conto proprio – ammoniva un testo intitolato Abbasso la cucina privata – un’alimentazione scientificamente sana diventa impossibile”.
Anya von Bremzen, L’arte della cucina sovietica, 2013
22
Durante la rivoluzione in tutta la Russia, giorno e notte, abbaiavano i cani, ora però erano ammutoliti: venne il lavoro e i lavoratori dormivano nel silenzio. All’esterno era la milizia a custodire il silenzio delle abitazioni operaie, affinché il sonno fosse profondo e ristoratore per la fatica mattutina. Gli unici che non dormivano erano i muratori del turno notturno e quell’invalido senza gambe che Voščev aveva incontrato al suo arrivo in città.
Andrej Platonov, Lo sterro, 1930
23
“Bisogna concedere a ogni lavoratore un piccolo dominio esclusivo sul lavoro: vi si gingillerà sempre e sarà contento per l’eternità”, Umriščev esponeva ad alta voce il suo piano. “Uno, mettiamo, pulisce gli spazi destinati al bestiame, un altro ripara i pozzi nella steppa, un altro ancora assaggia soltanto il latte, se si è inacidito o meno, ognuno svolge la sua mansione in modo pianificato e non ha più da impicciarsi di niente. Credo che una tale disposizione darà la possibilità a me e a tutto il personale dirigente di liberarsi dagli affari correnti, che finiranno così di essere correnti. È tempo, compagni, di costruire il socialismo non con la vanità, ma con il diligente impegno di milioni di uomini”.
Andrej Platonov, Il mare della giovinezza, 1934
24
Viviamo senza più fiutare sotto di noi il paese, / a dieci passi le nostre voci son già bell’e sperse, / e dovunque ci sia spazio per una conversazioncina / eccoli ad evocarti il montanaro del Cremlino. / Le sue tozze dita come vermi sono grasse / e sono esatte le sue parole come i pesi d’un ginnasta./Se la ridono i suoi occhiacci da blatta/e i suoi gambali scoccano neri lampi. / Ha intorno una marmaglia di gerarchi dal collo sottile: / i servigi di mezzi uomini lo mandano in visibilio.
Osip Mandelštam, Novembre, 1933
25
Il mattino colora di una luce soave / le mura dell’antico Cremlino. / Si sveglia all’alba / l’intera terra sovietica. / La frescura fugge dietro la porta, / Il rumore nelle vie si fa più forte. / Buongiorno, cara città, / Cuore della mia Patria. / Ardente, / potente, / invincibile / patria mia / Mosca mia / Tu sei la più amata! / Comincia a risplendere un giorno allegro, / Le vie rimbombano come il mare, / Dalle finestre aperte delle scuole, / si sentono le grida dei piccoli pionieri. / Maggio scorre lungo un fiume vestito a festa / lungo un’ampia strada lastricata, / si sentono canzoni immense / sulla bellissima Mosca.
Vladimir Lebedev–Kumač, Mosca di maggio, 1937
Carestie, collettivizzazione e Grande terrore. 1930-1938
L’affermazione del potere sovietico si accompagna a violente campagne di repressione degli elementi considerati controrivoluzionari e alla collettivizzazione forzata delle terre, con l’eliminazione della classe dei contadini proprietari di piccoli appezzamenti, i kulaki. In Ucraina la carestia causata dalle politiche sovietiche, chiamata holodomor, causa milioni di morti. Il terrore raggiunge l’apice nel biennio 1936-37, e colpisce scrittori, intellettuali, dirigenti del partito e cittadini comuni.
26
Il rivoluzionario Lenin ha creato l’organizzazione dei rivoluzionari di professione. L’apparatcik Stalin ha creato la nomenklatura. La creazione di Lenin è la leva che gli permette di rivoltare la Russia, e si guadagna presto un posto nel museo della rivoluzione. La creazione di Stalin è l’apparato che gli permette di guidare la Russia. E si rivela infinitamente più duratura.
Michael Voslensky, La nomenklatura, 1980
27
Uno degli scopi delle mie memorie è dissipare la leggenda che vuole che il periodo più crudele delle repressioni rosse sia stato il 1936-37. A mio avviso in futuro le statistiche dimostreranno che ondate di arresti, esecuzioni e deportazioni si abbatterono sull’Urss sin dall’inizio del 1918, ancor prima della proclamazione ufficiale del ‘terrore rosso’, nell’autunno di quell’anno; che la marea continuò a montare sino alla morte di Stalin, e che quella del 1936-37 fu solo l’ondata decumana, la cresta… […]. Non fu Stalin a dare inizio al ‘terrore rosso’. Assurto al potere, si limitò ad esasperarlo.
Dmitrij Lichačëv, La mia Russia, 1995
28
Quante parole sono proibite! A dire il vero, tutte le parole belle hanno perso i sensi. Sono vietati i fiori, la luna, gli occhi ed intere serie di parole che narrano ciò che fa piacere vedere. Scrivere, per esempio: “Stupendo è il Dnepr quando è bel tempo”. Non posso, l’ironia divora le parole. L’ironia è necessaria; è il mezzo per superare la difficoltà di rappresentare le cose.
Viktor Šklovskij, Zoo o lettere non d’amore, 1924
29
“Vede, io commercio in tutto ciò di cui nessuno ha bisogno”, cominciò Anfertev animatamente. “Cioè, non mi sono espresso proprio con esattezza, io commercio in ciò che adesso non ha valore, ma in futuro avrà enorme pregio. Io commercio in sogni, commercio in cartine di caramelle, canzoni di piazza, gergo della malavita, commercio in tutto ciò che non ha peso e sembra non avere nessun pregio nella vita di oggi”.
Konstantin Vaginov, Arpagoniana, 1933
30
Non mi farò illudere nemmeno dalla lingua / natia, dal suo latteo appello. / Per me è indifferente in quale lingua / non essere capita dal primo incontrato!
Marina Cvetaeva, Nostalgia della patria! Da tempo, 1934
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Ti hanno condotto via all’alba, / ti andavo dietro come ad esequie, / nella buia stanza piangevano i bimbi, / gocciava il cero sull’altarino. / Sulle tue labbra il freddo dell’icona. / Un sudore di morte lungo la fronte… Non si scorda! Come le mogli degli strelizzi, ululerò / sotto le torri del Cremlino!
Anna Achmatova, Requiem, 1935-1961
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In effetti da noi in Unione Sovietica si viene puniti anche senza aver fatto niente. Quando ero alla Lubjanka continuavano a tormentarmi perché citassi le persone con cui avevo avuto delle conversazioni controrivoluzionarie. Poiché continuavo a rifiutarmi, l’ufficiale istruttore mi ha detto: “Ma lo sappiamo benissimo che lei non fa parte di nessuna organizzazione e non svolge nessuna propaganda! Ma in caso di necessità i nostri nemici potrebbero orientarsi su di lei e non sappiamo come si comporterebbe se le proponessero di agire contro il potere sovietico…”. Ecco perché danno pene così lunghe, è una specie di profilassi. “Non possiamo comportarci come il governo zarista”, mi ha detto l’ufficiale, “che puniva per i crimini già commessi, noi dobbiamo prevenirli. Altrimenti cosa dovremmo fare, stare ad aspettare che qualcuno compia un delitto e solo allora punirlo? No, così non funziona, bisogna tagliare le radici perché la nostra causa sia più solida”.
Da una conversazione del 1935 tra Pavel Florenskij e un compagno di pena, tratta da Vitalij Šentalinskij, I manoscritti non bruciano, 1993
33
Nel 1916, quando ho scritto la mia prima opera, mi sono recato da Gorkij… Poi ho partecipato alla guerra civile. Nel 1921 ho ripreso a scrivere. Negli ultimi anni ho lavorato con accanimento a un’opera di cui ho terminato la prima redazione alla fine del 1938. Non sono colpevole di nulla, non sono mai stato una spia, non ho commesso azione alcuna contro l’Unione Sovietica. Nella mia deposizione mi sono calunniato. Chiedo una sola cosa – che mi sia data la possibilità di portare a termine il mio ultimo lavoro.
Dalla deposizione di Isaak Babel di fronte al tribunale che poco dopo l’avrebbe condannato a morte, gennaio 1940. Da Vitalij Šentalinskij, I manoscritti non bruciano, 1993
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“Si dice che Kirov fosse una brava persona, un eccellente oratore, il prediletto del partito. Chi può avere osato levare il braccio contro di lui?”. Vsevolod Sergeevič si sedette sulla panca e appoggiò la testa alla parete. “Chiunque sia stato, Saša, posso dirle con assoluta certezza una cosa: si preannunciano tempi oscuri”.
Anatolij Rybakov, I figli dell’Arbat, 1987
35
Direttamente o indirettamente tutta la sinistra appoggiò Stalin: Romain Rolland, André Malraux, Bernard Shaw, Jean Genet. Perfino André Gide – che pure in Ritorno dall’Urss aveva scritto: “Secondo me in nessun paese odierno, neppure nella Germania di Hitler, lo spirito è più soffocato, più intimorito, più servile che nell’Unione Sovietica” – tacque sul terrore “giudiziario”, sugli arresti di massa, sulla persecuzione degli innocenti. Anche altri uomini dalle stesse idee, e di grande statura e umanità, preferirono tacere, disperandosi nell’angoscioso tentativo di spiegare l’inesplicabile.
Arkadij Vaksberg, Viscinski. L’artefice del grande terrore, 1990
36
Sono uno statistico esperto, Varja, e le dirò questo: secondo me il censimento del 1937 non darà 170 milioni, secondo i miei calcoli al massimo si arriverà a 164. Le perdite dirette e indirette si aggirerebbero dunque intorno ai tredici milioni di persone come minimo, tra morti per fame, morti per la dekulakizzazione e perdite derivanti dalla diminuzione della natalità.
Anatolij Rybakov, Gli anni del grande terrore, 1988
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Come tutti quelli della mia generazione, credevo fermamente che il fine giustificasse i mezzi. Il nostro grande obiettivo era il trionfo universale del comunismo, e per raggiungere tale obiettivo era permesso tutto: mentire, rubare, distruggere centinaia di migliaia, e perfino milioni di persone, tutti quelli che ostacolavano o avrebbero potuto ostacolare il nostro lavoro, chiunque vi si frapponesse. […] Questo è il modo in cui io e tutti quelli come me ragionavamo, anche quando […] vidi cosa significasse la “collettivizzazione totale”, come si “kulakizzasse” e “dekulakizzasse”, come si spogliassero i contadini senza pietà nell’inverno 1932-33. Io stesso presi parte a tutto ciò. […] Nella terribile primavera del 1933 vidi la gente morire di fame. Vidi donne e bambini con il ventre gonfio, che diventava blu; respiravano ancora, ma i loro occhi erano spenti, privi di vita. […] Vidi tutto questo e non uscii di senno, né mi suicidai. Né maledii quelli che mi avevano mandato lì a portare via il grano ai contadini d’inverno, e in primavera a persuadere quella gente che a stento si reggeva in piedi, ridotta pelle e ossa o con le membra gonfie, ad andare nei campi per “realizzare il piano bolscevico per la semina con metodi da lavoratore d’assalto”. E non persi la mia fede. Come prima, io credevo perché volevo credere.
Lev Kopelev, The education of a true believer, 1976
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I primi a morire di fame furono gli uomini. Poi i bambini. E per ultimo, le donne. Ma prima di morire, spesso perdevano la ragione e cessavano di essere degli esseri umani.
Ivan Stadnjuk, Liudi ne angeli, 1945
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Lo spettacolo più terribile erano i bambini con le membra scheletriche che ciondolavano su addomi gonfi come palloni. La fame aveva cancellato dai loro volti ogni traccia di gioventù, riducendoli a penosi gargouille; solo negli occhi permaneva ancora qualcosa di fanciullesco. Ovunque trovavamo uomini che giacevano proni con le facce e le pance gonfie, gli occhi privi di qualsiasi espressione.
Victor Kravčenko, Ho scelto la libertà, 1948
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Adesso, quando ricordo l’abolizione dei kulaki, vedo tutto in modo diverso, l’incantamento è passato. Vedo in loro degli uomini. Perché mi ero tanto indurito? Come soffriva la gente, quante gliene facevano! E io a dire: non sono uomini, questi, è solo kulakaglia. E poi rivango, rivango e penso: chi ha inventato quella parola: kulakaglia? Che sia stato Lenin? Quale tormento si è addossato! Per ucciderli, si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini.
Vasilij Grossman, Tutto scorre…, 1970
La Grande guerra patriottica e l’ultima fase dello stalinismo. 1939-1953
Nel 1939 la Russia e la Germania nazista firmano il patto di non aggressione che porta il nome dei ministri degli esteri dei due paesi, Viačeslav Molotov e Joachim von Ribbentrop. Due anni dopo la Germania invade la Russia: comincia così quella che per i russi è la Grande guerra patriottica. Nel secondo conflitto mondiale il paese conta più di venti milioni di morti. Solo nell’assedio di Leningrado del 1942 muoiono due milioni di persone. Con la fine della guerra si aprono gli anni dello stalinismo maturo. Si consolida il potere di Mosca sull’Europa orientale e il sistema dei campi di lavoro, il cosiddetto arcipelago gulag, funziona a pieno regime. Stalin muore nel 1953, poco dopo viene varata un’amnistia per i detenuti comuni dei lager.
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A Włodzimierz Woliński la vita cambiò radicalmente. Non c’era più la tranquillità della piccola città di provincia, dove ci si conosceva tutti e da sempre. La propaganda e l’indottrinamento da parte dei sovietici, le riunioni politiche obbligatorie, il controllo della radio e della stampa e l’abolizione delle attività religiose trasformarono la città. I primi segni del vero stile di vita sovietico furono la scarsità di cibo e le lunghe file davanti a panetterie, macellai, negozi di alimentari: scene che non si erano mai viste prima in Polonia. Assorbii l’indottrinamento e divorai la propaganda. […] Credevo che Stalin fosse il più grande progressista leader dell’umanità e che la giustizia sociale, da me vagheggiata per tanto tempo, sarebbe stata conquistata dalla nuova società. Nessuno sapeva che l’Unione Sovietica si era alleata con la Germania nazista e che la Polonia era stata spartita in segreto fra i due paesi, in base al patto Ribbentrop-Molotov.
Janusz Bardach e Kathleen Gleeson, L’uomo del gulag, 1998
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Salgo su un mucchio di terra argillosa – è soffice, scivola via: guardo giù in silenzio. I ragazzi, con i cinturoni buttati di traverso sulle spalle, scavano con la sola giubba addosso. Non parlano, si sentono solo i tonfi e il raspare delle pale; i soldati respirano a scatti, sono stanchi. Dalla fossa vola fuori la terra umida, spargendosi ogni tanto sui miei stivali. Non mi scosto: in maniera indefinibile sento di essere legato a questa fossa. Forse perché tra quelli che presto giaceranno qui con mille probabilità avrei potuto esserci anche io. Il destino, o il caso, hanno voluto disporre altrimenti, oppure una parte di me resterà per sempre qui, con Grinjuk, Dudčenko, Usolčev, Babkin. E con il maggiore Voronin.
Vasil Bykov, La notte porta consiglio, 1965
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Feci altre domande a Cholin sul conto del ragazzo e venni a sapere che il piccolo Bondarev era di Gomel, ma che prima delle guerra viveva con i suoi genitori in una località di frontiera sulle rive del Baltico. Suo padre, che apparteneva alle truppe di pattuglia sul confine, era stato ucciso il primo giorno di guerra. La sua sorellina, che aveva un anno e mezzo, era morta tra le sue braccia durante la ritirata. “Non puoi nemmeno immaginare quanto ha sofferto”, mi stava dicendo Cholin in un sussurro. “Ha passato qualche tempo con i partigiani ed è anche finito nel campo della morte di Trostjanec… Adesso ha una sola idea fissa: compiere fino in fondo la sua vendetta! Quando racconta storie del campo di concentramento, o ricorda suo padre e sua sorella, è dilaniato dall’ira e dalla rabbia. Non avrei mai creduto che un bambino così piccolo potesse odiare con tanta intensità”.
Vladimir Bogomolov, L’infanzia di Ivan, 1958
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Ecco, una donna il marito porta via: / sul volto una grigia mascherina, / una gavetta in mano, la zuppa per la cena… / fischiano i colpi, s’accanisce il gelo, / compagni, siamo nell’anello di fuoco! / E una ragazza dal volto coperto di brina / la bocca livida caparbiamente serra / e un corpo avvolto in una coperta / trascina al cimitero di Ochta. / E tira vacillando, per giungere entro sera… / scrutano l’ombra gli occhi indifferenti. / Giù il berretto, cittadino. / Portano un leningradese / caduto al suo posto di battaglia. / […] / No, non piangiamo noi. Non giova il pianto / al cuore. L’odio non lascia che piangiamo. / Pegno di vita per noi s’è fatto l’odio: / ci stringe insieme, ci scalda e ci conduce. / “Non perdonare, non avere misericordia, / vendetta, vendetta, vendetta cerca come puoi”, / a ciò mi esorta la fossa comune / al cimitero di Ochta, sulla riva destra.
Olga Fëdorovna Berggolc, Diario di febbraio, 1942
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Il 21 marzo 1944 l’Armata rossa liberò il borgo di Gory e la fossa vicino alla zona industriale fu portata alla luce. Che atroce spettacolo! Una madre che stringeva il suo bambino; un neonato con le braccia al collo di una vecchia, probabilmente la nonna; centinaia di cadaveri. L’unità dell’Armata rossa fu radunata davanti alla fossa. L’ufficiale Koniščev esclamò: “Fissatevi bene nella memoria questa tomba, compagni! Giurate vendetta ai soldati tedeschi in nome del sangue innocente di questi sovietici”. Il soldato Troickij disse: “Quando andrò in battaglia avrò sempre questa tomba davanti agli occhi”. La marcia funebre suggellò il giuramento.
Vasilij Grossman e Ilja Ehrenburg, Il libro nero, 1945
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Prima della guerra, come in segno di sciagura, / perché non sembrasse più facile nella sua novità, / da geli di inaudita rigidezza / furono arsi e distrutti i giardini. / […] / Sotto la loro corteccia sbucciata come una trave / si vedeva una livida colatura brunastra. / Dappertutto una sorte malefica / aveva colpito i migliori alberi, gli eletti. / Passarono gli anni. Gli alberi stecchiti / sono rinati con forza inattesa, / mettendo vivi rami, verdi foglie… / È finita la guerra. Ma tu piangi, madre.
Aleksandr Tvardovskij, Prima della guerra, 1945
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All’inizio della Nuova politica economica, Frenkel si era costruito una fabbrica di motori a Odessa. A metà degli anni venti lo arrestarono e lo deportarono sulle isole Solovki. Dal lager Frenkel spedì a Stalin un progetto geniale: geniale, il vecchio čekista usò proprio questa parola. Nel progetto esponeva meticolosamente, con competenza economica e tecnica, come impiegare masse enormi di detenuti per costruire strade, dighe, centrali idroelettriche e bacini artificiali. E il detenuto Frenkel venne promosso su due piedi tenente generale dell’Mgb: il padrone aveva apprezzato la sua idea. Fu così che il XX secolo fece sua la semplicità dei lavori e delle brigate dei detenuti, di un lavoro fatto di vanghe, piccozze, accette e seghe. […] I lager progettavano, pianificavano, tracciavano grafici, creavano miniere, fabbriche, nuovi mari e gigantesche centrali elettriche. Si sviluppavano impetuosamente e al confronto le vecchie colonie penali sembravano ridicole, commoventi quanto le costruzioni di legno.
Vasilij Grossman, Vita e destino, 1980
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Alla prigione di Lefortovo tutte le porte si aprono senza rumore. I passi si smorzano sulle morbide passatoie. Gli uomini della scorta sono di una gentilezza inusitata. Nelle celle ci sono sgabelli su cui sedere e le mattonelle delle pareti sono così bianche e luminose che ricordano quelle di una sala operatoria. La cella d’isolamento in cui mi hanno condotto la mattina di quel primo agosto è pulita come una stanza d’ospedale e la secondina assomiglia alla cameriera di un grande albergo. Qui attenderò il processo. Ricordo le parole di Garej: “Maggiore è la gentilezza e la pulizia, tanto più vicina è la morte”.
Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, 1982
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“Qual è il più alto edificio di San Pietroburgo?”. “La cattedrale di sant’Isacco”. “No. È la Špalerka (l’ex prigione dalla polizia segreta). Perché dall’ultimo piano potevi vedere tutta la strada fino alla Kolyma”.
Barzelletta diffusa in Russia negli anni novanta
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Qui, sotto il cielo familiare della Kolyma, a noi caro, / si sente tintinnar i ferri, scricchiolare le porte della galera. / La gente s’addormenta in piedi, si congela strada facendo. / Chi rimane assiderato, è felice: finisce così una vita orrenda. / Fra poco finiremo la pena e saremo scarcerati. / Vivremo rubando e di nuovo verremo arrestati. / E ancora la stessa solfa e la stessa masnada. / Dunque per un ragazzo non c’è altra strada.
Canzone di autore anonimo, anni trenta
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E qualcuno aveva sparato ai tre fuggitivi i cui cadaveri congelati – era inverno – rimasero per tre giorni interi accanto alla torretta di guardia cosicché i detenuti del lager si convincessero che scappare era impossibile. E qualcuno aveva pur dato l’ordine di esporre quei cadaveri a scopo didattico. In quello stesso nord che avevo girato in largo e in lungo, i detenuti venivano lasciati “alle zanzare”, nudi su un ceppo, per essersi rifiutati di lavorare o per non aver lavorato fino a completare la norma richiesta.
Varlam Šalamov, I racconti di Kolyma, 1962
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La vita in un campo di prigionia può essere tollerata solo quando ogni criterio, ogni termine di paragone che si riferisca alla libertà, è stato completamente cancellato dallo spirito e dalla memoria del prigioniero. Ogni nuovo arrivo al campo era accolto dai prigionieri più anziani con la tradizionale frase di incoraggiamento: “Non è niente, ti abituerai”. “Abituarsi” significava per il prigioniero dimenticare tutta la sua personalità di prima, le persone amate, le simpatie, le antipatie, gli affetti. Da questo punto di vista non esiste il perfetto prigioniero, ma vi sono uomini che, dopo molti anni passati dietro al filo spinato, sono capaci di controllare i ricordi di gran lunga meglio dei loro istinti primitivi: una spietata disciplina di oblio li divide con una barriera invalicabile dal loro passato. Molti prigionieri sono tuttavia incapaci di imporsi questa regola mentale, e cercano nella memoria la consolazione dall’orribile presente.
Gustaw Herling, Un mondo a parte, 1951
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14 gennaio. Il vuoto. Ha forza questo vuoto, lo si scambia per vita. È vero che il lavoro non manca. Trasferimenti, rincalzi, il Terzo Ufficio, l’istruzione, i delegati. Pian piano ripieghiamo verso est. I soldi fanno tutto. Sono i soldi che hanno attirato qui le guardie armate libere. Vivranno qui e capiranno. Disordine dappertutto. Non c’è legna, la gente non va a lavorare, i responsabili dei magazzini vendono il cibo e comprano alcol. L’amministrazione del lager è furiosa contro di noi, i lavoratori pure. Ecco, sono questi i membri di una società senza classi.
Ivan Čistjakov, Diario di un guardiano del gulag, 2008
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Le nubi corrono, le nubi,/senza fretta vanno, come al cinema,/E io mangio un pollastro al mattone,/mezzo chilo di cognac ho ordinato./Le nuvole vanno verso Abakan./Senza fretta vanno le nuvole,/loro hanno caldo: le nubi,/e io sono tutto gelato per secoli./Come un ferro di cavallo sono incastrato/nel solco della slitta che frugavo col piccone!/Non per niente durante vent’anni/ho suonato la sveglia in quei lager./Ancor oggi ho negli occhi la crosta di neve,/ancor oggi ho in testa l’urlo della perquisizione./Ehi, adesso portatemi dell’ananas/e ancora duecento grammi di cognac!/Le nubi corrono, le nubi,/versi luoghi diletti vanno, sul Kolyma,/e a loro non gli serve un avvocato,/dell’amnistia non se ne fanno nulla.
Aleksandr Galič, Le nubi, 1962
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Un russo è abituato a vedere la sua esistenza come una prova voluta dalla Provvidenza. Il compito fondamentale della cultura russa e del pensiero filosofico russo si riduce a una sola, semplice questione: giustificare la propria esistenza. Preferibilmente a livello metafisico, trascendentale. Questo significa che in tutto quello che ti succede scorgi un intervento divino. Quando ti mettono dietro le sbarre, consideri i funzionari del Kgb come uno strumento ottuso sì, ma pur sempre della Provvidenza. Perché l’autorità è un attrezzo poco fine, stupido, ma pur sempre uno strumento della provvidenza.
Iosif Brodskij, Conversazioni, 2002
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Semjon fa una vita tranquilla. Lavora in fabbrica. Va alla fontana a prendere l’acqua per loro due e per quelli di sopra. Procura la legna per sé e per quelli di sopra, ma accende la stufa solo a casa sua e di Eva. Alla sera legge a Eva le cose importanti che trova scritte sui fogli del calendario. Da due di essi già staccati, due giorni fuggiti dalla sua esistenza, ritaglia con una forbicina i ritratti di Vladimir Ilič Lenin e di Iosif Vissarionovič Stalin, poi prende due piattini, vi appoggia i ritratti col viso rivolto verso il fondo e vi versa sopra del gesso, portato appositamente dalla fabbrica. Nel gesso sistema due piccoli cappi intrecciati con filo numero quaranta. Quando il gesso si solidifica, Semjon rivolta i piattini e stacca il fondo, dopo averlo prima picchiettato bene. Si ottiene una cosa molto bella, i due capi guardano amorevolmente dai due tondini in rilievo e il cappio per appenderli è già pronto.
Asar Eppel, Via d’erba, 1994
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Anch’io, come molti bambini sovietici, tormentavo me stesso e i genitori con una domanda: “Mamma, chi è più buono, Lenin o Stalin?”. “Tutti e due”, rispondeva irritata mia madre. […] “Ma no, chi è più buono?”, mi ostinavo io. Meno di tutti la domanda piaceva a mio padre. Era un “vecchio bolscevico” e gli sarebbe toccata la sorte di tutti i vecchi bolscevichi se già negli anni venti non avesse – per usare un’espressione del gergo di partito – “planato” sulla scienza, diventando professore di metallurgia. Così si era salvato. “Ma che succede se muore Stalin?”, provai a chiedergli un giorno. “Non muore, per ora, sta’ tranquillo”, rispose mio padre, a denti stretti. Una volta a tavola gli dissi con aria seria: “Però mi sembra che tu a Stalin non gli vuoi bene”. “Chiudi quella bocca!”, gridò mia madre, guardandomi come avrebbe guardato un serpente. “Lascialo fare”, disse mio padre, “ha solo nove anni”. “Appunto! Quanti credi ne avesse Pavlik Morozov quando denunciò i genitori?”.
Viktor Zaslavsky, Il dottor Petrov parapsicologo, 1984
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Due persone videro Stalin nudo sul letto di morte. Il medico che fu presente al decesso di Stalin così scrive: “Stalin era sdraiato, non alto, corpulento, il viso era storto, gli arti di destra pendevano inerti. Ansimava, ora più, ora meno forte…”. Ed ecco ciò che riferisce la figlia Svetlana Allilueva che alcuni minuti dopo il decesso aveva capito che cosa significhi la morte di un genitore, che cosa significhi essere “carne della sua carne”: “Portarono la barella e vi deposero il corpo. Per la prima volta vidi mio padre nudo: un bel corpo, non ancora cadente, non ancora vecchio”. Boris Semenovič Ilizarov, Vita segreta di Stalin, 2002
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La letteratura russa non è mai venuta a capo di Stalin. Ha trasformato il generalissimo in un carnefice, il carnefice in un generalissimo. Ha girato e rigirato l’immagine senza alcun senso. Non si è accorta che la venuta di Stalin tra il popolo russo era affine alla venuta di Gesù di Giuseppe. […] La letteratura russa non si è accorta che era il Dio russo che per trent’anni si è finto un georgiano. Stalin è una maschera.
Viktor Erofeev, Il buon Stalin, 2004
Gli anni del disgelo e della speranza. 1954-1964
Nel 1956, al XX congresso del Pcus, il nuovo segretario del partito, Nikita Chruščëv, denuncia i crimini e gli errori dello stalinismo. Si apre un periodo di speranze e timide riforme. È il cosiddetto disgelo: in campo artistico c’è più spazio per la critica e per forme di espressione non legate al realismo, che raccontano in modo diretto anche aspetti poco edificanti della vita sotto il socialismo. Nella società ci sono i segnali di una certa democratizzazione e il controllo della polizia politica si attenua. I giovani si affermano come protagonisti della vita collettiva e cresce il dissenso verso il regime. Mosca sostiene i movimenti di decolonizzazione in Asia e Africa.
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L’importanza della biografia politica di Chruščëv non dipende soltanto dal semplice fatto che per oltre dieci anni egli fu a capo del Partito comunista dell’Unione Sovietica e di fatto, quindi, diresse anche formalmente il governo dell’Urss, che egli concentrò nelle sue mani un potere quasi illimitato in una delle superpotenze, e che perciò gli avvenne di prendere decisioni che influivano direttamente o indirettamente sui destini dell’intera umanità. La personalità e la vita di Chruščëv meritano di essere descritte e analizzate anche perché egli fu un politico e un uomo di stato davvero straordinario, le cui impetuose iniziative lasciarono una traccia ben definita nella storia dell’Unione Sovietica e di tutto il movimento comunista.
Roy Medvedev, Nikita Chruščëv. Ascesa e caduta, 1982
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Il veterano bevve un sorso d’acqua e si alzò in piedi: “Sì, compagni! Ecco la nuova generazione che cresce, per così dire… Per loro noi, per così dire, siamo andati al fronte, pronti a sacrificare la nostra vita. Per fare in modo che a loro, per così dire, non mancasse il pane sulla tavola… E invece si scopre che loro tolgono il pane di bocca al popolo lavoratore…”.
Ilja Mitrofanov, La fortuna degli zingari, 1991
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Fuori dalla finestra stava diventando azzurro. Seduti allo stretto tavolino da cucina, davanti a una bottiglia già cominciata, c’erano due ex soldati. “Saresti capacei di immaginarti i ragazzi di oggi nelle trincee piene di neve, sull’Enisej?”. “Oppure dove stavamo noi, sotto Leningrado, dove ci pappavamo le gemme gelate di betulla?”. “Hai visto, che razza di vestiti avevano, oggi, e che cravatte?”. “E tieni presente: ognuno col suo orologio. Io il primo orologio me lo sono comprato dopo aver lavorato per due anni come insegnante”. “Eppure, vivono in un’epoca felice”. “Non stupisce, come ha detto questa Nina Semënovna, che siano tutti buoni di natura. Per forza, devono essere più buoni di noi”. “Beh, questa ipotesi dev’essere ancora verificata… Il bicchiere della staffa, Innokentij?”. “Beviamo a che non si gelino mai nelle trincee”.
Vladimir Tendrjakov, La notte dopo l’esame di maturità, 1974
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Il Cavallo azzurro di Charkov aveva goduto a suo tempo di grande popolarità in tutto il paese. Era successo tutto un paio d’anni fa, in seguito a un articolo apparso sulla Komsomolskaja Pravda, che aveva fatto degli stiliagi di Kharkov delle autentiche celebrità. Su quel giornale c’era scritto che i ragazzi del Cavallo azzurro si vestivano in maniera eccentrica, ascoltavano la musica occidentale e organizzavano orge. Un giorno, Eddy Baby aveva chiesto a Kadik delle orge, e lui, senza tanti giri di parole, gli aveva risposto che era vero, “i ragazzi trincavano, ascoltavano il jazz e trombavano le tipe”. Ma che questi erano piaceri che la tribù dei caproni non poteva arrivare a concepire, perché l’unica preoccupazione della tribù dei caproni è quella di passare la vita nel modo più noioso possibile e impedire a tutti gli altri di divertirsi.
Eduard Limonov, Eddy Baby ti amo, 1983
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Non aspettare, madre, un figlio retto, / tuo figlio non è più gagliardo. / Mi sono impantanato in una palude maledetta, / e la mia vita è perenne azzardo. / Se mi metteranno dietro la sbarra, / io romperò la grata della prigione, / E anche se la luna fa la luce bizzarra, / io scapperò per santa ragione! / E se se ne accorgerà il sorvegliante, / allora sono finito per davvero. / Allarme, uno sparo e io cadrò all’istante / sotto il muro della galera.
Canzone di malavita attribuita a Nikolaj Ivanovskij, anni cinquanta
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E io prego il governo / prego di raddoppiare, triplicare / la guardia a questa tomba, / perché Stalin non s’alzi e insieme a Stalin / non s’alzi anche il passato, / non il passato valoroso e intatto / dov’è Turksib, Magnitka, / il vessillo a Berlino, ma il passato / dov’è il popolo affranto, / dov’è calunnia e innocente arrestato, / abbiamo seminato / e i metalli saldato onestamente / e stretti in lunghe file, / abbia o onestamente marciato. / Ed egli ci temeva, / credendo in un gran fine non credeva / alla necessità / che i mezzi siano degli di tal fine / […] / Mi ordina il Partito: ‘Non star calmo!’ / Ed altri: “Basta, calma!” / Star calmo non so; finché esisterà / un erede di Stalin, / a me sembrerà che nel Mausoleo / ancora Stalin sia.
Evgenij Evtušenko, Gli eredi di Stalin, 1962
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Nacque quella straordinaria comunità, in seguito chiamata “movimento”, nella quale non vi erano né guide né guidati, non si distribuivano ruoli, non esisteva arruolamento né propaganda. Ma nonostante l’assenza completa di forme organizzative, l’attività di questa comunità era straordinariamente ben coordinata. […] Noi non giocavamo alla politica, non compilavamo programma di “liberazione del popolo”. […] Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: “Io ho fatto tutto quello che ho potuto. Sono stato cittadino, ho cercato la legalità e mai sono andato contro la mia coscienza”.
Vladimir Bukovskij, Il vento va, e poi ritorna, 1978
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[A Mosca] inatteso, vi si era riversato un fiume di gente proveniente da ogni dove. Tra l’altro, notate bene, gente diversissima. Gente con un diverso colore di pelle, di occhi e di capelli. Gente mai vista dalle nostre parti fino ad allora. Nella zona, segnata e devastata dai fatti descritti, la differenza di pressione prese a risucchiare, ad attrarre con incontenibile forza persone dai vari continenti: Asia, Africa, America, tranne forse l’Artico e l’Antartico. Tutte persone risolute, allegre, giovani. Cantavano, volteggiavano, saltellavano, si divertivano. Era il Festival moscovita della gioventù e degli studenti per la pace e l’amicizia, universalmente noto. […] Capitava gente arrivata a bordo di camion cantando, fischiettando, strepitando e agitando bandierine cartelli multicolori. Gridavano: “Pace! Amicizia! Freundschaft! Peace! Viva l’anticolonialismo! Viva l’anticapitalismo! Oppure: Abbasso l’imperialismo! Abbasso il razzismo! Abbasso l’asservimento dei popoli amanti della libertà! Hurrà-aaa! Abbasso i regimi antidemocratici di Asia, Africa, America, America Latina, dell’Europa, dell’Australia e dei paesi dell’Oceania.
Dmitrij A. Prigov, Eccovi Mosca, 2000
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“Non voglio!”, urla disperato Dimka. “Al diavolo! Credi che abbia intenzione di seguire il tuo esempio? Credi che la tua vita sia il mio ideale? La tua vita, Viktor, l’hanno inventata mamma e papà quando eri ancora in fasce. Primo della classe a scuola, ottimo studente all’università, dottorato di ricerca, assistente, ricercatore, associato, ordinario, accademico… e poi? Un morto rispettato da tutti? Nella vita non hai preso una decisione davvero seria nemmeno una volta, non hai mai rischiato niente. Al diavolo! Non facciamo in tempo a nascere che hanno già deciso tutto per noi, stabilito il nostro futuro. Col cavolo! Meglio essere un vagabondo e un fallito, piuttosto che rimanere tutta la vita un bambino che lascia decidere gli altri al posto suo”.
Vasilij Aksënov, Il biglietto stellato, 1962
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L’appartamento in coabitazione era incomprensibile per gli stranieri, al pari del permesso di residenza. Gli stranieri potevano rifiutarsi decisamente di credere all’esistenza di uno e dell’altro, o al contrario li demonizzavano entrambi. All’inizio degli anni settanta un americano mi ha chiesto se è vero che mettono operai e intellettuali a vivere in modo che gli uni acculturino gli altri e i secondi educhino i primi allo spirito del collettivismo. Ha anche voluto sapere se era vero che chi ha il permesso di risiedere a Leningrado non può andare a Mosca senza il nulla osta della polizia.
Lev Rubinštein, Saggi di coabitazione, 2000
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Quando non ho più la forza di vincere la sventura,/quando arriva la disperazione, / allora monto in corsa su un filobus blu, / l’ultimo, casuale. / Ultimo filobus, corri per le strade, / fai il giro della circonvallazione, / per raccogliere tutti quelli che di notte / fanno naufragio, naufragio! / Filobus di mezzanotte, aprimi la porta! / Io so che nelle notti di gelo / i tuoi passeggeri – tuoi marinai – / in soccorso. / […] / L’ultimo filobus naviga per Mosca, / l’asfalto come un fiume si getta nell’alba, / e il dolore che mi batteva alle tempie, / si cheta, si cheta.
Bulat Okudžava, L’ultimo filobus
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Trema il lacchè. Lo schiavo ride. / Il carnefice affila la scure. / Il tiranno divora capponi. / E la luna d’inverno è sul balcone. / Serie: La Nostra Patria, una stampa. / La Femmina e Soldato sulla branda. / La vecchina il morto fianco gratta. / Un lubòk. Serie: La Nostra Patria.
Iosif Brodskij, Abbozzo, 1972
Socialismo reale e stagnazione. 1964-1982
Nel 1966 Leonid Brežnev diventa segretario generale del Pcus. I propositi di riforma e rinnovamento vengono rinnegati e tornano le politiche repressive. Trionfa la burocrazia e l’economia entra nella fase della stagnazione. Sono anni di disillusione e di speranze tradite. Si diffonde il samizdat, la letteratura ‘non conforme’, fotocopiata in proprio o ricopiata a mano e diffusa attraverso canali non ufficiali. Diversi scrittori ricorrono alla satira e a racconti distopici per descrivere lo stato del regime. Nel 1979 c’è l’invasione militare dell’Afghanistan, che si concluderà ufficialmente solo dieci anni dopo. Brežnev muore nel 1982.
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Noi abbiamo capito una cosa di fondamentale importanza. I leader sovietici non sono degli extraterrestri, degli esotici marziani. Il potere sovietico non è il gioco mongolo-cataro. Il potere sovietico vive in ognuno di noi. Nelle nostre abitudini e nelle nostre inclinazioni. Nelle nostre passioni e nelle nostre antipatie. Nella nostra coscienza e nella nostra mente. Il potere sovietico siamo noi.
Sergej Dovlatov, Il giornale invisibile, 1985
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Dal punto di vista psicologico, la vita del lager assomiglia a una vettura ferroviaria delle grandi linee. La funzione del treno viene assunta dal trascorrere del tempo, il cui moto è sufficiente a creare l’illusione del senso e della pienezza di un’esistenza vana. Di qualsiasi cosa uno si occupi, “la condanna fa comunque il suo corso” e, dunque, le giornate che passano servono a qualcosa, hanno una loro finalità, in un certo senso lavorano per te e per il futuro: basta questo per dar loro un contenuto. Come in treno, i passeggeri non sono molto propensi a occupare il tempo facendo un lavoro utile, perché la loro presenza è già di per sé giustificata dall’avvicinarsi lento ma inevitabile alla stazione d’arrivo.
Abram Terz/Andrej Sinjavskij, Una voce dal coro, 1973
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Come asseriscono tutti i nostri scienziati – e molti scienziati stranieri riconoscono – gli abitanti di Ibania sovrastano gli altri di tutta la testa (eccezion fatta per coloro che hanno seguito il loro esempio). Li sovrastano non per una loro natura biologica reazionaria (sotto questo punto di vista sono uguali agli altri), ma grazie a condizioni storiche progressiste, a una teoria giusta, sperimentata sulla loro stessa pelle, e a una saggia direzione, assai esperta in queste faccende. Perciò gli abitanti di Ibania non vivono – nel sorpassato, volgare senso della parola, secondo cui gli altri, laggiù, trascorrono i propri giorni – ma mettono in atto delle misure storiche. Essi le realizzano persino quando non lo sanno, e quando non vi prendono parte. O addirittura quando non vi sono in genere misure da realizzare.
Aleksandr Zinovev, Cime abissali, 1976
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Il Vak si trova a Mosca, in via Ždanov, in una casupola squallida e diroccata, vicino alla facoltà di Architettura. Scopo del Vak è quello di approvare le tesi di dottorato già discusse. […] Il Vak è imparziale, incorruttibile, giusto. Ogni giorno arrivano al Vak da ogni parte del paese 200-250 tesi di dottorato che le stanche segretarie trasportano nelle carriole, lungo corridoi bui come grossi mattoni multicolori. […] Nella migliore e più facile delle ipotesi, una tesi di dottorato, dopo essere rimasta per sei mesi su scaffali polverosi, viene approvata dai membri del Vak. Ma se ciò non dovesse accadere… (fa paura il solo pensarci!) viene data a recensire al Correlatore nero. ‘Il Correlatore nero’: è il titolo adatto per un film dell’orrore. Io lo immagino lungo, tentacolare e sinuoso come un’alga, in un saio del Ku-Klux-Klan; solo gli occhi brillano di un luccichio sinistro attraverso le fessure del cappuccio. Dimenandosi e mormorando esorcismi, sfoglia la tesi con i suoi pelosi tentacoli di ragno, la immerge in un lago gorgogliante di acido solforico e guarda estasiato come le pagine ingialliscono e si piegano, poi la getta nel fuoco verde della malignità, le strappa in mille pezzi e le sparge al vento ridendo e ballando sulla nuda roccia appuntita.
Ljudmila Shtern, I dodici collegi, 1984
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Per strada, Kommunij Ivanovic mi illustrò che la realizzazione del vero comunismo è stata resa possibile nella pratica come esito della Grande rivoluzione comunista di agosto, pianificata e messa in atto sotto la direzione personale e la partecipazione del Genialissimus. “Spero abbiate compreso”, mi disse, “che il Genialissimus è il nostro amato, caro e unico duce”. “Sì, sì”, dissi, “immagino. Solo, non capisco bene cosa indica il termine Genialissimus. Indica il nome, il cognome, il grado o la funzione?”. “È tutto questo insieme”, disse Turbinev. “Vede, noi comuniani, noi tutti, avevamo nomi che ci sono stati dati alla nascita, poi li abbiamo cambiati in quelli che abbiamo ricevuto alla stellesimo, vale a dire nomi stellari. Questi nomi riflettono la direzione dell’attività fondamentale della persona. Il nome Genialissimus si è formato in maniera del tutto naturale. Il fatto è che Genialissimus è allo stesso tempo segretario generale del nostro partito, ha il grado militare di Genialissimus e si distingue da tutte le altre persone per la sua genialità poliedrica”. Vladimir Vojnovič, Mosca 2042, 1986
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Avevo un’amica, Marina, ottima dattilografa, una fifona di prima linea. I suoi genitori erano stati deportati nel ‘49 ed erano morti nel lager, e perciò lei riteneva suo dovere fare qualcosa per il movimento democratico. Ma quando le portavano del samizdat da ricopiare, lei diceva sempre: “Per carità, non ditemi da dove arriva e per chi è! Sono così debole che avrei paura di non reggere agli interrogatori. E non fatemi nessun nome! Quelli che conosco non li tradirò perché li amo, ma se cominciassero a farmi domande su sconosciuti e mi minacciassero, so che non reggerei”.
Julija Voznesenskaja, Il Decameron delle donne, 1987
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Sì. Bevete di più e mangiate di meno. È la miglior ricetta contro la presunzione e l’ateismo superficiale. Guardate un po’ un ateo che singhiozza: è avvilito e cupo in volto, soffre ed è ripugnante. Voltategli le spalle, sputate per terra e guardate me quando comincerò a singhiozzare. Ho fede nella predestinazione, cui non penso in alcun modo di oppormi, credo che Lui sia buono,e anch’io di conseguenza sono buono e radioso. È buono. E mi conduce dalla sofferenza alla luce. Da Mosca a Petuški. Attraverso le sofferenze della stazione di Kursk, attraverso la purificazione a Kučino, attraverso i sogni a Kupavna, fino alla luce di Petuški. Durch Leiden Licht! [Attraverso le sofferenze, la luce]
Venedikt Erofeev, Da Mosca a Petuški, 1970
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Ehi, autista, portami alla masseria Butyrka, dove sta la prigione, / e corri un po’ più forte. / Sei in ritardo compagno, di due anni ti sbagli, / hanno buttato giù la prigione per farne mattoni! / Peccato, perché stamattina di buon’ora / avevo deciso di visitare i luoghi ben noti. / E va bene! Se così è, autista, / portami invece fino alla Taganka. / Ci sono già stato e le darò un’occhiata! / È demolita la vecchia Taganka, / da cima a fondo. È saltata per aria! / Allora svolta, autista, gira il tuo volante, / ce ne torneremo a casa a mani vuote. / Ma no, aspetta, prima fumiamo / o piuttosto beviamo subito un goccetto. / Beviamo perché in Russia non ci siano più galere, / perché in Russia non ci siano più campi di lavoro!
Vladimir Vysotskij, Ehi, autista
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Una sera ci fu una festicciola da Sonja. C’erano ragazze bene, giovanotti di vario calibro accorsi, come si usava allora, a bere e mangiare dal professore, non si sa da dove. […] C’erano dei musicisti, un giocatore di scacchi, c’era un poeta che nelle serate studentesche declamava versi assordanti come barattoli di latta (a quel tempo, chissà perché, sembravano musica), c’erano, si capisce, intellettuali vari, scialbi o vistosi, timidi o sfacciati. […] Appena entrato, senza salutare, il poeta aveva chiesto a voce alta, imitando i suoi modelli poetici: “Dov’è qui il luogo di decenza?”. Si erano sentiti bisbigli di entusiasmo: “È un poeta… Una forza d’urto… Non rispetta le convenzioni…”. I versi che egli fece poi crepitare per tutta la sera non furono dimenticati e certo per merito del luogo di decenza. Adesso, a trent’anni di distanza, il poeta continua a rumoreggiare come latta, ma nessuno prende più i suoi versi per musica. Latta, pura latta, nient’altro.
Jurij Trifonov, La casa sul lungofiume, 1977
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“Ci torneresti in Afghanistan?”. “Sì”. “Perché?”. “Là un amico è un amico e un nemico è un nemico. Mentre qui mi chiedo in continuazione: per che cosa è morto il mio amico? Per questi speculatori ben pasciuti? No, qui non c’è niente che vada bene. Mi sento un estraneo”.
Svetlana Aleksievič, Ragazzi di zinco, 2001
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L’idea della Russia non è in un punto del cervello, / né in qualche regione dello spirito, / ma qui, in vista, nel folto imperscrutabile, / perigliosamente vicino a un’anima / che dell’anima non sa dove siano i confini, / dove sia il proprio, dove sia l’altrui.
Victor Krivulin, Versi del quartiere di Kirov, 1987
L’esperimento della perestrojka. 1985-1989
Nel 1985 diventa segretario del Pcus Michail Gorbacëv, che dà inizio alla fase della perestrojka (ristrutturazione) e della glasnost (trasparenza). Le riforme politiche ed economiche si accompagnano a una grave penuria di beni di consumo e segnano l’inizio della fine dell’Urss. Le autorità consentono a decine di migliaia di ebrei di lasciare il paese ed emigrare in occidente. Nel 1986 c’è il disastro nucleare di Černobyl.
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Il cosiddetto “nuovo pensiero”, pretesa dei gorbacioviani, è soltanto una nuova forma demagogica di un vecchio comportamento. […] Le riforme gorbacioviane sono misure artificiali che hanno lo scopo di produrre nel paese fenomeni estranei alla natura stessa della società comunista. Sono delle “droghe” sociali e politiche in grado di dare successi temporanei. Ma un enorme paese non può vivere a lungo delle “droghe” gorbacioviane.
Aleksandr Zinovev, Il gorbaciovismo, 1987
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Primo grande provvedimento della perestrojka: riconversione di alcuni stabilimenti di vodka a produzioni non alcoliche, con conseguente peggioramento delle condizioni di vita del popolo: code per acquistare la vodka, distillazione clandestina (samogon), speculazione e sofisticazioni.
Viljam Vasilevič Pochlëbkin, Storia della vodka, 1991
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In cuor tuo esegui una sezione verticale del tuo ego. In questo modo sarà più facile concentrarti e arrivare all’essenza della questione. Dunque, nella parte più bassa abbiamo la birra. Più o meno tre o quattro litri di liquido giallo e torbido. Prodotto appositamente per il proletariato. Più in lato uno strato caldo e rosso di vino. Lì si svolgono i processi tettonici, ci sono profondità vulcaniche. Ancora più in alto, da qualche parte all’altezza dell’apparato digerente, c’è uno strato sottile di vodka. Questo è un segmento molto attivo, in senso biologico. In un certo momento può diventare catalizzatore di potenti tendenze riformatrici. Infatti è un esplosivo. Sopra la vodka, più vicino al gargarozzo, giace il BUF – Bevanda di uva forte. In caso di eruzione, questo è quello che zampillerà per primo. Maleodorante e scuro come la nafta. Ed ecco, nei tratti fondamentali, lo schema del tuo vuoto interiore.
Jurij Andruchovyč, Moscoviade, 1993
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“Compagno, chi è l’ultimo qui?”. “Forse io, ma dietro di me c’è ancora una donna col paltò blu”. “Allora io sarei dopo di lei?”. “Sì, tornerà subito. Mettetevi dietro di me, intanto”.”E voi rimanete qui?”. “Sì”. “Perché volevo allontanarmi per un momento, letteralmente un momento…”.
Vladimir Sorokin, La coda, 1985
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Ogni volta che salgo su una bilancia mi torna in mente quando ero nell’esercito sovietico. […] Almeno il primo anno la mancanza di cibo, insieme alla mancanza di sesso, costituiva l’argomento di conversazione principale tra reclute. Quando un soldato riceveva la vista dei genitori o della fidanzata, tutti gli altri lo venivano a sapere al più tardi la sera in camerata, perché emanava effluvi delle specialità che aveva mangiato durate il giorno. Quelli che venivano dalla Moldova odoravano di salsicce di maiale appena rosolate, quelli provenienti dalla Siberia sapevano di pelmeni e vodka, gli uzbeki di uva e kumys. Il nostro commilitone bielorusso Gleb non aveva mai visite, eppure ogni sera emanava un chiaro aroma di patate arrosto. Il mio amico Andrej […] elaborò una tesi ardita: Gleb in realtà si limitava a sognare le patate, ma così intensamente che i suoi sogni si materializzavano in odori.
Wladimir Kaminer, La cucina totalitaria, 2006
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Laggiù (a Černobyl) venivi catapultato in un universo fantastico, nel quale si univano gli estremi della fine del mondo e dell’età della pietra. […] Vivevamo nella foresta. In tende. A venti chilometri dal reattore. “Facevamo i partigiani”. Così venivano chiamati i riservisti come me richiamati per delle “esercitazioni speciali”. L’età era tra i venticinque e i quarant’anni, il grado di istruzione per lo più superiore, in molti casi di tipo tecnico. […] Invece dei mitra ci hanno messo in mano dei badili. Rivoltavamo le discariche, gli orti. Nei villaggi le donne ci guardavano e si facevano il segno della croce. Portavamo guanti, respiratori, vesti mimetiche… Il sole picchiava… Noi comparivamo nei loro orti come diavoli. […] Le vecchie si segnano e gridano: “Soldatini, cosa succede, la fine del mondo?”.
Svetlana Aleksievič, Preghiera per Černobyl, 2001
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[…] così iniziai a lavorare a IV Compagnia Strojbat. Lo portai alla redazione di una rivista, la più prestigiosa. Stabilirono subito di farlo uscire sul decimo numero del 1988. Mi stupii, anzi mi offesi persino un po’, per l’assoluta facilità con cui si decise la pubblicazione del romanzo. D’altronde, però, perché dovevo offendermi? Ormai c’era la libertà, la perestrojka, che bellezza! Chi l’avrebbe mai detto! Il Glavlit non approvò l’uscita del numero già impaginato. E la tipografia, senza il permesso del Glavlit, non è neanche autorizzata a stampare l’etichetta dei fiammiferi, per non parlare della carta delle caramelle o dei cioccolatini. Al giornale sentenziarono: un malinteso. D’accordo, avevano vietato Arcipelago Gulag. Ma lì era tutto chiaro: l’autore era un nemico, un traditore, un rinnegato, un calunniatore, e a poco gli aveva giovato essere un premio Nobel. Avevano bloccato anche Il quaderno di Černobyl di Grigorij Medvedev, con un’ottima motivazione: per non gettare nel panico i lettori alla notizia che le radiazioni si erano diffuse su tutto il pianeta. Verissimo. A meraviglia. Ma Strojbat che cosa era andato a cozzare? La storia risaliva a vent’anni prima: un pulcioso battaglione logistico del genio, “i soldati e i mitra non guardano in faccia a nessuno!”. Armi da combattimento: piccone e badile. Oltre alla cazzuola, naturalmente. Ma… non fu così semplice come credevo.
Sergej Kaledin, IV Compagnia Strojbat, 1989
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A diciassette anni andavo in giro con dei jeans Wrangler strettissimi, rattoppati con pezze colorate […]. Allora vivevo in viale S., in un edificio a cinque piani, nel cui seminterrato, se bene ricordate, si trovava l’ottimo caffè Beločka. Ottimo per la sua clientela, radunata da un enorme samovar elettrico che troneggiava, come un buddha, su un tavolino basso in un angolo del locale. […] Vagavano da un tavolino all’altro vecchi rimbambiti dell’Arbat, usciti di senno chi per l’economia politica, chi per il libro di Giobbe, stupefacenti verdi scombussolavano e scandalizzavano gli ospiti della capitale, hippy capelloni leggevano libricini inglesi dalle copertine morbide, oppure si frugavano in testa l’un l’altro, e omosessuali lindi e garbati […] si annoiavano in silenzio. Adesso è tutto cambiato: gli hippy, si sa, si sono trasferiti – rimpiazzati da una tribù di punk decadenti e gambe corte – […] le soffitte dove ci bucavamo in cerchio con siringhe non sterilizzate – e io ormai non vivo più sopra a Beločka, ma su una lavanderia a secco, alla quale Beločka è stato adibito cinque anni fa.
Ergali Ger, Liza elettrica, 1989
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Finalmente saremmo partiti, dopo nove anni, pensavo mentre attraversavo Leninskij prospekt […]. Sentivo che i muri e gli ostacoli che si erano messi di traverso al futuro della mia famiglia stavano crollando. Nella primavera del 1987, quando le autorità sovietiche accettarono la nostra richiesta di emigrare, mia madre stava per compiere 47 anni e mio padre ne aveva 51. Nell’immaginario sovietico noi eravamo i cosiddetti otkazniki (dal russo otkaz, rifiuto), cioè quelli a cui era stata negata la possibilità di lasciare l’Unione Sovietica. Eravamo conosciuti anche come refusenik (da refuse, rifiutare) parola che aveva una certa ambiguità, caratterizzata da un’ironia non voluta: a rifiutare non erano gli ebrei, ma le autorità sovietiche. A meno che non si voglia considerare che noi refusenik avevamo rifiutato il biglietto per il paradiso sovietico.
Maxim D. Shrayer, Leaving Russia, 2013
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Alex guardava le due ragazze cercando di resistere al desiderio di avvicinarsi. Poteva essere la cosa più semplice del mondo. Aveva studiato inglese. Doveva solo fare due passi e dire ciao, siete americane? E loro dovevano solo rispondere sì. “Dove vivete in America?”. “A Chicago. E tu di dove sei?”. “Di Riga, in Lettonia, in Unione Sovietica”. “Interessante. Non abbiamo mai incontrato nessuno che venisse dall’Unione Sovietica. E dove sei diretto?”. “A Chicago”. “No, davvero?”. “Sì, davvero, sto andando a Chicago”. “È la prima volta che ci vai?”. “Sì, è la prima volta. Mi potete dire qualcosa di Chicago?”. “Certo. Siediti con noi. Ti diremo tutto quello che c’è da sapere su Chicago”.
David Bezmozgis, Il mondo libero, 2011
Il crollo dell’Urss e la Russia sovrana. 1991-2017
Nel novembre del 1989 crolla il muro di Berlino. L’8 dicembre del 1991 i presidenti delle repubbliche di Russia, Ucraina e Bielorussia decidono di fatto la fine dell’Urss. L’Unione si disgrega e le 15 repubbliche si dichiarano indipendenti. Comincia la transizione alla democrazia e al libero mercato, che porta all’affermazione di un capitalismo di rapina e ad anni di instabilità e caos. Nel dicembre del 1999 il presidente Boris Eltsin sceglie come suo successore Vladimir Putin. Diciassette anni dopo, l’ex capo dei servizi segreti dell’Fsb è ancora in carica, e punta a farsi rieleggere per altri sei anni alle presidenziali in programma nella primavera del 2018.
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Delle molte rivoluzioni vissute negli ultimi tempi in Russia, la più particolare fu la rivoluzione pubblicitaria. Gabriel García Márquez, che visitò l’Urss durante il Festival internazionale della gioventù nel 1957, e non sappiamo se piantò qualche albero nel Parco dell’amicizia, intitolò le sue memorie russe Ventun milioni di chilometri quadrati senza nessuna pubblicità di Coca-Cola. Naturalmente, il primo cartellone pubblicitario apparso nel 1992 fu quello della Coca-Cola sopra un edificio della piazza Puškin, di fronte al Mcdonald’s più grande del mondo, inaugurato poco prima. In quegli anni le code al McDonald’s, la cui visita dava ai moscoviti la sensazione di viaggiare all’estero, erano paragonabili solo a quelle del mausoleo di Lenin.
Tatiana Pigarëva, Mosca. Autobiografia di una città, 2001
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Un altro grande problema che mi trovo ad affrontare è il fatto di scegliere. Qui mi trovo continuamente nella situazione di dover scegliere, cosa a cui l’uomo sovietico, educato nel comunismo, non è abituato. Quando ti mettono a scegliere una cosa tra tante, ti confronti col problema della responsabilità e dei rimorsi di coscienza che ne derivano. Nei giorni scorsi sono andato in un negozio, dove ho visto una camicia che mi piaceva. Da buon uomo sovietico, l’ho ghermita come se fosse stata l’unico prodotto in vendita, pur se occasionale, e mi sono incamminato verso casa, soddisfatto del mio grande acquisto. Lungo il tragitto, vedo in un altro negozio la stessa camicia a un prezzo di gran lunga inferiore. Il mio buonumore ha cominciato a scemare. Qualche giorno dopo vedo di nuovo quella camicia a un prezzo due volte più conveniente. Due settimane dopo era quasi gratis. Adesso non riesco più a vedermela davanti. L’ho riposta nel guardaroba, come simbolo della mia incapacità di adattarmi al mondo occidentale.
Vasile Ernu, Gli ultimi eretici dell’impero, 2009
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Nel frattempo, Saša risultò tutt’altro che un idiota. Era uno di quelli che avevano sperimentato centinaia di forme di vita negli strepitosi anni novanta della Russia. Aveva percepito il sibilo e la velocità del tempo russo, quando un’ora valeva un anno, cosa mai verificatasi né prima né dopo, evidentemente. Era uno di quelli che avevano capito il senso dell’energia, aveva radicalmente modificato la mentalità passiva. In Russia ben pochi vivevano negli anni novanta: piangevano quasi tutti. Per ragioni diverse. Piangevano di gioia per l’ottenuta libertà. Piangevano i rapinati. Piangeva la gente navigata. Quasi tutti si guardavano attorno timorosi, badando alla borsa, senza entrare nel gioco, tenendosi ai margini. Mosca, piena zeppa di soldi, sembrava a questi quasi tutti la più povera, la più disperata città del mondo.
Victor Erofeev, L’enciclopedia dell’anima russa, 1999
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Stëpa scoprì presto che la sua vecchia idea di iscriversi alla facoltà di economia era stata una scelta saggia. Non furono le nozioni di finanza socialista a giovargli (di quello non gli era rimasto in testa niente), ma i rapporti nell’ambiente: l’ex sindacalista del gruppo lo aiutò a registrare la sua banca. Si rese conto che molte persone che ricoprivano posizioni chiave lui le conosceva già dai tempi in cui il business si chiamava komsomol.
Viktor Pelevin, Dialettica di un periodo di transizione dal nulla al niente, 2003
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L’uomo russo ha bisogno di qualcosa in cui credere. Qualcosa di elevato, di sublime. Comunismo e impero sono radicati nel profondo del nostro cervello. Capiamo meglio ciò che è eroico. Il socialismo obbligava l’uomo a vivere nella storia… ad assistere a eventi grandiosi. E come se siamo spirituali, specialissimi! Non si è vista nessuna democrazia. Noi, lei, io, saremmo dei democratici? La perestrojka è stata l’ultimo grande avvenimento della nostra vita.
Svetlana Aleksievič, Tempo di seconda mano, 2013
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Se ci sono i viveri / manca qualcos’altro / Se ci sono altre cose / allora mancano i viveri / Se non c’è niente / né viveri, né altro / comunque qualcosa c’è / poiché viviamo e ragioniamo.
Dmitrij Prigov, Banale riflessione sul tema: non di solo pane vive l’uomo, 1997
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Gli expat occidentali arrivarono in Russia come emissari della parte vittoriosa nella guerra fredda. Erano superiori e venivano a insegnare ai russi a civilizzarsi. Ora tutto sta cambiando. La Russia sta rinascendo, quelli che un tempo insegnavano sono diventati servi, e io non sono nemmeno più sicuro di chi abbia davvero vinto la guerra fredda.
Peter Pomerantsev, Nothing is true and everything is possible, 2014
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[…] noi, che in Russia ci viviamo, […] non vogliamo più essere schiavi, anche se è quanto più aggrada all’Europa e all’America di oggi. Né vogliamo essere granelli di sabbia , polvere sui calzari altolocati – ma pur sempre calzari di tenente colonnello – di Vladimir Putin. Vogliamo essere liberi. Lo pretendiamo. Perché amiamo la libertà tanto quanto voi.
Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, 2004
Postilla
Dov’è mai la speranza della Russia, se perfino i suoi grandi profeti non distinguono la libertà dalla schiavitù? Dov’è mai la speranza, se il genio della Russia vede la dolce e luminosa bellezza della sua anima nella remissiva schiavitù? Dov’è mai la speranza della Russia, se il più grande dei suoi riformatori, Lenin, non ha distrutto, ma rafforzato l’unione tra lo sviluppo russo e la non-libertà, il servaggio? Dov’è il tempo dell’anima russa libera e umana? Quando mai verrà quel giorno? Chissà, forse non verrà mai, mai spunterà.
Vasilij Grossman, Tutto scorre…, 1970