Secondo le cifre fornite dal ministero dell’interno di Bucarest, più di 250mila romeni residenti all’estero sono tornati in Romania dopo lo scoppio dell’epidemia di covid-19. Nelle ultime settimane su di loro si è riversata un’ondata di odio. Si è detto che le persone tornate sono solo “ladri e criminali” e che non hanno nulla a che fare con i romeni seri della vera diaspora. Il sindaco di Timisoara, Nicolae Robu, è arrivato a sostenere che “rappresentano un pericolo per la nostra società”. Ma la crisi che ha paralizzato l’economia dell’intero pianeta non può essere ridotta a generalizzazioni così semplicistiche.
Oltre a quelli che in occidente si guadagnavano da vivere in modo poco chiaro, in Romania sono tornate decine di migliaia di cittadini – camerieri, addetti alle pulizie, muratori, artigiani – impiegati in cantieri, ristoranti e alberghi che hanno chiuso improvvisamente. Sono tornati perché spaventati dalle previsioni cupe nei loro paesi d’adozione o semplicemente perché dalla sera alla mattina hanno perso tutto.
Persone che condividevano lo stesso appartamento si sono convinte a vicenda a tornare a casa. È difficile – sotto il profilo psicologico, ma anche finanziario – rimanere in un paese straniero quando intorno a te tutti fanno le valigie e se ne vanno. Sono partiti anche quei romeni che pensavano di tornare in patria già da tempo, ma che avevano bisogno di qualcosa, di una spinta particolare per lasciarsi alle spalle la loro vita all’estero.
Per scoprire le storie che si nascondono dietro ai numeri e alle statistiche della polizia di frontiera, abbiamo incontrato e ascoltato alcuni romeni tornati a casa negli ultimi giorni.
Veronica Timiș, 53 anni, di Borșa, distretto del Maramureș. Cameriera ai piani
Noi di Borșa spesso lavoriamo come stagionali negli alberghi. Io, per esempio, facevo la cameriera in un hotel nella provincia di Trento, in Italia. Ero arrivata a dicembre e sarei dovuta rimanere fino al 5 aprile. Ma l’albergo ha chiuso, i clienti se ne sono andati e le prenotazioni sono state cancellate. Il 10 marzo era già tutto deserto. Ognuno cercava di tornare a casa come poteva. Chi aveva un’auto è partito subito, gli altri sono rimasti bloccati. Io ho fatto un po’ di pulizie: l’albergo era vuoto, e i padroni ci avevano permesso di rimanere. A un certo punto ero rimasta l’unica ospite della struttura. Stavo in un piccolo appartamento, ma negli ultimi giorni mancavano l’acqua calda e il riscaldamento. Non ho detto nulla e mi sono adattata.
Ma poi ho cominciato ad avere paura per la diffusione del virus. Stai vivendo nel ventunesimo secolo e improvvisamente una mattina ti svegli e scopri che hai paura di uscire di casa. In Italia avevano dato l’ordine di non uscire. Non vedere anima viva per strada faceva impressione. Così ho pensato: e se morissi qui? In Romania ho una famiglia, una figlia di 29 anni, un nipotino. Come se la caverebbero? È stata dura. E ho pensato anche se che mi fosse successo qualcosa in Italia nessuno mi avrebbe aiutata. Mi ha sostenuta la fede in Dio. Poi ho visto i commenti che si facevano in Romania su di noi che eravamo all’estero: non dovevamo tornare per non contagiarli. Non mi è sembrata una reazione normale, ho pensato che la gente si fosse fatta prendere dal panico.
Dicono che siamo noi gli untori, ma da quello che so la malattia era già arrivata in Romania. Se la tua famiglia ha bisogno di te, come puoi non tornare? Così sono rimasta in albergo finché una brava persona è venuta a prendermi con un minibus e mi ha portata a casa insieme ad altri. Ora stiamo in una pensione qui a Borșa, in quarantena. Non so cosa farò in futuro: in Italia è tutto chiuso. In Romania ho avuto un solo lavoro: facevo la commessa in un piccolo negozio di alimentari. Tutti abbiamo una famiglia, dei bambini da aiutare. Per questo andavamo all’estero, poi tornavamo, poi partivamo ancora. E i soldi guadagnati li portavamo sempre a casa.
Sarà difficile, molto difficile. Non ho risparmi né progetti. Tutto quello che guadagnavo all’estero lo spendevo qui a casa. Non so cosa farò nei prossimi mesi. Spero che la situazione si normalizzi. Lavorerò la terra, pianterò qualche patata per sopravvivere. È così, non c’è altro da fare.
Ladislau Gaspar, 26 anni, di Blaj, distretto di Alba. Autista di betoniera
Lavoravo a Manchester, guidavo una betoniera. Pagavo le tasse, ero in regola, niente nero. Era un lavoro stabile. Poi all’improvviso mi hanno detto: “Si chiude”. Era un venerdì. Mi hanno detto senza troppi complimenti: “Guarda che lunedì al lavoro non ci devi venire. Oggi è l’ultimo giorno”. Nei giorni successivi ho cercato altri lavori, ho chiamato tutte le agenzie dicendo che ero disposto a fare qualsiasi cosa pur di rimanere nel paese, perché sapevo che tornare sarebbe stato molto difficile. Ma non ho trovato nulla. Poi ho visto le notizie, e ho capito che anche l’Inghilterra stava diventando zona rossa, che ci avrebbero tenuti in quarantena e che le cose sarebbero peggiorate. Così ho deciso di tornare a casa. Ho preso l’auto e ho viaggiato da solo.
Fino alla frontiera con l’Austria la strada era deserta. Lì invece la situazione era assurda: era pieno di famiglie con bambini piccoli che strillavano, piangevano, senz’acqua e senza cibo. Terribile. Poi ho attraversato l’Ungheria e sono arrivato alla frontiera romena. La solita pantomima: ci sono volute sei ore per passare. Alcuni agenti della dogana erano del tutto indifferenti a quello che succedeva, giocavano sul telefonino, non indossavano la mascherina, passavano formulari alla gente senza i guanti. Sui documenti si poteva scrivere qualsiasi cosa, nessuno controllava.
Ora sono a Blaj, in autoisolamento nell’appartamento di mia zia. Rispetto le regole per una questione di coscienza, non perché ci sia qualcuno che mi controlla. Ho visto che c’è gente che dice che abbiamo portato il virus. Mi sembra che sia parecchio ingiusto dire cose simili di chi è partito per lavorare. Tutti i soldi guadagnati all’estero li ho sempre investiti in Romania. Qui ci sono molte famiglie che dipendono da chi è andato a lavorare all’estero, non è giusto giudicarci in questo modo. Non siamo andati a sfruttare prostitute né a rapinare la gente. Lavoravamo, pagavamo le tasse e ci facevamo gli affari nostri. Ora che nel Regno Unito tutto è chiuso, la situazione è molto difficile. Se le cose cambiassero, proverei a tornare, almeno per un anno. Se non sarà possibile, allora sarà dura. Un tempo lavoravo sulle autostrade qui in Romania, potrei tornare a fare la stessa cosa. Per me non dovrebbe essere troppo difficile trovare un lavoro. Ma c’è un sacco di gente che non riuscirà a cavarsela. Quello che sta succedendo è molto grave.
Cristian Levițchi , 51 anni, di Milișăuți, distretto di Suceava. Operaio edile
Ero a Milano. Lavoravo in un cantiere alle rifiniture di alcuni appartamenti di lusso. Andava tutto bene, il lavoro c’era e anche i soldi. Poi, due settimane fa, è venuto il capo e ci ha detto: “È finita. Non si può lavorare, chiudiamo i cantieri e partiamo”. Avevo paura di quello che sarebbe potuto succedere, così sono venuto a casa. Ancora non riusciamo a credere di essere rimasti senza lavoro, e non sappiamo cosa faremo in futuro. È una cosa a cui non avevamo mai pensato. Ricordo che a gennaio la mattina prendevamo il caffè ascoltando le notizie dalla Cina. “Per fortuna che non è qui da noi”, dicevamo scherzando. Due mesi dopo il virus è arrivato in Italia. Non potevamo crederci. Quando siamo andati via nelle strade non c’era nemmeno un’auto. Tutto vuoto.
Solo in Ungheria abbiamo incontrato altri romeni. Quando siamo arrivati alla frontiera era pieno di gente, c’era il caos. Siamo riusciti a passare, ma poi la polizia ci ha trovati e ci ha messi in quarantena. È stato molto frustrante il modo in cui siamo stati accolti. Io vengo dalle parti di Radauti, vicino a Suceava. Come me, molti sono emigrati, perché da noi non c’è lavoro. Ho un figlio che va all’università e devo aiutarlo. Per riuscire a fare qualcosa, abbiamo sacrificato la nostra vita familiare, i figli, tutto… E adesso vedo che chi è rimasto a casa ci accusa di aver portato il virus.
Noi siamo stati in quarantena, ma tanti che sono tornati non sono stati in isolamento. Sono usciti di casa, e guardate che disastro è successo. Su internet la gente ha scritto che erano tornati i criminali. Non si fa differenza. Certo che ci sono dei delinquenti, ma la maggior parte sono lavoratori. Quando siamo emigrati le cose non erano facili, siamo andati per sostenere le nostre famiglie. Oggi sono ancora in quarantena in un albergo. Quando uscirò, voglio godermi la famiglia, perché non li vedo da un sacco di tempo. Può darsi che tutta questa storia alla fine abbia anche un lato positivo, il fatto che stiamo di più con le nostre famiglie. Ma poi… Non so, dovrò inventarmi qualcosa. Ma non so cosa, sarà difficile. È come nel 2008, quando c’è stata la crisi e si sono persi molti posti di lavoro. Come noi, tanti altri romeni sono tornati a casa, e tutti cercheranno un impiego. Non sarà facile.
Vasile Florea, 45 anni, di Certeze, distretto di Satu Mare. Autista
Sono tornato a casa due settimane fa. Ero nel Regno Unito: ho lasciato un lavoro da quattromila sterline al mese. Facevo l’autista per la Thames water company. Non mi sono dimesso, ma quando ho saputo del virus gli ho detto che sarei tornato a casa, e che in caso avessi voluto continuare a lavorare, li avrei avvisati. Ma non credo che tornerò. Perché ho paura di rimanere bloccato. Ho lasciato tutto nella casa che avevo lì: tv, lavatrice, macchina del gas, frigorifero.
Nel mio paese, a Certeze, sono tornati in molti, ma non perché all’estero non avessero di che vivere. Hanno mollato tutto. Mio cognato era capocantiere in una azienda che asfalta le strade a Londra, e se n’è andato. Il mio padrino lo stesso. Tutti avevano un buon lavoro. In Inghilterra ho incontrato anche dei romeni che vivevano alla giornata, che non hanno messo da parte nulla. “Ma tu in Romania non hai niente?”, gli chiedevo. “No, niente”. “E dove vai quando torni a casa?”. “Da mia madre”. Sono questi quelli che avranno problemi. Io ho due case, tre macchine, perché mi sono dato da fare. Sarà difficile, ma per quanto mi riguarda possono anche chiudere tutte le frontiere.
Se Dio vuole per due o tre mesi nessuno uscirà dal paese e rimarranno tutti qui a lavorare. Se le persone hanno da lavorare, non se ne vanno. Così finalmente ci produrremo da soli le cose che ci servono. Per il futuro si vedrà. Io troverò lavoro anche qui in Romania. Ho la mia fattoria, i miei animali. Cose da fare ne ho. E finalmente sono riuscito a staccarmi dal lavoro all’estero.
Dorin Armanu, 42 anni, di Bunești-Averești, distretto di Vaslui. Operaio edile
Ero in Italia, lavoravo in cantiere. Sono un muratore, e faccio qualsiasi cosa nel campo delle costruzioni. Stavamo costruendo un palazzo. Che è rimasto incompiuto, perché ci hanno rimandati a casa. In cantiere noi romeni eravamo parecchi, una ventina. Un giorno il capo ci ha detto che potevano restare aperte solo le attività essenziali e che nelle costruzioni non c’era più lavoro. Il cantiere ha chiuso.
Quando ho visto cosa stava succedono in Italia, ho avuto paura. C’era il panico. A vedere le strade vuote di Milano ti rendevi conto che la situazione era terribile. Improvvisamente tutto si svuota. Fa paura. E allora ti chiedi: “Ma dove sono finiti tutti quanti?”. Così abbiamo deciso di andarcene. Eravamo in quattro, tutti colleghi del cantiere, vivevamo nella stessa casa, affittata appositamente per noi. Abbiamo chiamato il capo, che ci ha dato un furgone da otto posti, abbiamo caricato i bagagli e siamo partiti. Per strada abbiamo incontrato diversi romeni.
Alla frontiera era pieno, tutta gente che era tornata perché non aveva più lavoro. Tra loro ci saranno stati anche ladri e mendicanti, ma il grosso erano persone serie. Ve lo dico io che sono persone oneste: sono tornate perché all’estero la vita è diventata più dura. Ora sono in quarantena in un albergo, ma tra qualche giorno potrò tornare a casa. Sono di un villaggio non lontano da Vaslui. Lì le cose non vanno bene. Tutti vanno a lavorare all’estero. Non ci sono sussidi, non c’è lavoro, la stato non ci dà nulla. Se anche gli altri paesi si fermano, per noi sarà dura. Io sono partito nel 2005 e ho fatto avanti e indietro con l’Italia. Ho anche provato a fare qualcosa qui a casa, ho comprato delle api, ma non ha funzionato, sono morte tutte. Ho costruito casa per i miei genitori nel nostro villaggio, ho due figli al liceo, a Huși, e uno più piccolo. Devo occuparmi di loro. Per questo sono emigrato. Quando finirà la quarantena, ce ne andremo a casa, dalla famiglia. Poi si vedrà, con l’aiuto di Dio.
Ioan Nemeș, 37 anni, di Cămărzana, distretto di Satu Mare. Operaio edile.
Ho lavorato dodici anni in Italia. E sei anni e mezzo in Inghilterra. In Italia ho lavorato in una fabbrica di piatti, in seguito sono stato in cantiere: ho fatto il parchettista, ho montato controsoffitti. Poi a Londra, dove stendevo l’asfalto. Avevo già pensato di tornare definitivamente a casa, il virus ha solo accelerato le cose. Mi ero stancato, sono stato quasi vent’anni all’estero. Mi è bastato. Del nostro villaggio molti sono tornati una volta per tutte, ma soprattutto per il virus.
La prima volta che sono partito volevo guadagnare dei soldi per comprarmi un’automobile. Da allora sono passati quasi vent’anni. Tutti i soldi che ho fatto, li ho investiti qui, in Romania. Mi sono fatto la casa. In Inghilterra ho lavorato giorno e notte e ho guadagnato, ma la vita non mi piaceva. Lì è solo soldi e lavoro, lavoro e soldi. Ho visto che qui la gente dice che “sono tornati i ladri”. Non è giusto essere trattati così. Siamo noi che lavoravamo all’estero che abbiamo tenuto in piedi la Romania. Se non avessimo investito qui i nostri soldi, oggi il paese sarebbe in una condizione parecchio peggiore. Sabato mattina esco dalla quarantena. Voglio fare qualcosa, continuare a lavorare. Ma vediamo che succederà, non è un buon momento per cominciare un’attività. Per adesso lavoreremo nei campi. Io ho di che vivere, ma gli altri… Con questa crisi sarà dura. In tv dicono che nel paese manca la manodopera. Be’, guardate: i romeni sono tornati!
(Traduzione di Mihaela Topala)
Questo articolo è stato pubblicato dal giornale online romeno Recorder.
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