Chi ha visto la serie tv israeliana Shtisel, si sarà fatto un’idea di cosa significa essere ebrei hasidici, o hasidim. Chi ha visto Unorthodox, un’altra serie stavolta tedesco-statunitense, si sarà avvicinato un po’ di più a un mondo hasidico particolare, quello di New York.
Nello stato di New York vivono circa due milioni di ebrei (è la comunità ebraica più grande fuori di Israele). Il dieci per cento di loro, cioè 200mila persone, è hasidico. Gli ebrei hasidici si distinguono dagli ortodossi moderni e da altri osservanti che, pur seguendo fedelmente le prescrizioni religiose, sono integrati nella società. Indossano gli stessi abiti modesti dei loro antenati, si attengono a regole molto rigide e la maggior parte abita in quartieri che somigliano a enclave, a Brooklyn e in un paio di città nelle contee vicine.
In queste zone, le insegne dei negozi sono in yiddish (la lingua parlata dagli ebrei dell’Europa centrale e orientale) e i marciapiedi sono affollati di famiglie con passeggini. Il senso di appartenenza è fortissimo ed è incoraggiato dai rabbini, che hanno un potere notevole. Per promuovere la crescita della comunità e tenerla unita, i leader dei vari gruppi hasidici di New York si affidano alle scuole religiose maschili, chiamate yeshiva. Ne hanno costruite una cinquantina solo negli ultimi dieci anni. La più importante è la United talmudical academy (Uta) che, con il suo immenso patrimonio (più di 500 milioni di dollari nel 2021), è uno dei più grandi istituti privati dello stato.
Un’enclave fuori dal mondo
Da alcuni giorni queste scuole sono al centro di un’accesa polemica, scatenata da un’inchiesta del New York Times. L’articolo, che ha richiesto un anno di lavoro, descrive nel dettaglio il sistema educativo hasidico e l’idea di apprendimento che incoraggia: in sintesi, molta preghiera e poco mondo esterno.
I bambini e i ragazzi che frequentano le yeshiva (le loro coetanee ricevono un’istruzione a parte) entrano in classe di solito molto presto, alle 7.30 o a volte anche prima, e vanno a scuola tutti i giorni tranne il sabato. Le lezioni di religione, in yiddish, occupano quasi la totalità del tempo e si ripetono senza sosta. Sono ore piuttosto impegnative: l’insegnante, un rabbino, legge ad alta voce il testo (che può essere in yiddish ma anche in ebraico o aramaico), e i bambini seguono sui loro libri, ripetendo parole o frasi o rispondendo alle domande. I ragazzi più grandi passano una parte delle lezioni con un compagno, confrontandosi sull’argomento del giorno.
Le materie non religiose – inglese, matematica, scienze, storia o educazione civica – non attirano la stessa cura. Alcuni istituti proprio non le contemplano. Quelli che le includono nell’orario scolastico normalmente le concentrano nel pomeriggio, alla fine della giornata, e solo per gli alunni dagli 8 ai 12 anni. L’insegnamento è affidato quasi sempre a uomini della comunità, che spesso non parlano inglese, oppure a giovani assunti su Craigslist (un sito molto popolare che raccoglie annunci di ogni genere). I manuali sono controllati pagina per pagina, così da poter cancellare con il pennarello nero i contenuti non ammessi, per esempio un’immagine femminile o riferimenti a festività non ebraiche.
Per tenere in piedi il suo modello educativo fallimentare, questa comunità può contare su fondi statali
Il risultato è che ogni anno migliaia di ragazzi hasidici escono da scuola impreparati ad affrontare la vita adulta fuori della loro comunità. E quindi molto probabilmente con un futuro segnato. Chi ha cercato delle alternative lo ha sperimentato di persona. Un ex studente di 19 anni ha raccontato ai giornalisti del New York Times di aver perso il lavoro in una tavola calda perché non era capace di scrivere le ordinazioni dei clienti. Un altro solo dopo parecchie difficoltà ha trovato un alloggio e un lavoro; una vicina di casa nel tempo libero gli ha insegnato l’inglese e gli ha regalato anche il suo primo libro “laico”, Prosciutto e uova verdi del Dr. Seuss, una sorta di filastrocca per bambini (allora lui aveva 28 anni).
Tutti bocciati
Possibile che nessuno nella comunità hasidica di New York abbia messo in dubbio l’efficacia del sistema? E soprattutto, possibile che l’amministrazione pubblica non abbia fatto nulla?
I giornalisti del New York Times spiegano che certi elementi di queste pratiche educative erano già noti. Alcuni ex studenti delle yeshiva e i loro genitori lanciano segnali alla città da almeno dieci anni. Nel 2012 crearono un’organizzazione per avere più visibilità e nel 2015 presentarono un reclamo formale al dipartimento dell’istruzione di New York per denunciare il trattamento che le scuole hasidiche riservavano alle materie non religiose. Ma non ottennero granché. L’amministrazione dell’allora sindaco Bill de Blasio aprì un’indagine sulle scuole, che si arenò presto. Con la pandemia poi è stata sospesa del tutto.
Un’altra complicazione è che per i funzionari pubblici non è semplice verificare la qualità dell’apprendimento che offrono questi centri. Le yeshiva, come tutte le scuole private di New York, dovrebbero garantire un’istruzione paragonabile a quella degli istituti pubblici. Ma non sono tenute a sottoporre i loro iscritti alle prove standard che lo stato usa per valutare le competenze di base degli studenti in materie come l’inglese e la matematica, quindi la maggior parte non lo fa. Solo nel 2019, dopo che il dipartimento aveva pubblicato un rapporto parziale dell’indagine cominciata nel 2015, la sede centrale dell’Uta, che occupa un intero isolato nel quartiere di Williamsburg, a Brooklyn, ha accettato di far svolgere i test standardizzati a più di mille studenti. Il 99 per cento di loro non li ha superati (mentre la quota di fallimento tra tutti gli alunni newyorchesi era di circa il cinquanta per cento).
Scuole private, soldi pubblici
Il fatto che nella più importante città degli Stati Uniti una comunità chiusa gestisca una delle più potenti scuole private dello stato alle sue condizioni, senza permettere un controllo esterno e soprattutto senza riconoscere il diritto dei bambini a ricevere un’istruzione degna di questo nome, è grave di per sé. Diventa un problema pubblico e politico ancora più serio se, per tenere in piedi il suo modello educativo fallimentare, questa comunità può contare su fondi statali: almeno un miliardo di dollari negli ultimi quattro anni, secondo il New York Times. Si tratta di una piccola porzione delle risorse che la città e lo stato di New York riservano alle scuole pubbliche – il bilancio del dipartimento cittadino per l’istruzione nell’anno scolastico 2022-2023 arriva a 38 miliardi di dollari – ma basta per allarmarsi, in un momento in cui l’amministrazione locale sta tagliando la spesa per l’istruzione pubblica.
In teoria, i soldi ricavati dalle tasse non dovrebbero finanziare l’educazione religiosa, spiega il giornale. Ma vari dipartimenti dell’amministrazione locale assicurano risorse alle scuole private sia perché sono obbligati a farlo da norme statali sia per gestire tramite loro alcuni servizi sociali legati all’assistenza all’infanzia. Le yeshiva hasidiche accedono a decine di programmi di questo tipo.
Prendono molti meno fondi per alunno rispetto agli istituti pubblici. Ma in media ottengono più finanziamenti rispetto alle altre scuole private dello stato, comprese quelle religiose. Nel 2019 hanno ricevuto circa cento milioni di dollari per distribuire ogni giorno pasti gratis a quasi tutti i loro studenti, anche durante l’estate; sedi dell’Uta in seguito hanno usato quei soldi per comprare generi alimentari da negozi che appartengono alla stessa Uta, che quindi ha ricavato un profitto. Altri cento milioni di dollari arrivano dai programmi federali per fornire un’istruzione laica (le yeshiva dovrebbero impiegare questi soldi per svolgere i test standardizzati, controllare le presenze, acquistare materiale didattico); trenta milioni servono per gli scuolabus. Risultano anche 200mila dollari per la digitalizzazione e internet, anche se i rabbini della comunità vietano a studenti e famiglie di usare lo smartphone e navigare online.
Dopo che il New York Times ha inviato alle scuole coinvolte un riassunto della sua inchiesta, diversi gruppi hasidici hanno difeso pubblicamente il modo in cui educano i loro giovani, negando alcune conclusioni del quotidiano. Il 13 settembre, due giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, l’organo del dipartimento dell’istruzione che monitora tutte le attività educative dello stato ha approvato all’unanimità un regolamento che obbliga tutte le scuole private a soddisfare livelli accademici minimi nelle materie di base; chi non è in regola potrebbe perdere i sussidi statali.
Restano tuttavia delle perplessità sull’efficacia delle nuove norme. E i politici chiamati in causa finora hanno evitato di esporsi. Questo perché le yeshiva controllano piccoli ma influenti bacini di voti. Prima delle elezioni, hanno raccontato genitori ed ex studenti, gli insegnanti spesso consegnano alle classi copie di schede elettorali con i nomi dei candidati scelti dai rabbini capo. A marzo, quando era stato presentato un altro regolamento per le scuole religiose, i leader hasidici si sono attivati per affossarlo, istruendo i fedeli attraverso dei volantini. Per assicurarsi che i fogli raggiungessero tutti, li hanno fatti arrivare a casa tramite gli alunni.
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