Crescere nel paleolitico
Una mattina di 14mila anni fa, una famiglia si dirige verso una montagna vicino al mar Ligure. Cammina tra l’erba secca e i pini, fino ad arrivare all’ingresso di una grotta ai piedi della montagna. Il posto è pieno di fiori selvatici: cardi, artemisie, fiordalisi. Prima di entrare nella grotta, questa famiglia di cacciatori-raccoglitori prende dei rametti di pino, li riunisce in mazzetti, li copre di resina e gli dà fuoco per usarli come torce. Il gruppo procede a piedi nudi, lasciando impronte nel fango. Si distinguono le tracce dei due adulti, un maschio e una femmina, e dei bambini: uno di tre anni, uno di sei e un altro di non più di undici anni.
Dopo circa 150 metri, la famiglia raggiunge un corridoio basso e lungo. Avanza in fila indiana, con il bambino più piccolo in fondo. Presto il corridoio si trasforma in un tunnel strettissimo, in cui bisogna muoversi carponi. Le ginocchia segnano il terreno. Dopo qualche metro, il soffitto si abbassa ancora e l’uomo si ferma, non sa se il tratto successivo è troppo impegnativo per i bambini. Ma decide di andare avanti, e gli altri lo seguono. Schivano stalagmiti e grandi blocchi di pietra, superano un pendio e un piccolo laghetto sotterraneo. E alla fine incontrano un’apertura, una sezione della grotta che gli archeologi chiameranno Sala dei misteri. Mentre gli adulti fanno impronte sul soffitto, i ragazzi prendono un po’ di argilla dal terreno e la spalmano su una stalagmite, facendo dei segni con le dita. Ogni linea corrisponde all’altezza del bambino che l’ha fatta. Dopo un po’ la famiglia esce dalla grotta.
La descrizione di questa gita familiare del 12000 aC è di April Nowell, un’archeologa che insegna all’università di Victoria, in Canada. Sulla rivista australiana Aeon, Nowell riconosce che a noi l’escursione (fatta vicino all’attuale Toirano, in provincia di Savona) può sembrare banale. Ma per gli antropologi e gli archeologi momenti del genere, esaminati con tecniche avanzate, rappresentano un modo nuovo e promettente d’interpretare il passato.
Perché l’infanzia non emerge nella documentazione archeologica?
Fino a non troppo tempo fa si studiava il paleolitico superiore, il periodo che va da 40mila a 10mila anni fa, solo in rapporto agli adulti. Ma quegli adulti erano anche madri, padri, zii e nonni. Erano circondati dai bambini: nelle società preistoriche, gli individui con meno di quindici anni rappresentavano circa la metà della popolazione totale (oggi sono circa un quarto). Perché l’infanzia non emerge nella documentazione archeologica, si chiede Nowell?
Come vi risponderà chiunque lavori in questo campo, trovare reperti di bambini dell’era glaciale è difficile. Non solo perché le loro ossa, più piccole e più esposte all’erosione, si sono conservate peggio, ma anche per i problemi a localizzarle. Spesso quando morivano, le persone più giovani erano sepolte in posti isolati o in tombe poco profonde, senza bara o contrassegno. Non significa, tuttavia, che fossero poco importanti per la comunità. Alcuni ebbero sepolture maestose. Nel riparo della Madeleine, nel sudovest della Francia, il cadavere di un bambino morto circa 10mila anni fa venne sistemato tra alcune lastre; la testa, i gomiti, i polsi, le ginocchia, le caviglie e il collo erano stati decorati con centinaia di perline ricavate da conchiglie bianche. Secondo i ricercatori che hanno analizzato il sito, quegli ornamenti richiesero dalle trenta alle cinquanta ore di lavoro.
Per capire perché ci dimentichiamo dell’infanzia nelle nostre ricostruzioni della preistoria, dobbiamo anche considerare il modo in cui la modernità concepisce i bambini. Da vent’anni Nowell tiene un corso sull’archeologia dell’infanzia, e lo comincia sempre chiedendo ai suoi studenti quali aggettivi associano alla parola bambino. Tutti le dicono “ingenuo”, “spensierato” e “libero da responsabilità”. Ma se chi è o vuole diventare archeologo crede che i bambini e le bambine non contribuiscano – dal punto di vista politico, culturale o economico – alla società del presente, quante probabilità ci sono che cerchi prove di un loro contributo nelle società del passato?
Bambini visibili
Insieme agli ostacoli fisici, l’elemento della spensieratezza e del gioco è un altro fattore che ha allontanato l’infanzia dagli studiosi del paleolitico. Alcuni sostenevano che i bambini del passato, giocando, avessero “distorto” le testimonianze. In un articolo del 1981 pubblicato su American Antiquity, una delle riviste di riferimento del settore, l’archeologo britannico Norman Hammond ha illustrato questa distorsione con un esperimento. In un prato aveva ammucchiato un po’ di rifiuti, sostanzialmente bottiglie di vetro e lattine, alcune accartocciate. Poi aveva portato lì suo figlio, che aveva poco più di un anno. Il piccolo aveva staccato la linguetta da alcune lattine, aveva sparso delle bottiglie sul prato. Ne aveva riempita una con pezzetti di corteccia e ramoscelli: in molti contesti archeologici, osservava Hammond, un contenuto così inaspettato sarebbe considerato l’esito di un rito. Invece era solo il risultato di un gioco infantile.
Per fortuna, commenta Nowell, negli stessi anni in cui Hammond proponeva queste riflessioni si facevano largo archeologhe sensibili alle teorie femministe e al dibattito sull’identità e il genere. Queste studiose esaminavano criticamente il ruolo delle donne nella preistoria e, per estensione, anche i bambini sono diventati “visibili”.
Abbiamo già ricordato che nella preistoria i bambini costituivano circa la metà della popolazione, e basterebbe questo per sostenere un’indagine più approfondita dell’infanzia del passato. Un’altra ragione è che le vite dei giovani del paleolitico – che esploravano grotte, costruivano utensili, o giocattoli – ci aiutano a migliorare le nostre teorie sull’evoluzione umana e sull’apprendimento.
Per far parte a pieno titolo di una comunità bisogna imparare dalle persone più esperte (di solito gli adulti), ma per chi apprende non è facile capire quali sono i comportamenti e le conoscenze più importanti. Spesso, insomma, si tratta di scegliere cosa imparare, e da chi. Nowell cita una ricerca sull’innovazione degli strumenti (cioè sull’uso di nuovi utensili, o su vecchi strumenti impiegati in modi nuovi, per risolvere i problemi) tra bambini e adolescenti nelle società di cacciatori-raccoglitori.
Gli autori dello studio spiegano che gli adolescenti cercavano gli adulti considerati degli innovatori per imparare da loro attività come la lavorazione della pelle e la caccia, e poi diventavano i principali veicoli per trasmettere quelle nuove tecniche. Lo studio del passato potrebbe trovare un senso nello sforzo di ricostruire le vite di questi influencer dell’era glaciale, conclude Nowell. Ci raccontano storie diverse, non solo sul passato, ma anche su di noi.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Doposcuola, che racconta cosa succede nel mondo della scuola, dell’università e della ricerca. Ci si iscrive qui.