Il piano di Taipei contro la miopia inizia a scuola
In una mattina d’estate dei primi anni ottanta centinaia di ragazzi appena diplomati furono convocati a Cheg Kung Ling, una caserma nel centro di Taiwan, per il servizio di leva. La cerimonia di arruolamento cominciò senza intoppi. Ma mentre i ministri dell’istruzione e della difesa pronunciavano i loro discorsi, il sole spuntò da dietro il palco e i rappresentanti del governo furono abbagliati dalla luce riflessa da centinaia di occhiali da vista. Quel momento ispirò una battuta su come scongiurare un’invasione aliena – bastava chiedere agli studenti taiwanesi di guardare in alto – ma soprattutto scatenò la reazione di Taipei, che decise che bisognava fare qualcosa contro la miopia.
Il primo passo era quantificare il problema. Se ne occupò il ministero della salute, che avviò indagini a tappeto. I dati, man mano che si accumulavano, fornivano un quadro scoraggiante: non solo c’erano più casi di quelli che il ministero si aspettava, ma le persone con un difetto alla vista aumentavano a ritmo costante, soprattutto tra i giovanissimi. Nel 1990 il 74 per cento dei quindicenni taiwanesi era miope.
Il passo successivo era trovare soluzioni capaci d’invertire la tendenza. Nel 1999 il governo si affidò a un gruppo di esperti in medicina e pedagogia, che elaborò delle linee guida per le scuole. Successivamente queste indicazioni vennero riadattate e raccolte in un libretto verde da distribuire agli insegnanti. Il testo insisteva sull’altezza dei banchi (per tenere i libri alla giusta distanza dagli occhi) e sull’illuminazione delle aule; raccomandava esercizi per riposare la vista, compreso un massaggio su certe aree del viso; consigliava di dire ai bambini di scrivere i caratteri più grandi, sfruttando tutto lo spazio sul foglio. E formulava la regola del trenta e del dieci: dopo mezz’ora passata a leggere o a fissare uno schermo, bisogna fare una pausa di dieci minuti e guardare lontano. Purtroppo questi suggerimenti non fermarono l’avanzare della miopia nell’isola. Perché, si sarebbe scoperto dopo, era sbagliato l’approccio.
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La miopia è un difetto della vista che fa apparire sfocati gli oggetti lontani. In genere si presenta quando il bulbo oculare è più lungo del normale, per cui la luce converge non sulla retina come dovrebbe, ma leggermente davanti. Più il bulbo oculare si deforma, più la vista da lontano peggiora. Gli oculisti misurano questa distorsione in diottrie, un’unità di misura che indica anche quanto devono essere potenti le lenti per garantire una vista normale: da cinque o sei diottrie in meno si parla di miopia grave, una condizione che interessa circa il 25 per cento dei miopi in tutto il mondo. E il disturbo è progressivo, cresce cioè durante l’infanzia e l’adolescenza per poi stabilizzarsi in età adulta.
Nel tempo sono state formulate le teorie più diverse su cosa può provocare la miopia. Una rimanda ad attività che rientrano nella grande categoria dello “sforzo da vicino”. Ne scriveva nel seicento l’astronomo tedesco Johannes Keplero, che portava gli occhiali. La miopia, insisteva, è associata a un eccesso di lavori come la lettura e la scrittura, che impegnano gli occhi a poca distanza. Nell’ottocento, per limitare questo sforzo e tenere la vista allenata, un altro scienziato tedesco progettò uno strumento, il “myopodiorthicon”, che durante la lettura spostava gradualmente il libro indietro. E un filosofo, Hermann Cohn, diede il suo contributo alla causa con un saggio (L’igiene dell’occhio nelle scuole, pubblicato nel 1883) ricco di capitoli sull’illuminazione dell’ambiente e l’uso di poggiatesta.
In seguito prese piede un’altra teoria, sostenuta dal medico polacco-britannico Arnold Sorsby. Nel 1928 Sorsby aveva scoperto che i giovani ebrei di East London in media vedevano peggio dei loro coetanei non ebrei. All’inizio aveva pensato che il motivo fossero le ore passate sui testi sacri, ma in seguito si convinse che la spiegazione fosse nei geni: la miopia era una condizione che si ereditava, non una malattia da prevenire.
Uno studio che ha fatto il giro del mondo
La motivazione genetica ha avuto la meglio per decenni prima di essere messa in dubbio. Il merito di una sua revisione critica è in parte di un ricercatore, Ian Morgan, che lavorava l’Australian national university di Canberra. Morgan studiava la dopamina (un neurotrasmettitore) e il suo ruolo nella vista, non si occupava nello specifico della miopia. Ma il moltiplicarsi di articoli che trattavano il disturbo, o meglio la sua diffusione, lo incuriosivano. Leggeva di ricerche che rendevano meno solida la teoria genetica di Sorsby. E allo stesso tempo si chiedeva perché, se la colpa era davvero del famigerato sforzo da vicino, gli interventi sperimentati a Taiwan non avevano avuto successo.
Sapeva che in Australia la miopia infantile era piuttosto ridotta, e così nel 2003 lui e altri scienziati condussero a Sydney uno studio su migliaia di bambini tra i sei e i dodici anni. I risultati, pubblicati nel 2008, confermavano che la percentuale di miopi tra i dodicenni australiani era significativamente più bassa di quella tra gli asiatici della stessa età (circa il 13 per cento). La ricerca, inoltre, dimostrava che più tempo i ragazzi passavano all’aperto meno probabilità avevano di soffrire di miopia. La domanda successiva era perché. E qui entra in gioco la dopamina, il neurotrasmettitore studiato da Morgan in precedenza. Lui e i suoi colleghi sapevano già che la luce intensa stimola il rilascio di dopamina dalla retina e che la dopamina può controllare la velocità con cui il bulbo oculare si allunga. Ora avevano la prova che stare al sole e all’aria aperta favoriva questo meccanismo.
Lo studio australiano ha fatto il giro del mondo ed è arrivato anche a Taiwan, più precisamente sulla scrivania di Pei-Chang Wu, un medico (miope) specializzato in distacco della retina. Wu, racconta il giornalista Amit Katwala su Wired, ha deciso di replicare l’esperimento di Morgan nella scuola di suo figlio, una primaria. Ha convinto il preside a portare le classi all’aperto sei volte al giorno, cioè sei ore e mezza in più ogni settimana. E poi ha monitorato i tassi di miopia, in quella scuola e in un’altra che non aveva modificato le pause all’esterno. A un anno di distanza, nella scuola del figlio i nuovi casi di miopia erano quasi la metà rispetto all’altro istituto.
Incoraggiato da questi dati, Wu è diventato un grande sostenitore dell’ora all’aperto. La difendeva nelle trasmissioni tv e negli eventi in giro per l’isola, dove spesso proponeva cover di famosi brani pop (lui suonava la chitarra e la moglie le tastiere) adattando i testi allo scopo. Ha anche elaborato un programma per le scuole, fondato su un principio abbastanza semplice: due ore al giorno fuori dalle aule. Il suo piano nel 2010 è diventato il perno della strategia nazionale contro la miopia, chiamata Tian-Tian outdoor 120, cioè ogni giorno 120 minuti. La miopia tra gli studenti delle elementari ha raggiunto il 50 per cento nel 2011, però in seguito ha cominciato a diminuire, passando in pochi anni al 46 per cento.
Der-Chong Tsai, un giovane oculista, anche lui con occhiali spessi, è rimasto impressionato dal successo dell’idea dei 120 minuti, ma era convinto che intervenire ancora prima, su bambini e bambine più piccoli, avrebbe potuto portare a risultati perfino migliori. Così ha sviluppato un suo programma, attivato nel 2014 nella contea di Yilan, nel nordest dell’isola.
Il piano prevede screening annuali in tutte le scuole dell’infanzia della contea per rilevare la cosiddetta pre-miopia, ovvero i primi segni di allungamento del bulbo oculare. L’obiettivo è individuare alunni che hanno dei bulbi troppo lunghi per la loro età, che potrebbero non avere ancora il difetto visivo ma svilupparlo più facilmente alle elementari. Ai bambini più a rischio sono prescritti un collirio e un certo numero di ore all’aperto. Il servizio di screening costa a Taiwan l’equivalente di dodici euro a studente e finora ha aiutato a scoprire centinaia di casi di pre-miopia. Alla fine del 2016, in soli due anni, ha ridotto l’incidenza della miopia nella contea di cinque punti percentuali.
Tra l’iniziativa Tian-Tian 120, rivolta agli studenti più grandi, e quella di Yilan, l’isola sembrava finalmente recuperare. Poi è arrivato il covid, bambini e adolescenti sono rimasti chiusi in casa per mesi e i difetti alla vista sono aumentati di nuovo. Ma la pandemia è solo uno degli ostacoli alle ore all’aperto, a Taiwan come in altri contesti.
La tecnologia prova ad aggirare questi problemi proponendo strade alternative: Morgan, il ricercatore australiano, ha collaborato con la Cina per costruire aule con pareti di vetro, in modo da esporre i bambini alla luce del sole anche quando sono in classe. E ci sono nuovi trattamenti medici contro i disturbi della vista. Tuttavia, si tratta di soluzioni costose che non funzionano per tutti. Alcuni oculisti avvertono che la vista cattiva, come i denti storti, diventerà un marchio di disuguaglianza. Per questo, dicono, la prevenzione della miopia dovrebbe essere una grande campagna finanziata con fondi pubblici, come quelle che incoraggiano le persone a smettere di fumare o a fare esercizio fisico.
Questo articolo è tratto dalla newsletter Doposcuola. Ci si iscrive qui.