La più grande università tedesca, che i tedeschi non conoscono
Qual è la più grande università tedesca, quella che conta più studenti? Non è Heidelberg, l’ateneo più antico del paese (anno di fondazione 1386), che ha quasi 30mila iscritti. Non è la Humboldt o la Freie Universität di Berlino, entrambe sui 38mila. Non è neanche uno dei prestigiosi centri di ricerca di Monaco di Baviera, né un istituto di Amburgo, Colonia o Francoforte. La più grande università della Germania si trova a Erfurt, in un edificio anonimo sulla circonvallazione Juri Gagarin: è l’Iu, Internationale Hochschule. Molti tedeschi non ne hanno mai sentito parlare, eppure in dieci anni questa scuola è passata da poche migliaia a più di 100mila studenti.
La crescita astronomica non è la sua unica caratteristica. L’Iu non ha corsi a numero chiuso, non fissa scadenze per le domande di ammissione e accetta anche chi non ha un diploma, chiedendogli solo di superare un test. Cosa forse più importante, è un’impresa a scopo di lucro: mentre le università pubbliche tedesche sono praticamente gratuite, chi desidera frequentare questo ateneo deve versare tra i 220 e i 750 euro al mese a seconda dell’indirizzo. Quest’anno l’amministrazione stima un fatturato di quasi 500 milioni di euro.
L’Iu è nata nel 1998 con l’ingombrante nome di Internationale Fachhochschule Bad Honnef, nell’omonima cittadina sul Reno, ma è decollata vent’anni dopo, quando è stata comprata da una società finanziaria londinese impegnata su molti fronti (la Oakley Capital, che ha investito nelle aziende più diverse, come l’italiana Alessi e l’agenzia d’incontri tedesca Parship) e ha scommesso sull’insegnamento online.
Lo slancio della scuola e la sua fiducia nella tecnologia sono impersonati al meglio da Sven Schütt, che l’amministra dal 2010. “È un momento esaltante per ripensare l’apprendimento”, dice alla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il vecchio ideale del metodo socratico, basato sul dialogo tra maestro e allievo, è stato una prerogativa delle costose università d’élite, spiega. “La tecnologia permette di democratizzare questo ideale, cioè di renderlo accessibile a tutti”.
La maggior parte delle persone iscritte all’Iu l’ha scelta per i corsi online. Ci sono più di trecento opzioni – da ingegneria meccanica a growth hacking (l’insieme di strategie finalizzate a ottenere più traffico online e utenti) e food management –, con varianti part-time per chi lavora. L’ateneo è su Instagram, su TikTok, ovunque. Un dipendente su cinque (cioè centinaia di addetti) si occupa di marketing. E l’università ha colto al volo anche le ultime possibilità offerte dell’intelligenza artificiale. Un chatbot (un software di apprendimento profondo che funziona come una chat, il più famoso è ChatGpt) fa da assistente durante le lezioni. “Da quando lo abbiamo introdotto, i corsisti fanno cinque volte più domande di prima”, afferma entusiasta Schütt. E che siano cento o centomila gli studenti ad assillare il software con domande, l’impatto sui costi è minimo. Gli algoritmi servono anche a progettare moduli didattici ed elaborare nuovi curricula.
Al di là che piaccia o meno, una realtà come l’Iu può ancora essere considerata istruzione superiore? L’ente che in Germania ufficialmente è incaricato di verificarlo, il Consiglio scientifico dell’istruzione superiore (Wissenschaftsrat), dice di sì. Ma suggerisce alla scuola delle modifiche: per esempio, dovrebbe dedicare più risorse alla ricerca, i corsi triennali dovrebbero essere meno specialistici e la supervisione sull’apprendimento va migliorata, perché al momento è “piuttosto bassa” (in media c’è un professore ogni 439 studenti, contro un rapporto di uno a 51 registrato nelle Fachhochschule, le università pubbliche professionali).
Non sappiamo se Schütt e i suoi referenti a Londra accoglieranno queste indicazioni. Dalle attività più recenti sembra che l’obiettivo sia un altro: espandersi. È stata aperta una seconda società, l’Iu Gruppe, con sede a Bruxelles, che ha inglobato due università private, una inglese e una canadese. All’Iu essere la più grande università della Germania non basta più.
Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.
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