Educare alle differenze è una rete di associazioni nata dieci anni fa per parlare a bambini, adolescenti e adulti di violenze di genere e prevenzione, e per offrire un’occasione di scambio su questi argomenti a tutte le persone che frequentano la scuola. Ce la raccontano Mariagrazia Salvador, che insegna all’istituto tecnico Aldini Valeriani, a Bologna; Selene Cilluffo, docente alla scuola di formazione professionale Acof-Olga Fiorini di Bergamo; e Giulia Selmi, ricercatrice in sociologia all’università di Parma e vicepresidente della rete.

(MS) Il mio anno scolastico è cominciato in salita, con due delle mie classi smembrate: gli studenti erano stati ridistribuiti in modo da avere meno sezioni. Ed erano solo i primi giorni di scuola. Ho tenuto duro, e a fine settembre sono andata al meeting di Educare alle differenze, che quest’anno era ospitato dall’istituto comprensivo Balilla-Imbriani, a Bari. Era la prima volta che partecipavo.

(SC) Per me invece la prima volta a Educare alle differenze risale a due anni fa, quando è stato organizzato nella mia città, Bergamo. Io non ho scelto di essere un’insegnante, mi sono ritrovata a fare questo mestiere perché ho dato la priorità ad alcune scelte personali. Ma seguire attivamente quelle due giornate mi ha motivata e mi ha convinto di quanto fosse utile e prezioso il mio lavoro. Sono andata a Bari con la voglia di rivedere le persone che mi hanno accompagnato in questa presa di coscienza: era la terza edizione che seguivo.

E poi sono felice che Educare alle differenze si tenga alla fine di settembre, qualche settimana dopo la ripresa delle lezioni: serve a fare il punto su dov’è la scuola, dove possiamo portarla e come arrivarci.

(GS) Do qualche riferimento per chi non ci conosce. Educare alle differenze è una rete di tredici organizzazioni, da Bergamo a Siracusa, molto diverse tra di loro, che si occupano (o esclusivamente o insieme ad altre attività) di educazione al genere e alle differenze e di contrasto alle violenze e alle discriminazioni. Da un lato funziona come osservatorio e gruppo di pressione sulle politiche educative che riguardano questi temi. Però è anche una comunità che raccoglie tutti coloro che lavorano intorno alla scuola: insegnanti, educatrici ed educatori, operatrici culturali, psicologhe. Da dieci anni, una volta l’anno, questa comunità si ritrova per due giornate di autoformazione gratuita, sempre in una scuola di una città diversa. Ci sono laboratori per condividere buone pratiche di lavoro con le diverse fasce d’età, presentazioni di libri, tavole rotonde… Il taglio, nonostante una pratica ormai consolidata, resta quello dell’auto-organizzazione e della formazione tra pari.

(MS) Appena arrivata a Bari ho sentito forte il senso di comunità. Sono stata accolta da un abbraccio di piacere intellettuale e fisico: le mie sinapsi hanno percepito il micelio denso di voglia di sapere. C’erano più di quattrocento persone, tutte consapevoli della centralità del ruolo che svolgono.

(MS) All’assemblea di apertura è stata presentata una sorta di libretto delle istruzioni per combattere le violenze di genere nelle scuole. Quello che mi colpisce di queste linee guida è la struttura: per ogni caso immaginato ci sono delle domande – come te ne accorgi? Cosa fare? E cosa non devi fare? – e delle risposte. In particolare, il “cosa fare” offre consigli, frasi che noi insegnanti possiamo usare quando una ragazza o un ragazzo ci racconta di aver subìto una violenza. Io mi sono trovata a dover gestire otto casi di abusi in famiglia, in una sola classe. Poter contare su uno strumento come questo è fondamentale.

(GS) È una cassa degli attrezzi che abbiamo costruito in quasi due anni, coinvolgendo insegnanti, dirigenti scolastiche, attivisti di associazioni lgbt+, movimenti femministi, centri antiviolenza e un gruppo di studenti della scuola secondaria. Il dialogo con loro ci ha permesso d’individuare le situazioni che un’insegnante potrebbe incontrare in classe e di elaborare dei suggerimenti su come agire, sia nel rapporto con le studenti e gli studenti sia in termini più istituzionali, proprio come presa di posizione della scuola. Le indicazioni su cosa non fare sono altrettanto necessarie, perché spesso certe azioni, anche se mosse dalle migliori intenzioni, producono l’effetto contrario. Abbiamo aggiunto poi un glossario per aiutare chi legge a districarsi nel linguaggio dei generi e della sessualità, e vari box di approfondimento su alcuni concetti.

Le linee guida parlano di violenze di/del genere, e questo plurale è molto importante, perché mette insieme la violenza maschile contro le donne, il bullismo verso studenti della comunità lgbt+ e la normatività di genere. Sono tre forme di violenza che hanno esiti concreti diversi ma che nascono dalla stessa matrice, dalla stessa cultura. L’aggettivo corretto, per quanto un po’ respingente, per definire questa cultura è “eterocispatriarcale”, perché l’idea su cui si fonda è che ci siano dei soggetti – le donne, le persone trans, i gay, le lesbiche, le persone non binarie – che hanno meno potere e meno valore. In poche parole, meno diritto di vita. E non si tratta di dimensioni frammentate: non ci sono un sistema per le donne, uno per gli uomini, uno per l’omosessualità, uno per gli individui trans. Le diseguaglianze sono connesse. Perciò si dice che la violenza è, per usare una parola molto ripetuta in questo periodo, intersezionale.

(MS) Sono cose su cui gli insegnanti vanno educati. A Bari, dopo l’assemblea e il pranzo condiviso, ci siamo dedicate alla formazione. Si potevano fare vari laboratori, come ha spiegato Giulia. Io ne ho seguito uno sulla prevenzione dell’omotransfobia in classe e un altro sul consenso e sul body shaming (la discriminazione di una persona per il suo aspetto fisico). Non ci avevo mai pensato, ma nelle antologie del biennio non ci sono testi con protagonisti omosessuali, o sono molto rari. A me non è mai capitato di trovarne. Mi ha affascinato anche il concetto di body neutrality, per cui è meglio concentrarsi su quello che il corpo può fare, invece che fissarsi su come appare. Altra piccola rivoluzione. E ho capito la differenza tra coming out e outing: fare outing vuol dire svelare l’identità di genere o l’orientamento sessuale di qualcuno senza il suo consenso.

(SC) Io ho partecipato ai laboratori dedicati agli adolescenti. Anche se l’argomento della violenza è complesso, affrontarlo non mi ha messo a disagio. Vorrei che le mie studenti e i miei studenti si sentissero così in classe. Forse educare alle differenze significa questo: cambiare prospettiva, mettersi nei panni dell’altra o dell’altro, sfidare i propri privilegi, cercando di comprendere e supportare chi si ha davanti senza giudicarlo.

(GS) L’esperienza dei laboratori serve moltissimo anche ai ragazzi e alle ragazze. Gli permette di nominare alcune dimensioni, di parlare d’identità, sessualità, di relazioni, di amore, ma anche di controllo, di violenza, di paura. Sono spazi molto preziosi, soprattutto nell’adolescenza. Con l’osservatorio abbiamo visto che funzionano veramente come detonatori di cambiamento. Cambiamento non significa insegnare agli studenti e alle studenti un modo giusto di stare al mondo, ma dargli delle occasioni per riflettere in maniera critica sulla realtà, e su se stessi. È chiaro che qualche ora di laboratorio non basta, e che quello che serve è una classe docente formata.

(MS) A Bari ho scoperto che la legge italiana parla esplicitamente di “educazione alle differenze e alle pari opportunità”, e che lo fa anche la normativa europea: è stata un’epifania, perché io ho sempre avuto paura di affrontare questi temi in classe.

(SC) Aggiungo che qualche giorno fa, il 21 novembre, le linee guida di Educare alle differenze sono state presentate in senato. È una cosa che mi rende molto fiera.

(GS) In Italia non c’è una legge quadro, nel senso che non abbiamo una norma, per esempio, sull’educazione sessuale. Dagli anni settanta in poi sono state presentate varie proposte ma nessuna è stata approvata. E non abbiamo neanche una legge organica sull’educazione al genere e alle differenze. Ma abbiamo la legge 107 del 2015 (la riforma Buona scuola), che, anche se in maniera abbastanza vaga, chiede agli istituti di ogni ordine e grado di contrastare le violenze e le discriminazioni e promuovere le pari opportunità. Abbiamo delle linee guida sull’educazione al rispetto elaborate dal ministero dell’istruzione nel 2017. Abbiamo la convenzione di Istanbul, che l’Italia ha ratificato nel 2013 e che da ottobre è applicata in tutta l’Unione europea, in cui si cita anche il ruolo dell’istruzione e della prevenzione. Quindi le cornici normative ci sono, e chi lavora nella scuola è legittimato a proporre delle attività sul tema, anzi, deve farlo.

È una sua responsabilità. L’educazione alle differenze non è una materia, come può essere educazione ambientale o quella stradale. È un modo di porsi nella relazione con gli studenti e le studenti, si riflette nella scelta del linguaggio che si usa a lezione, del materiale didattico e dei libri di testo. Forse si possono identificare all’interno delle scuole delle figure, che magari sono più formate e conoscono i centri antiviolenza, le associazioni lgbt+, i servizi disponibili sul territorio, per coinvolgerle in caso di situazioni critiche. Ma dal punto di vista educativo, la responsabilità è trasversale. Va dai bidelli al dirigente scolastico.

(MS) Quando sono tornata a scuola, il lunedì mattina, ho appeso in aula insegnanti il glossario sulle violenze di/del genere che avevo preso a Bari. Una collega era entusiasta, mi ha detto che avere quel cartellone era un incoraggiamento. Ci siamo scambiate un sorriso.

Questo testo è tratto dalla newsletter Doposcuola.

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