La rotta balcanica non è mai stata chiusa
La polizia di frontiera bulgara il 2 gennaio ha ritrovato il corpo di una donna di origine somala a Ravadinovo, nel sud della Bulgaria. Era morta per il freddo mentre percorreva la rotta balcanica. Il giorno precedente la polizia aveva arrestato 31 profughi nella stessa zona, e due di loro, due somali di 14 e 16 anni, erano stati ricoverati in ospedale perché presentavano sintomi di assideramento.
Il 3 gennaio un profugo afgano di vent’anni è morto di ipotermia a Didymoteicho, dopo aver provato ad attraversare il fiume Evros, il confine naturale tra la Grecia e la Macedonia, una zona dove le temperature sono scese a 14 gradi sotto zero.
Il 6 gennaio due iracheni di 28 e 35 anni sono morti assiderati in un bosco sul massiccio dello Strandža, nel sud della Bulgaria, al confine con la Turchia. Probabilmente sono stati sorpresi da una tempesta di neve mentre provavano ad attraversare la frontiera.
In teoria la rotta balcanica è chiusa dal marzo del 2016, quando l’Unione europea ha stretto un accordo con la Turchia per fermare l’arrivo dei profughi sulle coste greche. Per alcuni, come la Germania e la Svezia, l’accordo ha funzionato e il numero dei profughi arrivati nel 2016 è drasticamente calato rispetto all’anno precedente. Tuttavia centinaia di persone hanno continuato a utilizzare questo percorso per raggiungere l’Europa nordoccidentale, affidandosi a trafficanti senza scrupoli e percorrendo sentieri pericolosi e impervi nel corso di uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni. Secondo alcune stime, i profughi bloccati lungo la rotta balcanica sono al momento centomila.
Secondo l’organizzazione Save the children, ogni giorno arrivano in Serbia tra le ottanta e le cento persone, nonostante la chiusura dei confini. Sulle isole greche approdano ogni giorno una cinquantina di profughi provenienti dalla Turchia, che vanno ad aggiungersi ai sedicimila che già si trovano negli hotspot sulle isole. Da questi dati emerge che la rotta balcanica è tutt’altro che chiusa, nonostante la costruzione di muri, recinzioni e reti di filo spinato a difesa dei confini.
Un lungo inverno
“A Belgrado è cominciato a nevicare il 3 gennaio. In quei giorni c’erano circa 1.600 persone che dormivano all’aperto o in edifici abbandonati come capannoni industriali, bruciando tutto quello che trovavano per scaldarsi”, racconta Andrea Contenta di Medici senza frontiere (Msf), che si trova in Serbia.
“Lo scorso fine settimana le temperature hanno raggiunto i meno 16 gradi e il numero di persone bloccate a Belgrado è salito a duemila”, aggiunge Contenta. “Ora qui ci sono trenta centimetri di neve e nessuna di queste persone è vestita o attrezzata per questo clima. Le autorità locali a novembre avevano cominciato a intimidire i gruppi di volontari, arrivando addirittura a ostacolare il loro lavoro, come la distribuzione dei vestiti”, racconta Contenta. Msf ha registrato sette casi di lesioni da congelamento nella capitale serba negli ultimi giorni.
Sono state registrate almeno mille deportazioni lungo la rotta balcanica solo a novembre
Più di ottomila persone sono bloccate in Serbia, in campi sovraffollati e insediamenti informali. Il paese, che non fa parte dell’Unione europea, ha stretto un accordo con l’Unione per ospitare fino a seimila persone, ma solo 3.140 vivono in strutture che possono essere considerate adatte al clima invernale.
A Belgrado circa duemila ragazzi, tra cui molti minori, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan, dall’Iraq e dalla Siria dormono in edifici abbandonati come la vecchia stazione ferroviaria del centro della città, mentre le temperature sono scese a 20 gradi sotto zero. Sono senza prospettive.
Attraversare in maniera legale il confine con l’Ungheria è una prospettiva remota, Budapest fa passare solo 15 profughi al giorno dalla Serbia. Attraversare illegalmente è l’unica possibilità, ma il rischio è di essere arrestati e respinti alla frontiera dalla polizia ungherese. Molti non vogliono fare richiesta d’asilo e registrarsi nei campi in Serbia perché temono di essere deportati in Bulgaria o in Macedonia.
Lo scorso 4 novembre il ministero del lavoro serbo ha diramato un comunicato a tutte le ong vietando di distribuire cibo, coperte e vestiti ai migranti che vivono fuori dei campi governativi, aggravando le condizioni di vita di queste persone, che nella maggior parte dei casi sono rimaste senza mezzi di sussistenza, perché hanno finito i soldi messi da parte per affrontare il viaggio verso l’Europa.
Intanto le organizzazioni umanitarie continuano a documentare le deportazioni di profughi dalla Serbia verso la Bulgaria e la Macedonia. Secondo l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr) sono state registrate almeno mille deportazioni lungo la rotta balcanica nel solo mese di novembre, cento delle quali dalla Serbia alla Macedonia.
L’ultimo caso è quello di una famiglia siriana, che si era registrata in Serbia per chiedere asilo e che il 18 dicembre è stata fatta salire su un autobus per essere trasferita in un campo nel nord del paese, ma poi è stata fatta scendere al confine con la Bulgaria, in un bosco dove la temperatura era di meno 11 gradi. La famiglia, composta da sette persone tra cui un bambino di due anni, ha dovuto camminare per un chilometro prima di essere soccorsa da un poliziotto allertato dall’associazione Info Park, a cui i profughi avevano chiesto aiuto.
Alle porte dell’Europa
La situazione è drammatica anche in Grecia dove da mesi migliaia di profughi vivono in ex capannoni industriali, in container e in tende, in attesa di essere ricollocati in altri paesi dell’Unione. “Le temperature sono scese sotto lo zero e nel campo non ci sono sistemi di riscaldamento. L’acqua è gelata e non possiamo lavarci e fare la doccia da giorni”, racconta Sameer, un ragazzo siriano di 23 anni originario di Idlib, che vive in un campo profughi a Nea Kavala, vicino a Salonicco, nel nord della Grecia.
“Qui ci sono donne e bambini e continua a nevicare, non abbiamo abbastanza coperte”, afferma Sameer che, insieme ad altri amici come Basil, un altro profugo siriano, realizza dei video che denunciano le condizioni di vita dei profughi in Grecia. “Abbiamo fatto l’intervista con le autorità per essere ricollocati mesi fa, ma non sappiamo che ne sarà di noi, non vediamo più un futuro”, continua.
Nel settembre del 2015 l’Unione europea aveva annunciato un piano per ricollocare 160mila richiedenti asilo dall’Italia e dalla Grecia verso gli altri paesi dell’Unione in base a un sistema di quote. Ma diciotto mesi dopo, solo 7.760 persone sono state trasferite dalla Grecia, sulle 66mila che avevano aderito al programma.
In un’inchiesta pubblicata nel dicembre del 2016 il giornalista Patrick Kingsley del quotidiano britannico Guardian aveva denunciato l’inadeguatezza dei campi profughi in Grecia e accusato il governo greco di non aver usato correttamente i 90 milioni di euro di fondi europei stanziati per costruire strutture in grado di accogliere dignitosamente i profughi durante l’inverno.
“Le condizioni sono particolarmente dure nel campo Softex dove le tubature sono gelate, non c’è l’elettricità e il riscaldamento è incostante”, spiega in un comunicato Medici senza frontiere. Ma la situazione è difficile soprattutto nelle isole greche – a Lesbo, a Chio e a Samo – dove la maggior parte dei sedicimila profughi vive all’aperto o nelle tende, danneggiate dalla neve caduta negli ultimi giorni. “Le condizioni a Moria, il centro di detenzione a Lesbo, sono particolarmente gravi, con almeno quattromila persone che vivono in una struttura che ne dovrebbe ospitare solo duemila”, ha spiegato Andreas Ring dell’ong Save the children.
“La mancanza della volontà politica di offrire ai richiedenti asilo alternative sicure e legali per raggiungere altri paesi in Europa, compreso il ricongiungimento familiare, si traduce in una situazione drammatica. I rifugiati e i migranti che sono riusciti a sopravvivere ad anni di guerra, a violenze e a viaggi rischiosi, ora stanno morendo assiderati alle porte d’Europa”, ha dichiarato Ring.