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Il decreto Salvini ha favorito il “business dell’accoglienza”

Un migrante nel Cara di Castelnuovo di Porto, a nord di Roma, 23 gennaio 2019. (Vincenzo Pinto, Afp)

Grandi centri di accoglienza nelle mani di pochi enti gestori che in alcuni territori esercitano un vero e proprio monopolio: è quanto emerge dall’ultima parte del rapporto di Action Aid e di Openpolis, pubblicato il 16 febbraio, sugli effetti del primo decreto sicurezza entrato in vigore nell’ottobre del 2018, fortemente voluto dall’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. Il decreto, seguito da un nuovo capitolato di gara di appalto per la gestione dei centri di accoglienza, ha previsto un taglio considerevole della spesa e si è passati dai famosi 35 euro al giorno per persona a 19/21 euro al giorno per persona, un taglio che ha determinato un boicottaggio delle gare d’appalto da parte di molti enti gestori, che hanno denunciato l’insostenibilità del sistema.

Mentre a palazzo Chigi il 17 febbraio si discute di come cambiare i due decreti che portano il nome dell’ex ministro dell’interno, continuano a uscire rapporti sugli effetti nefasti delle due norme sull’immigrazione approvate dallo scorso esecutivo. La riforma, proposta al governo dalla ministra Luciana Lamorgese, dovrebbe riguardare il ripristino di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, che si dovrebbe chiamare permesso speciale, le norme sulla cittadinanza e l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, ma sembrerebbe che non ci siano invece riforme in vista per quanto riguarda il sistema di accoglienza ex Sprar/Siproimi, fortemente attaccato dallo scorso governo.

Il sistema di accoglienza dei richiedenti asilo, nato intorno al duemila, è sempre stato caratterizzato da un doppio binario: da una parte il sistema di accoglienza ordinario gestito dai comuni (ex Sprar, ora Siproimi), dall’altra il sistema straordinario (i centri di accoglienza straordinaria, Cas) gestito dalle prefetture, che è sempre stato preponderante: in Italia il 73 per cento dei richiedenti asilo vive in un Cas. Le differenze fondamentali sono due: il tipo di servizi offerti a fronte della spesa che è identica e le regole che i due sistemi seguono.

Il sistema ex Sprar/Siproimi (che dal 2019 accoglie solo chi ha già ottenuto la protezione e i minori) è sottoposto a una rendicontazione più rigida, standard di qualità più alti, offre servizi più articolati ed è gestito dagli enti locali che sono obbligati a spendere tutti i fondi ricevuti nel progetto, senza poter fare profitti. I Cas invece sono centri gestiti da privati, che ricevono i finanziamenti direttamente dal ministero dell’interno, di solito concentrano i richiedenti asilo in grandi strutture, con bassi standard di accoglienza e senza alcun obbligo di rendicontazione delle spese.

Dal 2014 si era deciso d’investire sul sistema ex Sprar sia perché sembrava quello più efficace dal punto di vista dell’integrazione dei richiedenti asilo sia perché dotato di un meccanismo di controllo e coordinamento nazionale che evitava anomalie e la penetrazione della criminalità. Dal 2019, tuttavia, con l’entrata in vigore del primo decreto Salvini che prevede il ridimensionamento del sistema ex Sprar, la tendenza si è invertita e il sistema straordinario è diventato ancora più preponderante rispetto a quello ordinario, soprattutto in alcuni territori.

Esclusi gli enti non profit
“Il nuovo modello di accoglienza, per come emerge dalle regole e dal taglio dei costi previsti dal nuovo capitolato, penalizza l’accoglienza diffusa e privilegia i centri di grandi dimensioni e i grandi gestori”, afferma il rapporto di Action Aid e di Openpolis. Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e presidente del Consorzio italiano di solidarietà di Trieste, spiega che le regioni italiane hanno reagito in maniera molto disomogenea alle nuove regole: “Ci sono molte differenze tra i territori perché per fortuna in Italia c’è stato per tantissimi anni un percorso di consolidamento dell’approccio dell’accoglienza diffusa”.

Nelle zone in cui invece non si era ancora imposta l’accoglienza diffusa, il decreto sicurezza ha avuto un effetto rapido e dirompente: “Dove il sistema (ex Sprar) era fragile, dove convivevano nello stesso territorio una maggioranza di grandi centri a bassi standard e una minoranza di programmi di accoglienza diffusa con elevati standard di qualità, questi ultimi sono molto velocemente diminuiti, perché fagocitati e assorbiti dal modello dominante che ha rapidamente preso il sopravvento”.

Il nuovo capitolato ha previsto tagli importanti alla spesa per i centri straordinari e questo ha favorito gli enti gestori che hanno una maggiore capacità economica, le aziende e più in generale gli enti profit. Molti gestori hanno deciso di non partecipare ai bandi di gara per protesta, mandandoli deserti, ma in molti casi i più grandi e quelli profit hanno invece partecipato, accettando condizioni peggiorative, a scapito dei servizi offerti. L’attuale governo, attraverso una circolare del 4 febbraio, ha annunciato un’interpretazione migliorativa del nuovo capitolato, annunciando di portare la cifra stanziata dai 19/21 euro per persona ai 24 euro per persona al giorno. Per le organizzazioni dell’accoglienza che hanno boicottato i bandi di gara dopo il nuovo capitolato, l’interpretazione della circolare di Lamorgese non è sufficiente perché non incide sulla qualità dei servizi offerti e si pone in continuità con le regole del capitolato voluto da Salvini.

“Il meccanismo del grande centro e quello del grande ente tendono assolutamente ad andare di pari passo e con questo meccanismo viene favorito l’ente profit. Anche se i margini di guadagno sono irrisori l’ente profit, in alcune circostanze, può essere comunque interessato. Perché abbassando al massimo i costi e quindi fornendo un servizio pessimo può calcolare un utile anche piccolissimo ma che risulta poi significativo tenuto conto del numero elevato di ospiti. Inoltre in questo modo tiene un piede dentro al sistema in vista di un momento migliore in cui magari i margini di guadagno possono essere maggiori”, conclude Schiavone.

Nelle grandi città
A Milano il 64 per cento dei posti disponibili nell’accoglienza è dentro i grandi centri con più di cinquanta posti, a Roma addirittura l’83,5 per cento. A Milano già in passato erano ampiamente presenti grandi centri e grandi gestori e le nuove regole hanno contribuito a mettere ulteriormente in difficoltà l’accoglienza diffusa. Con la pubblicazione dei nuovi bandi molte associazioni e realtà del terzo settore hanno deciso di non partecipare alle gare ma, rispetto a quanto accaduto altrove, altre organizzazioni hanno colmato il vuoto. Undici organizzazioni si sono ritirate dalle gare di appalto, ma altre nove, che negli anni precedenti non facevano parte del sistema di accoglienza, si sono presentate alle gare per la gestione di due grandi centri: la Caserma Mancini (300 posti) e il Cas Aquila (270 posti).

Tra queste due enti gestori di grandi dimensioni: il Medihospes, che gestisce altri centri di accoglienza a Roma, e il Versoprobo, che si è aggiudicata la gestione del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di via Corelli di Milano. Altri quattro enti sono organizzazioni a scopo di lucro e senza una chiara missione sociale: Ospita Srl, Engel Italia Srl, Nova Facility e Ors Italia srl, una società svizzera attiva in Italia da pochi mesi e controllata da un fondo speculativo inglese. L’effetto di queste politiche è la restrizione dei servizi offerti e l’abbassamento degli standard: “I Cas sono diventati dei dormitori, gli operatori hanno una funzione di controllo molto rigida che limita fortemente la capacità degli ospiti di trovare un lavoro o svolgere qualsiasi altra attività all’esterno del centro”, spiega Emilia Bitossi dell’associazione Naga di Milano.

“Il rientro in ritardo nel centro può portare alla revoca anche immediata dell’accoglienza. E infatti le revoche sono aumentate in modo vertiginoso”, continua Bitossi. Inoltre alcuni servizi volti all’integrazione sono stati del tutto smantellati: “La figura dello psicologo è scomparsa del tutto. Il servizio medico è stato fortemente ridimensionato, la scuola d’italiano abolita così come le attività ricreative e la possibilità di fare corsi di formazione”.

Anche a Roma questo fenomeno è stato ancora più estremo, con la nascita di veri e propri monopoli nella gestione dell’accoglienza. A dicembre 2018 erano 17 i gestori dell’accoglienza a Roma, sette mesi dopo ne sono rimasti dieci, la maggior parte dei quali di grandi dimensioni, in termini di fatturato e presenza nel settore dell’accoglienza.

“Il caso più eclatante è sicuramente quello di Medihospes (già nota come Senis Hospes), uno dei maggiori operatori nazionali del settore che nel 2017 disponeva di 2.067 posti in accoglienza distribuiti in 15 province italiane, per i quali ha ottenuto pagamenti dalle prefetture per oltre venti milioni di euro. La crescita di questo gruppo è stata esponenziale negli ultimi anni e, secondo i dati della camera di commercio, il fatturato è passato da 42 milioni nel 2016 a 114 nel 2018”, spiega il rapporto.

Nel 2018 Medihospes (in collaborazione con Tre Fontane, altro grande gestore nazionale, dapprima considerata cooperativa ausiliaria e poi incorporata da Medihospes nel corso del 2018) amministrava già sedici centri nel territorio metropolitano di Roma. Queste strutture avevano una capienza variabile, tra i 50 e i 250 posti, e complessivamente offrivano il 37 per cento dei posti in accoglienza nel territorio. “Questa posizione, già dominante, si è rafforzata in maniera sostanziale nel 2019, portando Medihospes in una condizione di quasi monopolio sul territorio della capitale. A luglio infatti questa società deteneva quasi due terzi di tutti i posti in accoglienza”.

Per Fabrizio Coresi, esperto di immigrazione e relatore del rapporto per Action Aid, “monopoli e oligopoli nella gestione dell’accoglienza rischiano, in assenza di reale concorrenza, di indebolire la capacità di controllo e l’autonomia di scelta delle amministrazioni”. La situazione romana è emblematica delle distorsioni che sono state generate dal nuovo capitolato: “Ci chiediamo come sia stato possibile che la prefettura di Roma abbia permesso a un solo gestore di controllare più di due terzi dell’accoglienza, rischiando così di subirne condizionamenti, di indebolire la capacità di controllo e l’autonomia della prefettura stessa”, in un territorio che è già stato coinvolto in grossi scandali sull’accoglienza come quelli svelati dall’inchiesta Mondo di mezzo nel 2014.

Uno dei problemi inoltre è che non esiste un sistema di monitoraggio delle gare di appalto e dei fondi destinati all’accoglienza: “Manca una pubblicità dei dati che riguardano l’accoglienza, abbiamo dovuto fare degli accessi agli atti per avere contezza di quello che sta succedendo sul territorio romano, il sistema è molto opaco, sembra in certi casi impenetrabile”, spiega Coresi.

Parlando al telefono, secondo quanto registrato da un’intercettazione, Salvatore Buzzi, numero uno della cooperativa 29 giugno e braccio operativo dell’organizzazione Mafia capitale, chiedeva: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. A sei anni da quell’inchiesta sembrerebbe che Roma non si sia dotata di nessuno strumento per evitare di alimentare distorsioni e fenomeni di corruzione nella gestione dell’accoglienza, a scapito della stessa amministrazione, ma soprattutto dei richiedenti asilo che si trovano sempre più spesso a vivere in condizioni di difficoltà, senza servizi e con alte probabilità di finire per strada.

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