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Siamo pronti per la fase due?

Via dei Fori Imperiali, Roma, 21 aprile 2020. (Antonio Masiello, Getty Images)

Il presidente del consiglio italiano Giuseppe Conte il 21 aprile ha annunciato che il governo sta lavorando a “un piano ben strutturato e articolato” che permetterà “l’allentamento” delle limitazioni agli spostamenti e alle attività produttive in vigore in Italia dal 9 marzo. Secondo i dati forniti dalla protezione civile, infatti, la situazione dell’epidemia in Italia è stabile.

Nonostante le molte vittime e le fluttuazioni dei nuovi casi positivi e dei malati, il calo delle persone ricoverate, gravi e meno gravi, e l’aumento dei guariti sono segnali rassicuranti. Per questo negli ultimi giorni si è cominciato a parlare con insistenza della riapertura delle attività produttive nel paese che dovrebbe cominciare il 4 maggio. I dettagli di quella che viene definita “fase due” dovrebbero essere annunciati entro il fine settimana, ma l’idea di fondo è che bisognerà convivere a lungo con il nuovo coronavirus provando a tenerlo sotto controllo per evitare un nuovo picco di contagi dopo la riapertura. Uno scienziato americano ha detto che ci troviamo nella situazione di aver raggiunto “il salvagente, senza sapere precisamente come raggiungere la riva”.

Per il presidente del consiglio servirà “una revisione del modello organizzativo del lavoro, delle modalità del trasporto pubblico e privato e di tutte le attività connesse”. Il premier ha poi annunciato che le mascherine e qualche forma di distanziamento sociale saranno necessarie ancora per molto tempo, fino all’individuazione di un vaccino in grado di proteggere la popolazione dal virus.

Riapertura su base regionale
Conte ha ribadito che la riapertura non ci sarà prima del 4 maggio, giorno successivo alla data annunciata per la fine delle misure d’isolamento in Italia e ha smentito la possibilità di una riapertura anticipata, su cui invece puntavano alcuni governatori regionali. Sul fronte economico, il premier ha detto che ci sarà un nuovo decreto a fine aprile, che prevederà ulteriori misure a sostegno dell’economia con lo stanziamento di cinquanta miliardi di euro.

Il piano della “fase due” prevederà delle linee guida nazionali, elaborate dagli esperti, ma di cui il governo si assumerà la piena responsabilità politica. Come anticipato nei giorni scorsi anche dal ministro per lo sviluppo economico Stefano Patuanelli, non si esclude una riapertura differenziata e graduale su base regionale, che di conseguenza vieterà gli spostamenti da una regione all’altra. “Stiamo elaborando un programma di progressive aperture omogeneo su base nazionale che ci consenta di riaprire buona parte delle attività produttive e commerciali tenendo sotto controllo la curva del contagio, in modo da intervenire nel caso successivamente si rialzi oltre una certa soglia”, ha detto Conte.

Questa soglia “non pensiamo debba essere formulata in termini astratti, ma vogliamo sia commisurata alla specifica ricettività delle strutture ospedaliere delle aree di riferimento”, ha chiarito Conte. Le scuole, invece, quasi certamente resteranno chiuse fino a settembre. Le università intanto stanno ipotizzando lezioni a distanza fino a gennaio 2021, mentre si pensa a un’apertura scaglionata di fabbriche e uffici, che dovranno seguire delle regole per la sicurezza, alle aziende potrebbe essere chiesta una sorta di autocertificazione sulla presenza dei dispositivi di sicurezza. Ma cosa consigliano gli esperti? Siamo pronti alla cosiddetta fase due? E quali errori dovrebbero essere evitati per scongiurare un nuovo picco di contagi?

Tenere sotto controllo la malattia

Ci sono diversi modelli di fase due, ma tutti i paesi stanno cercando di seguire le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che ha individuato sei misure da adottare per evitare che tornino ad aumentare i contagi e i morti: l’epidemia deve essere tenuta sotto controllo con focolai ben circoscritti e serve una capacità sanitaria superiore al fabbisogno; tutte le strutture sanitarie devono essere preparate a gestire l’epidemia ed essere in grado di individuare, testare, isolare e monitorare per almeno quattordici giorni tutti i casi di Sars-cov-2; è necessario minimizzare i rischi di contagio negli ospedali e nelle residenze per anziani considerati entrambi ambienti ad alto rischio; in tutti i posti di lavoro devono essere introdotte delle misure di sicurezza che implicano il distanziamento sociale, il rilevamento della temperatura corporea all’ingresso e all’uscita, l’uso di mascherine e di dispositivi di sicurezza, e il lavaggio frequente delle mani; infine si deve essere in grado di tracciare e isolare i casi positivi, e tutta la comunità dev’essere responsabile e concorrere alla gestione dell’epidemia adottando comportamenti responsabili.

Per Pierluigi Lopalco, docente di igiene all’università di Pisa e coordinatore della task force per le emergenze epidemiologiche della regione Puglia, per entrare nella fase due “servirebbe che almeno quattro o cinque degli indicatori previsti avesse un valore soddisfacente rispetto a uno standard”. Lopalco sostiene che prima di allentare l’isolamento bisognerebbe determinare alcuni standard: “Quanti tamponi per mille abitanti si riescono a fare in una settimana? Quanti tamponi sul totale risultano positivi? Qual è la quota di casi di covid-19 registrati dal sistema di sorveglianza di cui non si conosce l’origine? Quanti focolai di trasmissione sono ancora aperti? Qual è la quota di casi covid-19 che vengono segnalati per la prima volta quando sono già gravi? Esiste un sistema di sorveglianza di ‘tosse e febbre’ diffuso sul territorio attraverso pediatri di famiglia e medici di medicina generale che segnali precocemente eventuali focolai epidemici? Esiste un sistema di allerta che in tutti gli ospedali del territorio sia in grado si segnalare un eccesso di ricoveri di malattia respiratoria acuta grave?”. Fino a quando non si risponderà con precisione a queste domande sarebbe meglio non uscire dall’isolamento, perché il rischio, come avvenuto in altri paesi, è che il virus torni a diffondersi.

Trieste, 14 aprile 2020.

Secondo diversi studi, è verosimile che dopo l’allentamento delle misure d’isolamento, torni a salire il numero dei contagi, come sta avvenendo in alcuni paesi asiatici già entrati nella fase due, e questo prefigura una serie di aperture e chiusure, il cosiddetto stop and go. Al momento, infatti, il contagio può essere contrastato soltanto attraverso la reintroduzione delle misure restrittive. Per quanto queste norme possano risultare drastiche, i tempi per il ritorno alla normalità restano dettati dalle dinamiche dell’epidemia stessa. Uno studio pubblicato su Science il 14 aprile da alcuni ricercatori di Harvard ritiene che, per come stanno le cose oggi, negli Stati Uniti le misure di distanziamento sociale potrebbero essere necessarie fino al 2022.

Come spiega Paolo Vineis, professore ordinario di epidemiologia ambientale all’Imperial college di Londra, su Scienza in rete, “la strategia di uscita non può prescindere dall’attivazione di un programma di sorveglianza attivo, che preveda anche il monitoraggio a distanza delle condizioni di salute della popolazione e un pronto intervento in caso di peggioramento. Attenzione particolare, per ogni strategia proposta, andrebbe prestata al tema delle disuguaglianze nella salute e nell’accesso alle cure”. Per l’epidemiologo, non è escluso che ci sarà un secondo picco in autunno e quindi sarebbe fondamentale anche rendere disponibili i dati sull’Italia all’intera comunità dei ricercatori.

Per Vineis, infatti, sarebbe importante capire, per esempio, perché la malattia ha avuto in Italia tassi di letalità così diversi: “Si dovrebbe comprendere in particolare che ruolo hanno giocato le diverse organizzazioni e risorse per le cure primarie sul territorio e le modalità di gestione dell’epidemia a livello regionale (Lombardia, Veneto, Emilia)”. Per lo scienziato, i tamponi e gli strumenti diagnostici vanno riservati all’identificazione dei sintomatici e dei guariti, quindi al personale sanitario, agli ospiti delle Rsa e ad altre fasce particolarmente fragili della popolazione e infine ai contatti dei positivi. Altre misure da prevedere per far avanzare il contrasto alla pandemia sono l’identificazione precoce dei focolai e l’uso delle tecnologie, unito al coordinamento dei sistemi informativi.

Differenze regionali

Secondo Nino Cartabellotta, presidente della fondazione Gimbe, la fase due “deve essere guidata da criteri scientifici oggettivi condivisi tra governo, regioni ed enti locali, tenendo in considerazione i rischi legati a cinque variabili: attività produttive, libertà individuali, mezzi di trasporto, rischio di specifici sottogruppi di popolazione in relazione all’età e patologie concomitanti, ed evoluzione del contagio nelle diverse aree geografiche”. La fondazione Gimbe ha elaborato un modello per monitorare l’evoluzione del contagio a livello regionale che si basa su due variabili: la prevalenza(casi totali ogni centomila abitanti, che misura la “densità” dei casi) e l’aumento percentuale dei casi totali (che misura la “velocità” con cui si diffonde il virus al livello locale).

“Questo valore è calcolato su un arco temporale settimanale, viste le notevoli fluttuazioni dei dati giornalieri”, precisa Cartabellotta. Nel modello disegnato da Gimbe le regioni del nord si posizionano quasi tutte nei quadranti rossi e gialli che indicano l’elevata prevalenza, ma presentano valori diversi di incremento percentuale. Il Friuli-Venezia Giulia è l’unica regione del nord che si colloca invece nell’area verde. Le regioni del centro sono quasi tutte nei due quadranti arancione e verde. Le Marche sono invece nell’area gialla. Infine tutte le regioni del sud si trovano nel quadrante verde a eccezione della Puglia che si posiziona nel quadrante arancione con un aumento percentuale del 18,1 per cento.

“In generale”, continua Cartabellotta, “la fotografia scattata a due settimane dalla possibile riapertura non è affatto rassicurante, perché gli incrementi percentuali negli ultimi sette giorni sono ancora molto elevati anche nelle regioni che si trovano nel quadrante verde, fatta eccezione per l’Umbria”. Per il presidente della fondazione Gimbe, valutazioni locali potrebbero portare a “improprie fughe in avanti che rischiano di danneggiare la salute pubblica”.

Tracciamento dei positivi e app

Il governo italiano ha annunciato che sta lavorando alla progettazione di un’applicazione, che si dovrebbe chiamare Immuni, per la gestione del tracciamento delle persone positive al Sars-cov-2. Finora il tracciamento dei positivi è avvenuto con questionari tradizionali, in cui gli operatori sanitari chiedevano al malato gli spostamenti fatti. Una prassi lenta e poco efficace, se si considera la rapidità con cui si diffonde il virus. Per questo sono state introdotte delle app, per esempio in Corea del Sud e a Singapore, per automatizzare il tracciamento dei contatti avuti dal paziente. Tuttavia le app sono già criticate dagli esperti anche perché è molto difficile garantire che non violino le norme sulla privacy. Il presidente Conte, durante l’informativa in parlamento, ha chiarito che scaricare l’app non sarà obbligatorio.

Enrico Di Rosa, direttore del Servizio igiene e sanità pubblica dell’Asl Roma 1, spiega che il tracciamento dei positivi “all’inizio era impegnativo, perché per ogni malato si trovavano anche dieci contatti tra lavoro, palestra, famiglia. Bloccando il paese, gli unici contatti veri e reali sono rimasti i familiari e questo ha semplificato il lavoro. La riapertura, quindi, la fase 2, dovrà essere gestita con grande cautela, con un utilizzo esteso delle mascherine in ogni luogo pubblico, con il distanziamento fisico, e anche avvalendoci della tecnologia e di sistemi di automazione che finora non avevamo. Ben vengano, dunque, le app come Immuni perché possono essere in grado di potenziare la capacità di risposta del nostro paese alla pandemia”.

La chiave del successo del cosiddetto modello Roma, secondo Di Rosa, “è aver messo in campo un’azione attiva di ricerca dei contatti dei contagiati: noi, come altre regioni, lo abbiamo fatto e abbiamo individuato molti casi. Questo perché non si sta solamente ad aspettare quelli che si rivolgono all’ospedale: con la ricerca attiva si può ‘scovare’ facilmente un numero elevato di persone con sintomi lievi e moderati gestibili a casa. All’inizio dell’emergenza questa era una necessità: si teneva il paziente a casa perché era difficile rivolgersi agli ospedali. Si fanno i tamponi, non più di quelli necessari, ma quelli che servono per trovare i casi lievi e consentirne una gestione domiciliare, a parte qualche caso da trasferire in ospedale. La Asl Roma 1 ne ha assistiti 350, tutti con un decorso più che tranquillo, a parte la febbre alta per molti giorni che spesso preoccupa il paziente”. Quando i pazienti, anche asintomatici, sono individuati devono essere messi in isolamento e questo comporta una serie di questioni, come la capacità delle regioni di fornire assistenza domiciliare e la possibilità di isolare i pazienti delle loro famiglie, usando anche degli alberghi.

Su Scienza in rete Rodolfo Saracci, ex presidente della International epidemiological association, spiega che la prima domanda che ciascun paese o regione dovrebbe farsi per passare alla fase due “è se la fase uno abbia raggiunto l’obiettivo di ridurre a zero, o quasi, i nuovi casi”. Non sembra che stia succedendo: le date delle riaperture, infatti, non sono accompagnate da obiettivi precisi sulle soglie da raggiungere. Per il ricercatore, la data dell’inizio della fase due dovrebbe dipendere dalla quantità massima di casi che una regione ha pianificato e annunciato di poter gestire e dalla sua capacità di condurre “le operazioni di rintraccia-e-isola”.

Per fare questo serve soprattutto personale qualificato negli ospedali e nel sistema di cura e prevenzione in generale: “Il personale è l’elemento critico di ogni strategia”, continua Saracci, “e non è un’applicazione come Immuni che può sostituirlo”, per quanto possa essere utile se perfezionata dal punto di vista sia informatico sia epidemiologico. Allo stesso modo, “non sono i test sierologici, anche quando pienamente validati (oggi non è ancora il caso), che possono sostituirsi al riconoscimento dei casi infetti per mezzo dei tamponi”. Per Saracci, se la fase due dovesse fondarsi soltanto su una campagna di distribuzione di app e di test sierologici su vasta scala, non riuscirebbe a evitare la nuova diffusione del virus.

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