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Qual è stato l’impatto della pandemia sui migranti

Migranti al lavoro nelle campagne di Casal di Principe, provincia di Caserta, aprile 2020. (Salvatore Esposito, Contrasto)

Secondo un nuovo studio pubblicato la scorsa settimana dall’Ocse, la popolazione straniera è più a rischio di contrarre il coronavirus o di soffrire di povertà a causa della pandemia. I migranti hanno il doppio delle probabilità di contrarre il virus perché molti di loro lavorano in settori considerati essenziali, e che quindi non possono essere interrotti, come la sanità, la vendita al dettaglio, le consegne e i lavori domestici.

Gli stranieri costituiscono il 24 per cento dei medici e il 16 per cento degli infermieri nei 36 paesi dell’Ocse, inoltre vivono spesso in case e in quartieri più affollati, osserva lo studio. E tra loro si è registrata, “un’incidenza di decessi sproporzionata anche nei paesi con accesso universale alle cure per il covid-19”. In Italia per gli stranieri la pandemia ha inoltre coinciso con il parziale fallimento della sanatoria per la regolarizzazione degli irregolari, ma anche con un aumento di odio e xenofobia alimentato dalla ricerca di un capro espiatorio, come ricostruito dal Dossier statistico immigrazione 2020, realizzato dal Centro studi e ricerche Idos in collaborazione con il centro studi Confronti, che sarà presentato il 28 ottobre.

Durante l’emergenza è stato registrato un aumento del 15-20 per cento di stranieri sfruttati nelle campagne, che corrisponde a 40-45mila persone, un peggioramento delle condizioni lavorative, un incremento sia dell’orario di lavoro (tra 8 e 15 ore giornaliere) sia del numero di ore lavorate e non registrate (20 per cento) e un peggioramento della retribuzione. Tutti effetti “dell’intreccio perverso tra la pandemia e il sistema dello sfruttamento dei migranti”, afferma Marco Omizzolo nel rapporto Idos. A questo si è aggiunto “l’aumento esponenziale dell’arrendevolezza” dovuto al clima emergenziale che ha spinto molti migranti sfruttati “a considerare se stessi come secondari rispetto ai destini degli italiani” e quindi a rinunciare spesso alle loro rivendicazioni per degli standard di sicurezza.

La regolarizzazione in Italia
Per quanto riguarda il lavoro domestico sono stati 13mila i posti di lavoro persi in questo settore durante la pandemia, che nel complesso impiega 850mila lavoratori. In seguito alla crisi sanitaria il governo italiano ha lanciato una regolarizzazione degli immigrati impiegati nell’agricoltura e nei lavori domestici e di cura. Secondo Gianfranco Schiavone dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), tuttavia, la nuova sanatoria per gli immigrati attivi nei settori dell’assistenza, del lavoro domestico e dell’agricoltura è stata una grande occasione mancata.

A fronte di 621mila lavoratori stranieri irregolari, sono arrivate solo 207mila domande di regolarizzazione (177mila nel settore domestico), in parte a causa dell’impostazione della norma, basata “quasi interamente sulla sola volontà del datore di lavoro di far emergere o meno il rapporto di lavoro irregolare”. Ma i numeri si spiegano soprattutto con l’esclusione di altri settori lavorativi come la ristorazione, il magazzinaggio, il commercio: una scelta di “gratuita crudeltà” , la definisce Schiavone, che ha tagliato fuori almeno 180mila persone.

Un “secco fallimento” è invece stata la regolarizzazione per la parte riguardante i migranti che avevano avuto in passato un percorso di regolarità: anche qui la rigidità dei criteri decisi ha impedito l’applicazione della norma e le sole 13mila domande raccolte lo dimostrano. Nel rapporto Idos Claudio Piccinini del Centro patronati fa inoltre emergere le difficoltà vissute nella gestione della ricezione delle domande di regolarizzazione, “un’area in cui sono spesso presenti situazioni di improvvisazione, quando non di lucro e sfruttamento”.

L’acquisizione della cittadinanza, anche durante la pandemia, è rimasta problematica: dopo che i decreti sicurezza del primo governo Conte hanno “irragionevolmente alzato l’asticella” dei requisiti per accedervi, infatti, i tempi per completare l’istruttoria per la naturalizzazione non sono più dieci anni di residenza in Italia, ma quattordici, “gli ultimi sette dei quali con un reddito costante difficile da mantenere anche per molti lavoratori italiani”.

Il rapporto Idos 2020 si occupa anche dell’odio contro i migranti che durante l’epidemia ha toccato dei picchi. Elena D’Angelo del Research centre on security and crime (Rissc) spiega come, a fronte di numerosi episodi di razzismo registrati in Europa, i migranti stiano invece “pagando il prezzo più caro per la pandemia, e rischiano ora e in futuro di essere tra i più esposti alla diffusione del virus”. Mentre sono stati indicati come “gli untori”, di fatto si sono trovati spesso nella posizione di essere doppiamente vittime.

Su questi aspetti si concentra anche il saggio sulla presenza straniera in Europa (41,3 milioni di persone pari all’8 per cento della popolazione, concentrate per tre quarti in soli cinque paesi compresa l’Italia) scritto per il rapporto Idos da Alessio D’Angelo dell’università di Nottingham. La pandemia, afferma il ricercatore, “ha messo in luce tutte le criticità e le insufficienze del sistema europeo in materia di migrazioni economiche e diritti”. Provvedimenti come la chiusura dello spazio Schengen, il blocco dei voli e le restrizioni sui movimenti hanno avuto un fortissimo impatto sia su alcune economie sia sugli stessi migranti. Ma soprattutto c’è stata la “scoperta” di come oltre il 30 per cento degli immigrati in età lavorativa sono classificabili come lavoratori essenziali.

Tra molte cattive notizie ce ne sono due positive per gli stranieri. Il decongestionamento delle carceri italiane, indotto non tanto dalle “timide” misure decise dal governo quanto da un certo “clima culturale”: il calo medio delle presenze in carcere è stato del 12 per cento, del 10,2 per cento per i detenuti stranieri. E infine durante la pandemia per la prima volta il governo italiano ha sottoscritto tredici protocolli insieme ai rappresentanti di altrettante fedi per regolare i vari aspetti legati alle pratiche religiose, assicurando la libertà di culto: un esperimento che ha avuto tra l’altro il merito di “prendere atto delle diversità religiose presenti nel paese”.

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