Come funziona il centralino per le donne vittime di violenza
“Da quanto tempo suo marito la tratta così?”, chiede l’operatrice. “Ci sono figli minori?”, continua a chiedere la ragazza, che prende appunti su una scheda davanti a un computer. Per le operatrici del 1522, il numero nazionale anti violenza e stalking, la prima cosa da capire è il grado di pericolosità della situazione in cui si trova la donna al telefono. Quando si accorgono che c’è poco tempo e la situazione è grave, possono chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, se la persona è d’accordo.
Ogni giorno arrivano settecento o ottocento telefonate, un numero più che raddoppiato dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e il ritrovamento del suo corpo in un bosco il 17 novembre. Le donne che hanno bisogno di aiuto e che chiamano possono contare su anonimato e riservatezza da parte delle operatrici.
Nella piccola stanza del centralino gestito dall’associazione Differenza donna nel centro di Roma, in un appartamento confiscato alla criminalità organizzata, ci sono cinque operatrici. Sono venti in tutto e fanno i turni per coprire 24 ore. Sono sedute una vicino all’altra davanti a dei computer, con dei separatori bianchi tra loro. Scrivono le storie di centinaia di donne e ragazze. Arrivano telefonate da tutta Italia, a qualsiasi ora.
Il servizio è stato introdotto in Italia nel 2006 e serve per aiutare le donne che si trovano in una situazione di violenza a uscirne. A volte questo significa intraprendere un lungo percorso di accompagnamento e di incontro con psicologhe, avvocate e operatrici specializzate nella violenza di genere. Altre volte questo primo passo conduce a denunce e processi.
“Di solito ricevevamo 250 telefonate al giorno, ma dal femminicidio di Giulia Cecchettin le chiamate sono aumentate fino a toccare le ottocento. C’è un prima e un dopo questo femminicidio”, racconta Elisa Ercoli, presidente di Differenza donna.
Chiamano le vittime di violenza, ma anche le amiche, le madri e le sorelle, che vogliono sapere come fare ad aiutare chi è maltrattata o subisce abusi da parte del partner. Chiamano o scrivono sulla chat dell’app. “Abbiamo avuto un crollo delle chiamate durante la pandemia di covid-19, seguito da una curva ascendente, anche grazie all’app”, continua Ercoli. “Per le donne che sono segregate in casa o in situazioni difficili, è più semplice chiedere aiuto con l’app”.
Chi chiama il 1522 è sempre più giovane, secondo le operatrici. Ed è sempre meno l’arco di tempo che separa il primo abuso dalla violenza più efferata. Ma anche la consapevolezza delle donne sta crescendo: chiedono aiuto prima di arrivare a situazioni drammatiche.
“Qualche anno fa ci contattavano dopo otto o dieci anni che subivano abusi dal partner”, spiega Arianna Gentili, responsabile del 1522. “Ora dopo due o tre anni. Molte di loro hanno figli piccoli”. Chiedono qual è il punto di non ritorno, il campanello d’allarme che non devono trascurare: “La risposta che diamo è quella di prestare ascolto ai segnali che manda il corpo. Se la loro relazione crea ansia, insonnia, sintomi psicosomatici, disturbi alimentari o se sono terrorizzate all’idea di arrivare cinque minuti in ritardo a un appuntamento, perché questo potrebbe scatenare la furia del compagno, allora si devono preoccupare. Quel segnale è già sufficiente: abbiamo il diritto di stare in relazioni che ci fanno stare bene, che ci fanno sentire sicure”.
Eredità e cambiamenti
Dopo il ritrovamento del corpo di Giulia Cecchettin e la giornata nazionale contro la violenza sulle donne il 25 novembre, le chiamate non si sono fermate. “Molte ci dicono: ‘Ho fatto di tutto, le ho provate tutte per tenere in piedi la relazione’”, spiega Gentili, aggiungendo che l’allarme non scatta alle prime manifestazioni di violenza psicologica o alle prime avvisaglie.
“Le donne sono educate da millenni a coltivare i rapporti e a tenerli in vita a qualsiasi costo, sono quelle a cui la cultura tradizionale assegna il ruolo di cura. Vivono ancora con il senso di colpa la decisione d’interrompere un rapporto, così sopportano per anni di stare in relazioni con uomini violenti e che abusano di loro”. Questo retaggio è ancora molto presente, ma le cose stanno cambiando.
“Dobbiamo ricordare che la violenza serve agli uomini per ribadire una gerarchia, è un fatto sistemico”, continua Ercoli. La sua radice è lo squilibrio di potere tra i sessi: una disuguaglianza che in Italia resiste, nonostante i cambiamenti che ci sono stati nella società. Una donna su due non lavora, il 40 per cento delle italiane non ha un conto in banca. Siamo agli ultimi posti in tutte le classifiche europee sulle discriminazioni.
“Il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha toccato molto, anche perché ci ha mostrato che la violenza non riguarda solo qualcuno che è lontano da noi, che non ha avuto le possibilità economiche o accesso all’istruzione. Questo ormai non è più possibile pensarlo: la violenza sulle donne ci riguarda da vicino”, afferma la presidente di Differenza donna.
L’Istat dice che una donna su tre in Italia è stata vittima di violenza. Ma il 90 per cento delle violenze rimane sommerso, secondo le esperte. “Ci immaginiamo le vittime sempre come fragili, indifese. Ma non è così. Spesso sono colpite dalla violenza le donne più forti ed emancipate. E poi invece non parliamo mai degli uomini maltrattanti, ce li immaginiamo come dei mostri. Ma Filippo Turetta ci ha mostrato che sono delle persone comuni, vicine”, chiarisce Gentili.
Il contesto tuttavia è quello di un’arretratezza del paese sulle discriminazioni e la disuguaglianza di genere: “Le donne italiane sono ancora in molti casi dipendenti economicamente dai loro compagni, ma non solo. In Italia il lavoro di cura della casa, dei figli, dei genitori anziani è ancora tutto sulle loro spalle. La cura di sé e degli altri non è considerata un fattore di autonomia e d’ingresso nell’età adulta, come negli altri paesi europei. Ma come un compito prettamente femminile, che gli uomini non vogliono assumersi, se non marginalmente”, aggiunge Gentili.
Inoltre, gli uomini ricevono ancora un’educazione sentimentale tradizionale: “Non sono educati a parlare dei loro sentimenti e delle loro emozioni, sono proiettati solo nello spazio pubblico. Fanno un’enorme fatica ad affrontare la loro vulnerabilità”, continua l’esperta. Questo tipo di educazione resiste nel paese e si esprime in alcuni particolari: “I giocattoli oppure i vestiti per i bambini, che sono ancora caratterizzati da stereotipi”. E anche nel linguaggio: “Diciamo ancora frasi che sminuiscono l’intelligenza delle donne e la loro autonomia. Fin da quando sono bambine. Non siamo ancora al punto di avere cancellato queste frasi e questi stereotipi dal linguaggio. E invece questo dovrebbe essere il nostro contributo, quello della collettività alla battaglia contro la violenza sulle donne”, continua Gentili.
Uno strumento
Intorno al 2000 i centri antiviolenza italiani hanno ripreso dal Canada un sistema di misurazione della violenza, il metodo Sara (Spousal assault risk assessment), che permette in parte di valutare il grado di pericolosità della situazione in cui si trova una donna che chiede aiuto.
“È uno strumento molto importante perché serve a misurare l’escalation della violenza. In primo luogo è uno strumento che aiuta la magistratura ad applicare le misure cautelari e serve a strutturare delle forme di protezione efficaci. Qualche anno fa si chiedeva alle donne di denunciare e basta, il prima possibile. Ma è importante insistere sul fatto che le donne devono prima entrare in un sistema di protezione (per esempio rivolgendosi a un centro antiviolenza) e poi eventualmente denunciare il loro maltrattante (chi abusa di loro/chi commette una violenza contro di loro). Perché altrimenti rischiano di esporsi a un pericolo ancora più grande”, spiega Ercoli.
Il metodo Sara, adottato anche dalle forze dell’ordine, mostra che c’è sempre un crescendo nelle violenze. “È scientificamente provato che la curva è ascendente: sale nel momento in cui i gesti violenti aumentano d’intensità e gravità, e aumenta la frequenza nel tempo”.
Dopo la prima telefonata al 1522, si decide insieme alla donna come intervenire. Spesso il consiglio è di contattare il centro antiviolenza più vicino o, nei casi più estremi, una casa rifugio.
“Le donne hanno bisogno di entrare nel sistema di protezione e solo in seguito scegliere cosa fare. Le spingiamo ad andare a fare dei colloqui nel centro, questo serve loro a chiarirsi le idee. Grazie al lavoro delle operatrici possono ricostruire la memoria traumatica della violenza subita. Una cosa non facile, che richiede tempo”, spiega Ercoli.
Dal 2013 lo stato è obbligato a garantire la protezione alle donne che hanno subìto violenze. “Ogni centro antiviolenza ha operatrici esperte e poi psicologhe e avvocate. C’è un approccio multidisciplinare. I centri antiviolenza sono di parte, è il tentativo di controbilanciare una società che anche all’interno dei tribunali perpetra discriminazioni e pregiudizi. Anche i giudici o gli avvocati infatti spesso banalizzano o minimizzano la violenza di genere”, spiega ancora Ercoli.
Ma nonostante un sistema sempre più diffuso, ci sono enormi criticità: troppi pochi posti nelle case rifugio che servono a garantire autonomia e sicurezza alle donne che scappano di casa, una presenza disomogenea dei centri antiviolenza sul territorio italiano e poi continui ritardi nell’assegnazione dei fondi a queste strutture, che fanno ampio ricorso al volontariato.
“I soldi arrivano sempre in ritardo e in alcune regioni sono troppo pochi. Alcune possono contare solo su 30mila euro all’anno per i centri antiviolenza, una cifra assolutamente ridicola”, spiega Ercoli.
Secondo l’Istat, che ha pubblicato nuovi dati il 24 novembre, nel 2022 in Italia i centri antiviolenza erano 385, il 3,2 per cento in più rispetto al 2021, il 37 per cento in più rispetto al 2017. In queste strutture lavorano 5.916 operatrici, ma nel 48,7 per cento dei casi sono volontarie, anche se sono formate dagli stessi centri.
Nel 2022 le donne che hanno contattato almeno una volta un centro antiviolenza sono state 60.751, in aumento del 7,8 per cento rispetto al 2021 e del 39,8 per cento rispetto al 2017.
“Dobbiamo puntare molto sulla protezione, ma anche sulla prevenzione. Per ora su quest’ultimo aspetto non abbiamo investito nulla. Bisogna cambiare la mentalità delle persone, nel profondo. Dobbiamo fare anche questo, perché la violenza ha radici culturali”, conclude Ercoli, mentre sul telefono le arriva la notizia dell’ennesimo femminicidio. Una donna di 66 anni, Meena Kumari, è stata uccisa a Salsomaggiore, dopo essere stata picchiata dal marito con una mazza da cricket. È la vittima di femminicidio numero 110 dall’inizio del 2023. “Il prefetto di Padova dice che i femminicidi sono stati solo quaranta quest’anno. Si vuole negare l’evidenza. Ecco, dobbiamo ancora lottare perché siano riconosciute le basi di questa violenza”, conclude Ercoli.