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La morte atroce del bracciante Satnam Singh

Latina, manifestazione della Cgil contro il caporalato, lo sfruttamento, il lavoro nero e per chiedere giustizia per la morte di Satnam Singh. (Alessandro Serranò, Agf)

“Sono atti disumani che non appartengono al popolo italiano”, ha commentato la premier Giorgia Meloni, dopo giorni di silenzio. Si riferiva alla morte di Satnam Singh, il bracciante di origine indiana morto all’ospedale San Camillo di Roma il 19 giugno, due giorni dopo essere stato abbandonato dal suo datore di lavoro davanti alla casa in cui abitava in provincia di Latina. Un macchinario dell’azienda agricola in cui lavorava in nero gli aveva tranciato un braccio e rotto le gambe, mentre faceva la raccolta dei meloni. Davanti a casa, insieme all’uomo agonizzante e alla moglie, è stato lasciato anche il braccio mozzato in una cassetta della frutta.

Secondo i risultati dell’autopsia, resi noti il 24 giugno, Singh sarebbe morto per l’emorragia e si sarebbe probabilmente potuto salvare se i soccorsi fossero stati chiamati prima. Infatti, dal momento dell’incidente a quello della chiamata al 112 sarebbe passata almeno un’ora e mezza.

Satnam Singh, 31 anni, non aveva il permesso di soggiorno e veniva sfruttato nell’azienda Lovato, insieme alla moglie, almeno dodici ore al giorno, senza un regolare contratto. Dopo la morte del bracciante, alla moglie è stato concesso un permesso di soggiorno dal governo italiano.

Da cinque anni l’azienda Lovato era sotto indagine per caporalato: secondo le accuse usava manodopera straniera per pochi euro al giorno, senza ferie né riposi e con orari di lavoro superiori a quelli consentiti dalla legge.

Meloni ha parlato di “atti disumani che non appartengono al popolo italiano”, ma secondo l’ultimo rapporto Agromafie e caporalato della Cgil un quarto di tutti i braccianti, cioè circa 230mila persone, sono sottoposti a sfruttamento nelle campagne italiane.

Anche il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida, cognato di Meloni, ha parlato di un caso isolato che non riguarderebbe tutta la filiera agricola e ha dato la colpa a “un criminale”. Ma le inchieste per caporalato in Italia riguardano diverse decine di aziende.

Il 22 giugno i sindacati hanno proclamato uno sciopero di due ore e circa cinquemila persone hanno manifestato davanti alla procura di Latina, chiedendo giustizia per Singh. Tra loro moltissimi braccianti di origine sikh che vivono in condizioni di sfruttamento: lavorano fino a 14 ore al giorno e con una paga che va da 3 a 4,5 euro all’ora. Secondo i sindacati, nelle circa diecimila aziende agricole della provincia di Latina sono impiegati più o meno undicimila braccianti, ma in realtà sarebbero di più, fino a trentamila, costretti a lavorare in nero perché privi del permesso di soggiorno.

In Italia, a causa della legge sull’immigrazione in vigore – la Bossi-Fini del 2002 – è impossibile per uno straniero già presente sul territorio italiano ottenere un permesso di soggiorno per lavoro. La norma consente solo pochi ingressi regolari all’anno in base a un sistema di quote, che tuttavia non sono sufficienti a rispondere alle necessità del mercato del lavoro e che di fatto crea irregolarità e sfruttamento.

La storia di Satnam Singh fa venire in mente quella di Jerry Masslo, il bracciante sudafricano ucciso nel 1989 nelle campagne di Villa Literno mentre era impegnato nella raccolta dei pomodori. Anche lui era un irregolare, avrebbe dovuto ottenere dall’Italia una protezione in quanto fuggito dal suo paese per una persecuzione politica, ma all’epoca Roma non aveva una legge sull’asilo e Masslo fu costretto a vivere da irregolare, accettando condizioni di sfruttamento disumane nei campi.

Dopo la sua morte, un movimento antirazzista di massa si mobilitò con grandi manifestazioni e ottenne che fosse approvata la prima legge sull’immigrazione, la legge Martelli del 1990. C’è da chiedersi se oggi questa morte atroce scatenerà la stessa commozione e la stessa rabbia, o sarà presto dimenticata.

Questo testo è tratto dalla newsletter Frontiere.

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