C’è il sentimento della rabbia al centro dello spettacolo Fotoromanza della regista romana Giorgina Pi, in scena per la prima volta all’Angelo Mai di Roma, all’interno del festival Short theatre. Una ventina di donne che hanno superato i 65 anni raccontano una scena della loro vita in cui hanno provato rabbia e mostrano una fotografia del loro archivio personale: è il fotoromanzo della loro esistenza, a cui stanno lavorando da più di un anno con la guida della regista. I fotoromanzi sono al centro del tavolo, loro intorno, il pubblico assiste in una specie di gruppo di autocoscienza.

Ci sono storie di soprusi sul posto di lavoro, aborti, violenze domestiche, ma anche di viaggi e militanza politica, vicende vissute realmente dalle protagoniste decine di anni fa, che suonano ancora molto attuali. Leggendo un articolo della femminista Barbara Leda Kenny su Internazionale, Un altro genere di vecchiaia, la regista romana si è resa conto che in Italia le donne che hanno superato i 65 anni sono ancora in salute e nel pieno della loro maturità intellettuale, ma sono una risorsa spesso trascurata e marginalizzata dalla società a causa degli stereotipi di genere, per questo ha pensato a un progetto di autonarrazione che invece le vedesse protagoniste e facesse emergere questo patrimonio di storie e di saperi, altrimenti nascosto.

“Volevo lavorare sull’autobiografia in maniera diversa, femminista, usarla come possibilità di gioco, ma anche di risarcimento. Da qui è venuta l’idea di un fotoromanzo”, spiega Giorgina Pi. Così per un anno questo gruppo di donne si è incontrato ogni mese, in alcuni casi per diversi giorni di fila. Ciascuna ha raccontato la sua storia cominciando dalle fotografie del suo archivio personale, ma ha anche mandato delle cartoline immaginarie a partire dal desiderio di fare cose mai fatte, visitare luoghi e incontrare persone amate.

“Ognuna racconta con una foto un pezzo della sua vita. Molte hanno deciso anche di mandare delle cartoline da un luogo in cui non sono mai state o a persone con cui avrebbero voluto parlare e che non sono riuscite a farlo. Quindi in questo fotoromanzo c’è sia il racconto della propria vita sia i desideri e le possibilità che non sono stati realizzati”, racconta Giorgina Pi. “Anche per loro è molto doloroso vedere che molte di quelle ferite e di quelle battaglie sono ancora qui, attuali. Quelle che facevano politica avrebbero voluto un futuro diverso per le altre”.

Occupazione sensibile di El Conde de Torrefiel. (circa.studio, Short theatre 2024)

La porosità tra reale e immaginario è al centro della diciannovesima edizione dello Short theatre, curato per il terzo e ultimo anno da Piersandra Di Matteo. Undici giorni di programmazione, dal 5 al 15 settembre, oltre cinquanta progetti, quaranta compagnie provenienti da Italia, Francia, Spagna, Svizzera, Brasile, Danimarca, Svezia, Ruanda, Stati Uniti, Germania, Canada, Palestina, Messico, all’opera in tredici luoghi di diversi municipi della capitale.

“Quest’anno abbiamo lavorato in tutta la città: la Pelanda del Mattatoio a Testaccio rimane un luogo centrale, insieme al teatro India che è lo spazio per la formazione e i workshop. Ma ci sono delle camminate attraverso Roma, spettacoli sulle sponde del Tevere, al cimitero del Verano, all’interno di una casa famiglia e nei piccoli teatri, come il Cometa off e il teatro di Documenti sotto al monte dei cocci”, spiega Di Matteo.

Al centro di quest’edizione c’è l’intersezione tra realtà e immaginazione: “E quindi la città e il suo fiume sono protagonisti. Lo spettacolo Ultraficción del gruppo catalano El Conde de Torrefiel concluderà il festival e sarà messo in scena proprio sulle sponde del Tevere”.

“Ci siamo ispirati alla visione di filosofe neomaterialiste e femministe come Nancy Tuana, che analizza il disastro dell’uragano Katrina a New Orleans. Per Tuana la catastrofe non è affatto il frutto della natura, ma di concause come povertà, disuguaglianza, speculazione industriale e cambiamento climatico. Il festival vuole riflettere sulla cooperazione di questi fattori e sulle relazioni che producono degli attriti. E qui ci ispiriamo anche al pensiero della biologa tedesca Susanne Wedlich, che qualche hanno fa ha scritto Vischioso, storia naturale dello slime (Nottetempo 2023). Ci interessa esplorare quello che è vischioso, l’ambigua sostanza vivente situata al confine incerto tra solido e liquido”, spiega la direttrice artistica del festival.

“Non c’è l’idea moralistica di dividere le cose tra giuste e sbagliate, ma il tentativo di stare dentro la realtà e la sua complessità. Penso al lavoro sui robot umanoidi dei Rimini Protokoll, Unkanny valley, che mette al centro una riflessione sulla sostituzione da parte dei robot, delle intelligenze artificiali. Nello spettacolo l’attore è sostituito da un robot”, continua Di Matteo.

Ma un altro filo conduttore importante del festival è la ricerca di suoni e la performance sonora. “In questi anni abbiamo fatto una ricerca sulla giustizia acustica, ispirandoci al lavoro dell’artista statunitense Brandon LaBelle. L’idea è che certi dispositivi ingiusti agiscano anche a livello sonoro, non solo visivo, impedendo ad alcune voci di essere ascoltate. Il festival esplora questa dimensione con i lavori delle giovani Chiara Cecconello e Agnese Banti, ma anche con il musicista iraniano Mohammad Reza Mortazavi e la scrittrice messicana Valeria Luiselli”, conclude Di Matteo.

In Sometimes and across, in scena l’11 settembre al teatro India, Luiselli – autrice tra gli altri del libro Archivio dei bambini perduti (La nuova frontiera 2019) – invita a riflettere sulla giustizia a partire da una serie di domande. “Mi sono chiesta cosa succede alla nostra immaginazione e alla nostra creatività in contesti di crisi, cioè durante le guerre, in esilio o in diverse forme di detenzione. È possibile immaginare, inventare, sovrascrivere il reale, quando si vive nella paura?”, chiede Valeria Luiselli.

E ancora: “Cosa fa la violenza ai nostri corpi? E come possiamo documentarne gli effetti o scriverne? Può l’immaginazione essere praticata come strumento politico? Io credo che ci sia un’intersezione possibile tra la bellezza e la morale”, conclude. Usando il suo archivio sonoro di voci di migranti bloccati e detenuti alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, Luiselli esplora l’esperienza dello sradicamento, della violenza legata al confine e alla detenzione.

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