“I marinai sono gli eroi sconosciuti della nostra filiera alimentare. In questo momento sono preoccupati e soli. Uno di loro si è messo quasi a piangere quando gli ho detto che ero l’unico cappellano rimasto in porto. Era filippino e, come me, ha due bambini piccoli. Aveva gli occhi lucidi. Sente la famiglia tutti i giorni ma il coronavirus è arrivato anche laggiù, nel suo paese, e sono separati da migliaia di chilometri”.
Il cappellano anglicano è Dennis Woodward e parla dal porto di Rotterdam sotto quarantena, intervistato dal Guardian. Il marinaio è uno dei 1,6 milioni che lavorano su navi mercantili e provvedono a far arrivare il cibo sulle nostre tavole. O le merci nei nostri magazzini. Molti denunciano di non ricevere più la paga, di essere stati abbandonati in porto.
Purtroppo non è una novità, ma l’epidemia ha esasperato situazioni preesistenti a causa dei paesi che vietano l’approdo e delle compagnie che abbandonano gli equipaggi. Woodward lavora per Mission to seafarers, un’organizzazione che si occupa di migliaia di casi come questi ogni anno.
Rete complessa e pervasiva
Il suo nome compare anche in Oceani fuorilegge (Mondadori), un imponente lavoro d’inchiesta di Ian Urbina, in cui il giornalista del New York Times e vincitore del premio Pulitzer svela attraverso un viaggio lungo dodicimila miglia marine una rete complessa e pervasiva di sfruttamento e criminalità, essenziale al funzionamento dell’economia globale. Una rete che l’attuale pandemia, con le sue restrizioni e difficoltà, rende ancora più importante: nel mondo il trasporto del 90 per cento delle merci avviene via mare. Cinquantasei milioni di uomini, quasi come l’intera popolazione italiana, si guadagnano da vivere su imbarcazioni da pesca. “I maltrattamenti subiti dagli uomini che contribuiscono a portare il cibo sui nostri piatti è stato uno shock per me”, commenta l’autore.
Si tratta di lavoratori poveri, senza i mezzi per far valere i propri diritti, le cui condizioni peggiorano di pari passo con il depauperamento delle risorse ittiche e l’aumento della domanda globale. “Per quanto di straordinaria bellezza”, scrive Urbina, “l’oceano è anche un luogo distopico, teatro di atti oscuri di disumanità, dove la disciplina della legge, così solida sulla terraferma, diventa fluida, quando non si sgretola del tutto”.
Oggi paesi senza sbocco al mare come la Mongolia o la Bolivia sono titolari di registri navali. La Liberia, che affaccia sull’Atlantico, ha il più grande registro del mondo, amministrato fuori dei suoi confini da un’azienda della Virginia. Un paradosso frutto di un processo avviato dopo la prima guerra mondiale, quando gli Stati Uniti vendettero le proprie navi in eccesso a Panama consentendo a scaltri imprenditori di continuare a gestirle aggirando la legge, come durante il proibizionismo, quando l’alcol era vietato anche in acque internazionali. Alle soglie della seconda guerra mondiale, registrare le proprie navi a Panama consentì agli Stati Uniti di rifornire il Regno Unito eludendo l’Atto di neutralità.
Lontano dalle coste, Urbina descrive le acque internazionali come un mondo parallelo
I paesi titolari di registro dovrebbero tutelare i lavoratori del mare, garantire la loro sicurezza e il rispetto delle leggi ambientali. Dovrebbero farsi carico delle eventuali inchieste quando necessario. Ma, lontano dalle coste, Urbina descrive le acque internazionali come un mondo parallelo, “una frontiera da oltrepassare a proprio rischio che si presta a una specie di sindrome dello spettatore: la presunzione inamovibile e patologica che qualcun altro penserà alla vigilanza e rimedierà ai crimini”.
Il libro affronta una storia per ognuno dei suoi 15 capitoli. C’è l’inseguimento al cardiopalma del peschereccio Thunder con gli attivisti di Sea Shepherd per più di cento giorni, e undicimila miglia nell’oceano Antartico. C’è la lotta alla pirateria in Somalia, quella eroica contro la pesca illegale di Palau; ci sono gli uomini venduti come merce da intermediari senza scrupoli e quelli sotto sequestro per mesi su prigioni galleggianti. C’è la storia di Rebecca Gomperts, medico olandese a capo di Women on waves, che naviga su una barca a vela registrata in Austria per aiutare le donne ad abortire se nel loro paese è reato. Una specie di “ambasciata medica galleggiante” appena oltre le 12 miglia dalla costa.
Attraverso cinque oceani e “altri venti mari” Urbina incontra trafficanti, pirati, mercenari, contrabbandieri, ladri di relitti e pescatori di frodo, conservazionisti e bracconieri, mettendo più volte a rischio la sua stessa incolumità, e svelando molto di sé e del suo metodo. Dopo 17 anni, confessa, “ho lasciato il New York Times perché voglio proseguire il lavoro per i prossimi cinque anni: nessuno racconta quello che succede in alto mare e l’urgenza di ciò che accade là fuori. Voglio affrontare queste storie con un approccio nuovo per sostenere un cambiamento effettivo”.
La storia di Dona Liberta
Nel giugno 2011 George Cristof, un marinaio romeno veterano della professione, sale a bordo della Dona Liberta, una nave frigorifera, dove si accorge subito che qualcosa non va: è solo sull’imbarcazione priva di carico e carburante, ancorata a due miglia dalla costa di fronte al porto di Truro, nel Regno Unito. Florin Raducan, un connazionale, lo raggiunge poco dopo. I due uomini sono in trappola. In un settore nel quale i margini di guadagno sono sempre più bassi, le compagnie responsabili delle navi, oberate dai debiti, dichiarano bancarotta abbandonando gli scafi a poche miglia dalla costa. Cristof e Raducan non hanno mezzi per raggiungere la terraferma, non hanno denaro, né la speranza che la Dona Liberta prenda il largo. A bordo non c’è cibo né elettricità. Sopravvivono degli alimenti in scatola che ricevono dalle imbarcazioni di passaggio e raccogliendo acqua piovana. Saranno salvati cinque mesi più tardi proprio da Mission to seafarers.
Urbina scopre che la Dona Liberta ha una lunga storia di illeciti pregressi.
Un mese prima che i marinai romeni salissero a bordo, David George Mndolwa e il suo amico Kocktan Francis Kobelo si erano arrampicati lungo la cima d’ormeggio della nave nel porto di Città del Capo, in Sudafrica. Nel buio della notte i due tanzaniani erano sgattaiolati fino alla sala macchine, si erano nascosti sotto il pavimento e, immersi nell’acqua oleosa fino al petto, avevano atteso immobili. Con loro avevano passaporto, pane e succo d’arancia. Pochi giorni prima, nella baraccopoli attorno al porto, i due avevano origliato un marinaio riferire che la nave era in partenza per il Regno Unito.
Poi la Dona Liberta era salpata e in soli due giorni Mndolwa e Kobelo avevano finito il cibo. Gas di scarico, turbine a pieno regime e fame li costringono a lasciare il nascondiglio. Si rifugiano all’interno di una delle scialuppe di salvataggio, in alto sul ponte, dove resistono per i nove giorni successivi quando, stremati, si presentano all’equipaggio. Il comandante, infuriato, li chiude in una cabina e ordina ai suoi uomini di costruire una zattera con qualche barile di plastica vuoto e una tavola di legno. Poi, minacciandoli con un coltello, un marinaio li accompagna sul ponte dove una cima corre giù, fino alla zattera in balia delle onde.
La densità dell’acqua
“Scendete!”, urla. “Via!”. I ragazzi, che non sanno nuotare, scavalcano il corrimano e rischiano di annegare nel tentativo di raggiungerla. Poi la fune viene recisa e i due si ritrovano soli, barcollanti sulla superficie schiumosa mentre la nave si allontana all’orizzonte. Esiste un termine specifico per questo trattamento: “rafted”, dall’inglese raft, zattera.
I due naufraghi trascorrono la notte al freddo, avvinghiati tra loro e legati alla zattera che ondeggia tra i marosi nella pioggia di burrasca. Poi, la mattina successiva il mare si calma ma Kobelo sta male, tossisce e vomita sangue. Mentre il buio si avvicina nuovamente, e con lui la paura, la speranza prende la forma di un peschereccio. Mezza giornata più tardi i naufraghi vengono sbarcati a Buchanan, in Liberia, dove le autorità li arrestano. Kobelo muore sei giorni più tardi. Un mese dopo aver abbandonato gli uomini alla deriva, la Dona Liberta arriva nel porto di Truro, nel Regno Unito. La polizia, probabilmente allertata delle autorità liberiane, sale a bordo, interroga il comandante e chiude l’inchiesta poco dopo per mancanza di prove.
Ian Urbina rintraccia Mark Killingback, direttore del porto di Truro, che gli riferisce di numerose richieste di sequestro della nave. Non riguardano i passeggeri clandestini. Piuttosto, i creditori sono preoccupati del loro “investimento galleggiante”. Mndolwa è rimpatriato dopo cinque mesi di detenzione. Raggiungerà, sempre da Città del Capo, due volte il Senegal e una il Madagascar. Lo scriveva già Melville in Moby Dick: “In questo mondo, compagni, il peccato che paga può viaggiare liberamente e senza passaporto, mentre la virtù, se povera, è fermata a ogni frontiera.”
Durante l’era vittoriana, si credeva che la densità dell’acqua marina aumentasse in modo direttamente proporzionale alla profondità. Una nave poteva affondare a metà, fluttuando senza mai raggiungere il fondo. Il corpo di un uomo, invece, poteva inabissarsi a seconda della dimensione della pancia, del peso degli abiti e di quello dei peccati inespiati. Superstizione, religione e “scienza” rendevano le profondità marine una specie di purgatorio: i cattivi sul fondo, gli ambigui alla deriva per sempre.
Nella realtà di Oceani fuorilegge i cattivi navigano impunemente.
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