In Libia il cammino verso la libertà dalla colonizzazione italiana (1911-1943) fu il frutto di un impegno collettivo, che costò i sacrifici di molte persone. Mentre figure come quella del leader guerrigliero Omar al Mukhtar sono ampiamente celebrate, è importante riconoscere il ruolo svolto dalle donne, spesso trascurato, nella lotta per l’indipendenza.
Nei paesi islamici resistenza politica e sociale, lotta per la libertà e jihad – la lotta cioè contro i nemici dell’islam – si sono spesso mescolati. I mujahidin (combattenti per la libertà) caduti durante la lotta diventano shahid, “martiri”, un titolo che è attribuito dopo la morte a coloro che si ritiene abbiano dimostrato eroismo, distaccandosi dai desideri e gli affetti terreni per sacrificarsi in nome di una causa religiosa o politica.
Nella tradizione cristiana e islamica si riconosce l’esistenza di donne martiri (come sant’Agata o Sumayyah bint Khayyat, la prima martire dell’islam), ma questa categoria riguarda principalmente gli uomini ed è attribuita da altri uomini.
Durante le lotte per l’indipendenza nei territori colonizzati abitanti in prevalenza da musulmani nell’ottocento e nel novecento, molti caduti ricevettero il titolo di shahid al momento della loro sepoltura. Del resto, succedeva lo stesso ai soldati italiani morti nelle colonie, spesso idealizzati come martiri e “nuovi crociati”.
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Anche se l’imam Omar al Mukhtar (1858-1931) non fu l’unico shahid della resistenza libica all’invasione italiana, il suo ruolo come guida spirituale e combattente per la libertà lo rese una figura di rilevanza impareggiabile.
Da giovane, Al Mukhtar aveva studiato per diventare guida spirituale e si era impegnato nella lotta contro la colonizzazione francese in Ciad. Il 3 ottobre 1911 l’Italia bombardò Tripoli nel primo atto di quella che sarebbe passata alla storia come la guerra italo-turca. L’esercito ottomano si ritirò e avviò la resistenza dall’entroterra. Il controllo italiano sull’attuale Libia rimase parziale fino alla seconda metà degli anni venti, quando le forze fasciste italiane sotto il comando di Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani risposero alle azioni dei partigiani libici con crescente brutalità. Nelle sue opere lo studioso libico Ali Abdullatif Ahmida ha descritto i bombardamenti serrati che colpirono civili e bestiame, l’avvelenamento dei pozzi e delle fonti, le migliaia di impiccagioni pubbliche, l’uso dei gas tossici, la deportazione di civili e l’allestimento di grandi campi di concentramento. Nel suo Italiani, brava gente? (Neri Pozza 2005), lo storico italiano Angelo Del Boca ha paragonato il campo di Suluq (nell’est della Libia) a quello nazista di Auschwitz per la sua brutalità.
La lotta anticoloniale di Al Mukhtar terminò il 16 settembre 1931, quando fu impiccato davanti agli occhi dei più di ventimila prigionieri del campo di Suluq. Aveva 73 anni.
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Nella Libia di oggi la sopravvivenza dell’ideale del martirio è stata testimoniata anche in tempi recenti, durante la prima (2011) e la seconda guerra civile (2014-2020). Durante questi conflitti le fazioni in guerra hanno fatto ampio riferimento alla narrazione e all’immaginario legato ai martiri, conferendo il titolo solenne di shahid ai propri morti.
La politicizzazione del termine lo ha legato ancora più profondamente a una narrazione dominata da ideali e presenze maschili. Per questo trovare i contributi femminili è un compito impegnativo.
I materiali sul tema negli archivi italiani sono scarsi. La ricercatrice statunitense Katrina Yeaw ha lavorato a lungo sulle registrazioni di interviste a vecchi combattenti della resistenza antitaliana realizzate negli anni settanta, e conservate presso il Centro studi libici di Tripoli. Tra gli intervistati c’era una piccola percentuale di donne, alcune delle quali avevano combattuto. Con il suo lavoro, Yeaw ha portato alla luce storie dimenticate, come quelle delle combattenti Mubruka al Qabtan e Maryam Sa’d al Khashabi, che persero la vita nella località di Al Nadid. Accanto alle storie delle combattenti, ci sono i racconti di mogli, madri, figlie e sorelle di mujahidin, che a vario titolo parteciparono alla lotta.
Tuttavia, anche all’interno dell’archivio di Tripoli, questi materiali sono trascurati: in molti casi, le interviste alle donne non sono state trascritte. Nelle interviste con i mujahidin le donne hanno spesso ruoli di incoraggiamento morale per i combattenti maschi.
Nei pochi casi in cui queste storie sono state riconosciute, è stato grazie a fonti non libiche. La vicenda di Salima bint Maqouas ne è un buon esempio: madre di quattro figli orfani di padre, durante l’occupazione della Libia Salima fu costretta a cercare lavoro in un campo dell’esercito italiano, dove lavorava come assistente cuoca. Subiva innumerevoli difficoltà e umiliazioni, ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando un ufficiale italiano la colpì crudelmente sul viso senza motivo.
Il giorno successivo Salima affidò i figli a uno zio a Ghadamès, una regione ancora libera dall’occupazione italiana. La sera, mentre preparava la cena per il battaglione italiano, versò discretamente un veleno letale nelle pietanze: le conseguenze furono rapide e fatali, causando la morte di molti soldati italiani. Salima fuggì dal campo e si unì alle file dei compagni combattenti per la libertà, affrontando numerose battaglie.
Quello che sappiamo sulla sua vita lo dobbiamo al suo incontro con il corrispondente di guerra francese Georges Rémond. Nel libro Aux camps turco-arabes. Notes de route et de guerre en Tripolitaine et en Cyrenaique, pubblicato nel 1913, Rémond racconta la storia della combattente e di altre dodici donne coraggiose che lei guidava in battaglia. Il volume di Rémond include una fotografia di Salima scattata da Pol Tristan, corrispondente di guerra per Le Petit Marseillais, che la ritrae mentre impugna una spada, pronta a combattere.
La sua storia è raccontata anche nel libro The arabs in Tripoli, pubblicato a Londra nel 1912 dal giornalista Alan Ostler. Ostler fornisce un resoconto dettagliato dei suoi incontri con la combattente libica, testimoniando la sua partecipazione ad alcune battaglie e descrivendone la determinazione e il coraggio. Il corrispondente britannico restò così impressionato dalla donna tanto da paragonarla a Giovanna d’Arco e alla dea della guerra.
Se le libiche dimostrarono coraggio e determinazione nel difendere la loro patria, anche in Italia alcune donne si schierarono apertamente. Fu il caso di Maria Goja: insegnante e attivista socialista, si oppose con tenacia all’invasione italiana della Libia nel 1911, condannandola con durezza sulla stampa e coinvolgendo altre donne nella causa anticoloniale.
Le storie di resistenza e coraggio femminile vanno ben oltre l’epoca di Salima e Goja, e trovano eco in tempi più recenti. L’attivista per i diritti umani e politici Salwa Bughaighis e l’avvocata Hanan al Barassi, entrambe vittime della guerra civile, sono esempi di donne che hanno combattuto coraggiosamente per la libertà e la giustizia in Libia. Eppure, le loro storie sono spesso oscurate da narrazioni dominate dagli uomini e legate a virtù marziali, riflettendo una visione limitata di concetti come il sacrificio e la dedizione. Questa concezione trascura la resistenza portata avanti dalle donne e non fa altro che perpetuare gli stereotipi di genere.
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