Questo articolo è uscito il 6 novembre 2015 nel numero 1127 di Internazionale. L’originale era uscito sulla rivista britannica Aeon con il titolo A happy state.

Siamo tutti un po’ stoici. Pensiamo di essere artefici della nostra felicità: il segreto è lavorare sodo per una vita migliore e affrontare a viso aperto le avversità. Questo “ruvido individualismo” (un’espressione usata spesso dal presidente statunitense Herbert Hoover) si addice molto alla mentalità statunitense, ma contrasta con un numero crescente di ricerche empiriche secondo cui vivere in alcuni tipi di società dà molta più soddisfazione. La felicità, in altre parole, è più sociale che psicologica. Se questo è vero, allora il passo successivo, come diceva Albert Einstein, è “chiederci come la struttura della società e l’atteggiamento culturale dell’uomo debbano essere modificati per rendere la vita più appagante”. Economisti, politologi e altri studiosi di scienze sociali nel campo emergente dell’economia politica del benessere o “economia della felicità” stanno usando metodi basati sull’esperienza per capire meglio cosa serve per avere una vita appagante. Gli studiosi dell’economia della felicità sostengono che alla base ci sono condizioni oggettive e che quindi gli aspetti economici, politici e sociali delle società sono ottimi indicatori della felicità individuale.

La politiche più favorevoli al benessere della persona sono sostanzialmente le stesse che proponeva Einstein, cioè quelle associate alla socialdemocrazia. Adam Okulicz-Kozaryn, docente di scienze politiche della Rutgers university a Camden, nel New Jersey, ha osservato che “le società con governi di sinistra o progressisti (caratterizzate dalla presenza di un forte welfare state o stato sociale)” evidenziano i livelli più alti di soddisfazione. Mettendo a confronto i vari paesi, più lo stato sociale è generoso e inclusivo, più alto è il livello di felicità.

Per molti statunitensi welfare state è un’espressione spregiativa, ma lo sarebbe molto meno se capissero meglio cosa implica per il resto del mondo. In astratto, attraverso il welfare una società crea un sistema di protezione per difendere le persone dalle incertezze della vita quotidiana, socializzando i rischi e i vantaggi. Questo significa garantire non solo le basi della protezione sociale (accesso all’assistenza sanitaria, all’assicurazione contro la disoccupazione e alle pensioni), ma anche una serie di benefici sconosciuti negli Stati Uniti, come i giorni di malattia (in Germania la legge prevede sei settimane a stipendio pieno, poi fino a 78 settimane al 70 per cento) e giorni di ferie (quattro settimane pagate, sempre in Germania). Ancora più sorprendenti, forse, sono gli assegni familiari, sussidi versati a tutte le famiglie a prescindere dal reddito: ogni famiglia tedesca riceve 184 euro al mese per ogni figlio. Anche il reddito minimo garantito è molto più alto nei paesi che si avvicinano all’ideale del welfare: in Danimarca il salario minimo è di 20 euro all’ora. È questo senso di rischio e di prosperità condivisi che spinse il primo ministro svedese Olof Palme a osservare che “con tutti i suoi difetti il welfare resta il sistema più umano e civile mai creato”.

Le politiche di governo più umane e civili favoriscono condizioni che permettono alle persone di godersi la vita. È un’affermazione provocatoria e profonda: ne deriva che se il benessere delle persone è il parametro di giudizio corretto, preferire le politiche di sinistra a quelle di destra è una scelta che si giustifica su basi oggettive e “scientifiche”. Ma cos’è la “scienza della felicità” e com’è arrivata a conclusioni così nette?

Secondo alcuni la felicità è un concetto troppo scivoloso e sfuggente per essere misurato facilmente o studiato con metodi scientifici. Quest’avversione per un approccio sociologico-scientifico al benessere può essere ricondotta alla paura che lo studio della felicità possa portare all’esclusione dei non esperti. È una paura che va rispettata: nessuno desidera un mondo in cui solo gli esperti sono autorizzati a parlare di felicità. Non è come la chimica o la geometria, dove le opinioni dei profani hanno poche conseguenze. Nel campo delle scienze sociali, tuttavia, lo studio della felicità consiste semplicemente nel chiedere alle persone se sono felici. Non si vuole stabilire cos’è la felicità – questione innegabilmente complicata – ma solo sapere se le persone sono felici.

Per sopravvivere le persone sono costrette a vendere la loro capacità di lavorare sullo stesso mercato dove sono scambiate le altre merci

L’indagine World value survey fornisce dati confrontabili sulla soddisfazione per la propria vita e su altre misure del benessere soggettivo nelle democrazie industriali dal 1981 al 2014. Gran parte degli studi sull’economia della felicità partono da questa domanda: “Quanto siete soddisfatti della vostra vita in questo momento?”. Gli intervistati sono invitati a rispondere su una scala da 1 (insoddisfatto) a 10 (soddisfatto). Ognuno decide da solo cosa significa felicità e quanto è felice. Sulla base delle risposte è possibile studiare la felicità come si fa con qualsiasi altro fenomeno empirico. Il metodo dell’intervista nasconde delle insidie, ma sono le stesse che gli scienziati sociali affrontano in altri casi. La domanda misura davvero quello che pensiamo? Lo fa in modo coerente e affidabile? Le persone sanno davvero quanto sono felici? E se è così, ci sono fattori culturali che le spingono a non rispondere sinceramente? Intorno a queste domande e a temi simili si è sviluppata una branca minore delle ricerca, ma nel mondo scientifico l’opinione comune è che non presentino complicazioni gravi per il ricercatore.

Abbiamo quindi dei dati sulla felicità. Su quali teorie ci basiamo per analizzare questi dati? Gli psicologi si affidano a spiegazioni genetiche e legate alla personalità: la felicità è un tratto della personalità relativamente stabile, che ha un valore predefinito a cui tutti noi naturalmente torniamo dopo brevi deviazioni dovute al modo in cui reagiamo agli eventi della vita. Gli economisti tendono storicamente a concentrarsi sull’importanza del consumo o del reddito, e insistono molto sul concetto che la felicità è relativa. Di qui il paradosso di Easterlin, dal nome dall’economista statunitense Richard Easterlin che lo formulò nel 1974: in ogni momento le persone che hanno un reddito più alto sono più felici, perché si considerano relativamente privilegiate rispetto a quelle che hanno un reddito più basso. Con il passare del tempo, però, all’aumento del reddito nazionale non corrisponde una crescita del livello medio di felicità, perché aumenta anche il livello di consumo in base al quale le persone si paragonano alle altre. Ne consegue che concentrarsi solo sulla crescita economica è un errore, perché i beni di cui le persone hanno più bisogno sono i beni sociali, che sono giudicati in modo assoluto e non relativo: gli esempi principali sono la sicurezza economica, l’accesso all’assistenza sanitaria e la dignità.

Tutto questo ci porta alle teorie che si concentrano sulla soddisfazione di questi bisogni. La più famosa è quella che il sociologo olandese Ruut Veenhoven, della Erasmus university di Rotterdam, ha chiamato “teoria della vivibilità”: le persone più felici vivono nelle società più vivibili, quelle cioè che soddisfano il più alto livello di bisogni per il maggior numero di persone. Secondo questa interpretazione, le persone sono tanto più felici quanto più sono soddisfatti i loro bisogni. L’influente opera dello psicologo statunitense Abraham Maslow, morto nel 1970, ci offre un modello per capire questi bisogni. Cibo, vestiti e riparo – i nostri bisogni fisiologici – sono alla base della piramide, seguiti dalla sicurezza economica, dal lavoro e dal non dover temere la criminalità. Al livello successivo ci sono i bisogni collegati alla stima: l’amicizia, l’amore e la partecipazione alle reti sociali. L’idea di essere apprezzati dalla propria comunità e la capacità d’incidere – cioè la consapevolezza di poter prendere decisioni che hanno ripercussioni sulla propria vita – caratterizza i bisogni di livello superiore, legati al rispetto di sé e alla propria realizzazione.

Questo approccio rivela una gerarchia di bisogni. I bisogni fisiologici e quelli di sicurezza sono fondamentali, perché sono necessari al conseguimento di altri obiettivi. Perciò i fattori esterni all’individuo che portano alla soddisfazione di questi bisogni fondamentali condizioneranno di più il benessere. Elencando questi bisogni, scopriamo anche qual è il fattore più importante ai fini della loro creazione e distribuzione: il sistema economico. La chiave per capire la felicità, quindi, è capire come funziona l’economia di mercato.

Elementi distruttivi

Il mercato ha molti argomenti a suo favore. È una delle più grandi conquiste dell’umanità e ha garantito più libertà e un tenore di vita più alto a un maggior numero di persone rispetto a qualsiasi altro sistema economico. È in grado di contribuire alla felicità dell’essere umano rispondendo in modo unico e vitale ad alcuni suoi bisogni fondamentali. La logica interna del capitalismo, tuttavia, contiene degli elementi distruttivi per il bene comune. Effetti collaterali come l’inquinamento sono l’aspetto più noto di questo problema, ma c’è una caratteristica più profonda, addirittura fondante, del capitalismo su cui vale la pena di concentrare l’attenzione. È forse il concetto più importante dell’intera logica del capitalismo: la mercificazione, e in particolare la mercificazione del lavoro. In un mondo mercificato la grande maggioranza della popolazione dipende dalla vendita della forza lavoro, in forma di stipendio o salario, per la propria sussistenza economica. In altre parole, per sopravvivere le persone devono vendere la loro capacità di lavorare sullo stesso mercato dove sono scambiate le altre merci. Come osservava Adam Smith, la domanda di esseri umani è come quella di qualsiasi altra risorsa.

La riduzione dell’uomo a merce ha due conseguenze negative. Innanzitutto, quando le persone diventano merci sono soggette a forze di mercato spietate e fuori del loro controllo. Affrontano un mondo caratterizzato da un’insicurezza cronica, perché il mercato su cui è messo in vendita il loro lavoro, come qualsiasi altro mercato, è soggetto a fluttuazioni incontrollabili. Dipendono quindi da forze indifferenti ai bisogni dell’individuo. Come osserva il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen nel saggio The three worlds of welfare, “per il lavoratore il mercato diventa una prigione”. Per sopravvivere e provare ad affermarsi, le persone adottano i valori e le norme di questa prigione: individualismo, competizione, egoismo, massima attenzione ai guadagni materiali a breve termine. All’atto pratico, questi valori sono un ostacolo a una vita appagante.

Il Color run a Sydney, il 24 agosto 2014. (Jason Reed, Reuters/Contrasto)

L’altro aspetto distruttivo della mercificazione è che le persone ridotte a merci perdono la capacità di fare rivendicazioni di tipo morale nei confronti della società. Non c’è una responsabilità morale verso un lavoratore concepito come merce, così come non ce n’è una verso un sacco di grano o un lotto di telefoni cellulari. Una merce non ha diritto a un lavoro e quindi non ha diritto neanche alla malattia e alle ferie pagate, alla pensione e all’assistenza sanitaria, alla tutela contro il licenziamento senza giusta causa e, tanto meno, alla buonuscita o ad altri benefit superflui. Invece di essere trattato con dignità e rispetto, come una persona stimata di una comunità che contribuisce con la sua opera al bene di tutti, il lavoratore ridotto a merce diventa uno dei tanti fattori di produzione, non degno di maggior considerazione rispetto alle macchine che manipola.

Se la mercificazione è così dannosa per l’uomo, mentre il sistema di mercato contribuisce così tanto alla società umana, la soluzione più ovvia è conservare gli elementi essenziali del mercato attraverso politiche che “demercificano” i lavoratori e le loro famiglie. In parole povere, una società è demercificata nella misura in cui ognuno può mantenere un livello di vita simile a quello della classe media anche se non è in grado di vendere la forza lavoro a causa della malattia, dell’età, della disabilità, della necessità di assistere un familiare, del desiderio di migliorare la propria condizione studiando o semplicemente dell’impossibilità di trovare un (buon) lavoro in tempi difficili. Maggiore è il grado di demercificazione e più facile è per una persona sopravvivere senza misurarsi sul mercato del lavoro. La creazione di una rete di sicurezza sociale (il tanto bistrattato stato sociale) è essenziale per la demercificazione delle persone. Garantisce, a chi non è in grado di trovare un lavoro, un reddito minimo e, nella sua forma più estesa, altre prestazioni che limitano la dipendenza del benessere individuale dal reddito, come gli assegni familiari (bonus per i figli a carico pagati dallo stato), l’asilo nido gratuito, le case popolari e l’assistenza sanitaria come diritto sociale, cioè come un servizio che si riceve in quanto cittadini e non perché si è in grado di pagarlo.

I sindacati hanno un ruolo fondamentale nel demercificare le persone, perché assicurano ai lavoratori una serie di tutele contro i capricci delle aziende. Inoltre, le paghe e i benefit più alti dei lavoratori sindacalizzati tendono ad alzare il livello salariale per tutti. Infine, le norme che regolano il mercato del lavoro tutelano tutti i lavoratori dipendenti, anche quelli che non sono iscritti ai sindacati. In alcuni paesi queste tutele sono estese a tutti, con giorni di malattia e ferie pagate, maggiore sicurezza sul posto di lavoro e, in certi casi, anche il diritto di dire la propria sul modo in cui è gestita l’azienda. Tutto questo non solo riduce l’insicurezza e altre forme di stress, ma contribuisce a creare un ambiente in cui i lavoratori si sentono trattati con la dignità e il rispetto che tutte le persone meritano.

La demercificazione ha davvero questi effetti positivi? E se è così, questi effetti positivi superano i costi negativi di una minore efficienza di mercato? Questa è la domanda su cui si concentrano gli scienziati sociali. In parole povere, è vero che i programmi politici di sinistra contribuiscono a creare un mondo in cui le persone vivono un’esistenza positiva e gratificante? Non è una domanda filosofica o normativa né una questione di preferenze politiche. È una domanda empirica relativamente semplice a cui si può rispondere attraverso lo studio dei dati sulla soddisfazione delle persone.

Nel saggio The political economy of human happiness ho analizzato i dati nel dettaglio, ma altri studiosi sono arrivati più o meno alle stesse conclusioni. I dati principali vengono dal World values survey; altri dati simili sono stati usati per uno studio comparato della soddisfazione negli Stati Uniti. Usando i dati a livello sia individuale sia aggregato, ho notato che la soddisfazione è maggiore nei paesi con il livello più alto di demercificazione. Questa relazione positiva tra la demercificazione e il benessere si ottiene sia quando si usano due diversi indici del livello totale di demercificazione (accorpando programmi multipli in un unico indice) sia con misurazioni più particolari di politiche specifiche. Per esempio la percentuale del pil destinata alla previdenza sociale, che già di per sé rivela la portata e la generosità degli interventi contro la disoccupazione, e il totale della spesa pubblica (in rapporto al pil), che misura la parte dell’economia sotto il controllo dello stato.

Esiste anche una relazione positiva tra soddisfazione e carico fiscale: in altre parole, il benessere migliora quando la società paga più tasse per finanziare livelli più alti di spesa. Il benessere varia nello stesso modo anche quando si usa l’indice delle dimensioni e del raggio d’azione dello stato elaborato dal Fraser institute in Canada: secondo questo centro studi ultraconservatore, la soddisfazione aumenta quando c’è quella che viene definita “libertà economica”. Risultati simili si ottengono quando si considerano gli effetti dell’organizzazione sindacale e della regolamentazione economica. A parità di altri fattori, gli iscritti ai sindacati sono più soddisfatti dei non iscritti. Particolare più importante, tutte le persone beneficiano di un maggior livello di sindacalizzazione, che siano iscritte o no ai sindacati. Il motivo principale è che più i sindacati sono forti, più sostengono (sia per proprio interesse sia per altruismo) politiche che vanno a vantaggio di tutti i lavoratori, come la rete di protezione sociale. I sindacati, inoltre, tendono a sostenere la regolamentazione del mercato a vantaggio dei lavoratori, che di per sé incide in modo forte e positivo sulla soddisfazione individuale (è dimostrato da diverse misure dell’incidenza della regolamentazione, compresa quella del Fraser institute).

È importante sottolineare che queste correlazioni emergono a prescindere dal reddito o dallo status sociale della singola persona. Tutti traggono vantaggio da un welfare più generoso, da leggi che tutelano i lavoratori e da sindacati forti, a prescindere dal reddito, perché contribuiscono a costruire una società più vivibile dove la prosperità è condivisa – e così la dignità umana – a beneficio di tutti.

Questo modello trova conferma negli Stati Uniti: anche se gli indicatori variano in base alla disponibilità dei dati, è chiaro che la soddisfazione è più alta negli stati dove c’è un livello maggiore di spesa sociale, un’economia più regolamentata e una più antica tradizione di politiche progressiste o, per esprimere il concetto in termini di forze politiche, dove il Partito democratico è stato di recente al potere. La qualità della vita evidenzia la stessa relazione positiva con le dimensioni del movimento dei lavoratori: a parità di altri fattori, la vita è migliore dove ci sono più lavoratori iscritti ai sindacati.

Il fatto è che, a prescindere da come affrontiamo la questione dal punto di vista empirico, la felicità umana aumenta di pari passo con il livello di demercificazione. Se davvero ci interessa costruire un mondo in cui le persone vivono un’esistenza che loro per prime considerano preziosa e gratificante, faremmo bene a riflettere sul perché l’espressione welfare state gode di una pessima fama negli Stati Uniti, anche se ha prodotto più felicità di qualsiasi altro sistema. Se c’è un forte legame tra la concezione socialdemocratica della politica e il benessere dell’uomo, perché questa concezione sembra in declino? Se il big government (uno stato molto presente) rende felice la gente, perché gli elettori statunitensi sembrano più disposti a votare per governi favorevoli ai mercati senza regole, alla flessibilità del lavoro e ai tagli alla spesa pubblica?

È una domanda seria e importante, ma il fatto di porla non dev’essere interpretato come un segno inequivocabile del tramonto del welfare. I generosi stati sociali dell’Europa occidentale negli ultimi anni sono stati effettivamente ridimensionati, ma i loro elementi fondamentali restano in piedi quasi ovunque. Esiste un consenso sociale intorno alla conservazione di questo recinto fondamentale. Anche nel Regno Unito e negli Stati Uniti, come osservano con aria grave i commentatori conservatori, il nocciolo duro del welfare ha resistito ai tentativi di smantellamento di Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Lo stato sociale ha mostrato una grande capacità di reazione – come nel caso del servizio sanitario nel Regno Unito e di Medicare negli Stati Uniti – proprio per il suo stretto legame con il benessere dei cittadini. Gli esempi di protezione sociale in Germania (che ha uno stato sociale nella media rispetto ai paesi nordici) di cui ho parlato all’inizio dell’articolo dimostrano che la socialdemocrazia gode di ottima salute.

Questa grande conquista progressista mostra ovunque segni di vitalità, ma mi limiterò a due esempi: gli Stati Uniti che, grazie alla riforma del presidente Barack Obama, sono riusciti a estendere il diritto all’assistenza sanitaria, e Il capitale nel XXI secolo, il saggio dell’economista francese Thomas Piketty, una critica di sinistra alla forma dominante di capitalismo. Il libro di Piketty è diventato quello che il Guardian ha definito giustamente un caso editoriale paragonabile a Cinquanta sfumature di grigio: quando lo studio sulla disuguaglianza nel capitalismo riscuote lo stesso interesse del sesso sadomaso è sicuramente troppo presto per dare la sinistra per morta.

Le ripercussioni delle scelte

Ma se il welfare porta più felicità, perché è sotto attacco e non si sta diffondendo? La risposta più ovvia è che le persone non sempre sanno cosa le rende felici. Il lavoro di psicologi ed economisti ha confermato che molte delle cose per cui lottiamo in realtà ci rendono meno felici di quanto ci aspettavamo (promozioni, aumenti) o addirittura ci rendono più infelici (fare figli). È già abbastanza difficile nella nostra vita giudicare cosa ci rende felici. La difficoltà di dedurre quali possano essere le ripercussioni delle scelte politiche sulla nostra felicità, specialmente dov’è difficile stabilire una connessione con la nostra vita, è notevole.

Tendiamo a sostenere le politiche di welfare solo quando le vediamo in atto: apprezziamo la previdenza sociale quando giova a noi o ai nostri genitori. È più difficile apprezzare i buoni alimentari se non arrivano né a noi né ai nostri familiari; i vantaggi tangibili ci arrivano in modo indiretto, sotto forma di più capitale sociale e di un calo del tasso di criminalità. Quando i partiti riescono a spiegare l’importanza di costruire una società in cui i bambini non soffrono la fame e a garantire ai genitori un beneficio immediato e gradito (come gli assegni familiari), il sostegno politico al welfare è naturalmente più alto. Come nella vita privata, anche in quella pubblica le persone devono imparare quali politiche li renderanno più felici. In alcuni paesi è più facile che in altri.

Purtroppo quello che la gente vuole non sempre si traduce in scelte politiche. Gli studenti di economia sono abituati a pensare che le politiche dipendano dalle “risorse di potere” in mano alle diverse classi sociali. Tra le istituzioni più importanti nel rappresentare gli interessi della classe media e operaia ci sono i sindacati, che sono sotto pressione quasi ovunque, soprattutto negli Stati Uniti. Il progressivo declino del lavoro e della voce dei lavoratori in tutti i paesi è stato accompagnato da un declino della felicità e del welfare. Questo fenomeno non è stato causato dall’abbandono dei valori progressisti da parte dei cittadini, ma dall’indebolimento (con vari gradi e sfumature) del gruppo d’interesse che ha sostenuto con più forza questi valori. Se il lavoro è riuscito a resistere in gran parte dell’Europa, negli Stati Uniti il quadro è drammatico. Il declino dei sindacati è testimoniato dalle numerose ricerche sulle scelte politiche statunitensi, sintetizzato bene dal titolo di Us News and World Report nell’aprile del 2014: “La nazione dell’oligarchia. Secondo i politologi, le élite più ricche controllano la politica americana”.

Non c’è bisogno di mettere le cose in termini così espliciti per sapere che le imprese e i ricchi hanno un’influenza sproporzionata sulla politica: questi soggetti sono generalmente poco propensi a sostenere il welfare ed esercitano un’enorme influenza sull’opinione pubblica attraverso il controllo dei mezzi d’informazione. Non ci vuole molto a capire che la strada della socialdemocrazia è in salita, con buona pace del benessere dei cittadini.

(Traduzione di Fabrizio Saulini)

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