L’11 marzo l’ex presidente filippino Rodrigo Duterte è stato arrestato a Manila su mandato della Corte penale internazionale (Cpi). Non è il primo mandato che colpisce un capo di stato: tra i più recenti, ci sono quelli per il russo Vladimir Putin e l’israeliano Benjamin Netanyahu. È interessante, però, notare il breve intervallo tra la decisione della Cpi, presa il 7 marzo, e l’arresto di Duterte. L’episodio mostra la forza della corte, spesso criticata per la sua inefficacia, e s’inserisce nel conflitto tra l’attuale presidente delle Filippine Ferdinand Marcos Jr. e la vicepresidente Sara Duterte, figlia di Rodrigo.
In ogni caso le accuse contro Duterte sono gravi e meritano l’attenzione internazionale, anche perché la giustizia nel suo paese non ha fatto passi avanti nelle indagini.
L’ex presidente, in carica dal 2016 al 2022, è accusato di aver guidato una campagna antidroga che ha causato almeno seimila morti. Al comando delle forze di sicurezza, Duterte ha fatto discorsi di un’estrema violenza ed è considerato responsabile di almeno 43 omicidi tra il 2011 e il 2019, compreso il periodo in cui era sindaco di Davao.
Le sue azioni sono state considerate un attacco generalizzato e sistematico alla popolazione civile, quindi come un crimine contro l’umanità. Duterte è il primo ex capo di stato asiatico a essere arrestato su ordine della Cpi. Il suo caso evidenzia il fallimento delle politiche antidroga basate sull’uso letale della forza. Di solito il bersaglio erano cittadini poveri, che spesso non avevano legami con il narcotraffico. Anche se li avessero avuti, avrebbero dovuto essere processati e non uccisi indiscriminatamente. L’arresto di Duterte dev’essere un campanello d’allarme per tutti i leader mondiali che si considerano al riparo dalla giustizia internazionale. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1605 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati