Questo articolo è uscito il 25 settembre 1998 nel numero 251 di Internazionale, a pagina 21. L’originale era uscito sull’Atlantic. Le illustrazioni sono di Franco Matticchio.
Attenti a chi dice: “Viviamo in tempi speciali”. È un messaggio che è stato predicato anche in passato, e quelli che gli hanno dato ascolto hanno venduto i mobili e si sono arrampicati sui tetti per ascendere al cielo, hanno costruito barche per affrontare il prossimo diluvio, oppure si sono allacciati le Nike e si sono avvelenati in qualche angolo perduto della California. Sono i profeti che hanno visioni di mostri a sette teste, una passione per frusta e cilicio e occhi roteanti. Eppure, malgrado tutto, forse viviamo veramente in un’epoca speciale.
Forse viviamo nel momento più strano e più diverso da quando, diecimila anni fa, gli esseri umani hanno cominciato a dedicarsi all’agricoltura, ed è più o meno cominciata anche la storia. Così speciale che nel mondo occidentale ciascuno di noi potrebbe prendere in considerazione la possibilità, fra le molte altre cose, di avere un solo figlio, vale a dire di riprodursi al tasso più basso a cui si siano mai volontariamente riprodotti gli esseri umani. È davvero necessario? Stiamo arrivando a un punto limite?
Per cercare di rispondere a questa domanda, dobbiamo farne un’altra: quanti saremo nel prossimo futuro? Ecco una notizia che potrebbe cambiare il nostro modo di vedere il pianeta, un’indicazione del fatto che viviamo in un’epoca speciale. A prima vista la notizia sembra infondere speranza. I nuovi dati demografici dimostrano che è possibile che un bambino nato oggi viva abbastanza a lungo da vedere il tetto massimo raggiunto dalla popolazione umana.
In tutto il mondo la gente sceglie di avere meno figli, non solo in Cina, dove è un’imposizione del governo, ma in quasi ogni paese eccetto le regioni più povere dell’Africa. Se le tendenze attuali risulteranno confermate, la popolazione mondiale smetterà quasi di crescere prima della fine del ventunesimo secolo.
Se è relativamente facile spiegare perché la popolazione è cresciuta così in fretta dopo la Seconda guerra mondiale, è molto più difficile spiegare perché la crescita oggi stia rallentando. Gli esperti propongono risposte fiduciose che in alcuni casi sembrano contraddittorie: “Lo sviluppo è il migliore contraccettivo”, oppure l’istruzione, o la maggiore indipendenza della donna, o i tempi duri che costringono le famiglie a rinviare la nascita dei figli. Ma ogni esempio ha il suo contrario.
Il 97 per cento delle donne del sultanato arabo di Oman sono informate sulla contraccezione, eppure in media hanno più di sei figli ciascuna. La percentuale di turchi che usano la contraccezione è più o meno la stessa dei giapponesi, eppure il loro tasso di natalità è il doppio. E così via. Non sarà l’Aids a rallentare la crescita della popolazione, fatta eccezione per alcuni paesi africani. Non saranno gli orrori come la guerra civile in Ruanda, che è costata mezzo milione di vite umane – una perdita che il pianeta può colmare in quarantott’ore. L’importante è quanto spesso singoli uomini e singole donne decidano di volersi riprodurre.
Un essere umano moderno consuma in media 31mila calorie al giorno. Quanto una balenottera
Questo calo di natalità continuerà? Sarebbe meglio di sì. Le proiezioni a medio termine delle Nazioni Unite calcolano che le donne del mondo in via di sviluppo avranno presto una media di due figli a testa: il tasso che stabilizza la crescita della popolazione. Se la fertilità rimanesse ai livelli attuali, la popolazione raggiungerebbe la cifra assurda di 296 miliardi in soli 150 anni. E anche se scendesse a 2,5 figli per donna e poi smettesse di diminuire, la popolazione raggiungerebbe quota 28 miliardi.
Ma supponiamo ottimisticamente che questa volta i calcoli dei demografi siano giusti. Supponiamo di aver superato la curva e di essere in dirittura d’arrivo. Supponiamo che la popolazione del pianeta si limiti a raddoppiare soltanto un’altra volta. Anche così, è un tipico esempio di buona notizia che precede una notizia cattiva. La buona notizia è che non continueremo a crescere per sempre. La notizia cattiva è che siamo già sei miliardi, un numero che il mondo fatica a sostenere. Un altro raddoppio, o quasi – altri quattro o cinque miliardi di persone –, raddoppierà, o quasi, questa fatica. Saranno i cinque miliardi di gocce che faranno traboccare il vaso?
Abbiamo risposto alla domanda: quanti saremo? Ma per calcolare quanto siamo vicini al punto limite, dobbiamo chiederci un’altra cosa ancora: quanto siamo grandi? Questa volta la risposta non è così semplice. Non soltanto siamo molto diversi per la quantità di cibo, energia, acqua e minerali che consumiamo, ma ciascuno di noi è diverso nel tempo. William Catton, che prima di andare in pensione era un sociologo della Washington State University, una volta ha cercato di calcolare la quantità di energia che gli esseri umani usano ogni giorno.
Quando l’uomo cacciava e raccoglieva i frutti della terra usava circa 2.500 calorie, interamente alimentari. È il consumo di energia quotidiano di un comune delfino. Un essere umano moderno usa 31mila calorie al giorno, per lo più sotto forma di combustibile fossile. Equivale al consumo di una balenottera. E l’americano medio consuma sei volte di più, quanto un capodoglio. Siamo diventati, in altri termini, diversi da come eravamo. Non più gentili o più scortesi, non più profondi o più stupidi – sembra che la nostra natura sia cambiata ben poco dai tempi di Omero. Siamo semplicemente diventati più grandi.
Le impronte dei giganti
Apparentemente siamo la stessa specie, abbiamo stomaci della stessa grandezza, ma non è così. È come se ciascuno di noi si trascinasse dietro un palloncino, alimentandolo costantemente.
Perciò non serve a molto osservare pigramente il panorama dal finestrino del nostro 737 mentre voliamo da New York a Los Angeles e vedere che giù in basso c’è tanto spazio vuoto. Certo, si potrebbe stipare moltissima gente nel nostro paese o sul pianeta. L’intera popolazione mondiale potrebbe entrare nel Texas, e ogni persona avrebbe uno spazio pari alla superficie calpestabile di una tipica casa americana. Se la gente fosse disposta a stare in piedi, tutti gli abitanti della Terra potrebbero entrare comodamente in metà di Rhode Island. L’Olanda è affollatissima e se la cava molto bene.
Ma questi calcoli ignorano i palloncini sulla nostra testa, le nostre ombre affamate, i nostri appetiti da capodogli. Ciascuno di noi ha bisogno non solo di un piccolo appezzamento di terra da coltivare e di un piccolo pascolo per la carne che mangia, ma anche di un po’ di foresta per la legna e la carta, di una piccola miniera, di un piccolo pozzo petrolifero. I giganti hanno piedi grandi.
Alcuni scienziati di Vancouver hanno cercato di calcolare una di queste “impronte” e hanno scoperto che intorno alla loro città vivevano 1,7 milioni di persone concentrate in 200mila ettari, ma che queste persone avevano bisogno di oltre otto milioni di ettari di terra per sostenerle – campi di frumento ad Alberta, campi petroliferi in Arabia Saudita, campi di pomodori in California. Gli abitanti di Manhattan dipendono da risorse lontanissime da loro, proprio come gli astronauti della stazione orbitale Mir.
Questi palloncini sulla nostra testa possono diventare più grandi o più piccoli, a seconda di come scegliamo di vivere. Persone che un tempo erano minuscole improvvisamente stanno crescendo come Alice quando mangiò la torta. In Cina il reddito pro capite è duplicato rispetto ai primi anni Ottanta. I cinesi, sebbene siano ancora lillipuziani in confronto a noi, hanno raddoppiato le loro dimensioni. E, comprensibilmente, ora si nutrono a un anello molto più in alto nella catena alimentare: la Cina macella più maiali di qualsiasi altra nazione e ci vogliono circa due chili di granaglie per produrre mezzo chilo di maiale.
Quando, una decina di anni fa, le Nazioni Unite analizzarono lo sviluppo sostenibile, stesero un rapporto in cui si affermava che le economie dei paesi in via di sviluppo dovevano crescere da cinque a dieci volte per portare i poveri a un tenore di vita accettabile – con tutte le inevitabili implicazioni in termini di domanda di petrolio e foreste.
Sembra quasi impossibile. Ma per il momento asteniamoci da ogni giudizio. Siamo ancora alla fase dei calcoli matematici. Saremo moltissimi. Saremo grandi. Ma saremo moltissimi in rapporto a cosa? Grandi in rapporto a cosa? Forse rispetto al mondo in cui viviamo siamo ancora pochi e piccoli. O forse no. Perciò ora dobbiamo rispondere a una terza domanda: quanto è grande la Terra?
Qualsiasi biologo ambientalista è in grado di valutare quanti cervi può nutrire una certa area – quanto possono brucare prima di cominciare a impedire la riproduzione degli alberi, prima di cominciare a morire di fame in inverno. Non è una scienza esatta, ma i calcoli sono piuttosto precisi – almeno in confronto alle ipotesi sul carico di esseri umani che la Terra può sopportare, un’arte così oscura che chiunque abbia un po’ di buon senso preferisce starne alla larga.
Consideriamo le difficoltà. Gli esseri umani, a differenza dei cervi, possono mangiare quasi tutto e avere livelli di vita molto diversi. I cacciatori usavano 2.500 calorie di energia al giorno mentre gli americani di oggi ne usano settantacinque volte di più. Gli esseri umani, a differenza dei cervi, possono importare quello di cui hanno bisogno da luoghi lontani migliaia di chilometri. E gli esseri umani, a differenza dei cervi, possono inventare nuovi modi per fare le vecchie cose. Se, come i cervi, avessimo bisogno di brucare conifere per sopravvivere, potremmo mettere a punto nuovi incroci, irrigare foreste, spruzzare migliaia di sostanze chimiche, congelare o essiccare i germogli più teneri nel periodo del raccolto, creare nuove specie con operazioni di ingegneria genetica e pubblicizzare le virtù dei germogli di acero fino a quando non avessimo tutti cambiato abitudini alimentari.
Le variabili sono talmente tante che i demografi di professione raramente si prendono la briga di calcolare la capacità di sostentamento della Terra. Scrivendo nel 1798, il reverendo Thomas Malthus sostenne che la crescita “geometrica” della popolazione avrebbe presto esaurito le riserve alimentari. Anche se in seguito Malthus cambiò opinione e riscrisse il suo celebre saggio, la gente ha sempre ricordato – e stroncato – la versione originale. I conservatori hanno fatto del nome di Malthus un sinonimo di allarmismo ridicolo, Karl Marx ha definito il suo saggio “un’offesa alla razza umana”, Friedrich Engels riteneva che “siamo salvi per sempre dal timore della sovrappopolazione”, e persino Mao Tse-tung ha attaccato Malthus insultandolo e aggiungendo: “Di tutte le cose al mondo, gli uomini sono la più preziosa”.
Ogni nuova generazione di maltusiani ha fatto pronostici sulla prossimità della fine – e si sono tutti rivelati sbagliati. Alla fine degli anni Sessanta ci fu un’impennata di panico maltusiano. Nel 1967 William e Paul Paddock pubblicarono un libro intitolato: Famine - 1975! (Carestia - 1975!), che conteneva un elenco di priorità negli interventi per far fronte alla catastrofe: “Egitto: non si può salvare… Tunisia: dovrebbe ricevere generi alimentari… India: non si può salvare”. Quasi contemporaneamente Paul Ehrlich scriveva, nel suo bestseller The Population Bomb (1968): “La battaglia per sfamare tutta l’umanità è terminata. Negli anni Settanta il mondo sarà colpito da una serie di carestie e centinaia di milioni di persone moriranno di fame”. Sembrava tutto così sicuro. Il destino inevitabile di un mondo che presto sarebbe stato oscurato dalla prima crisi petrolifera.
Le cose, però, non sono andate così. L’India è riuscita a nutrirsi. Gli Stati Uniti continuano a inviare in tutto il mondo le loro eccedenze di grano. Dalla Seconda guerra mondiale la produzione di cibo è triplicata, superando persino la crescita della popolazione. Saremo anche dei giganti, però siamo giganti intelligenti.
Gli ottimisti della cornucopia
Un gruppo di ottimisti tecnologici crede ora che il tenore di vita continuerà a migliorare proprio perché la popolazione aumenta. Il faro intellettuale del gruppo è una brillante economista danese, Ester Boserup, una sorta di anti-Malthus che nel 1965 sostenne che il cupo reverendo aveva capovolto la realtà.
Boserup ha ispirato un gruppo di divulgatori meno prudenti, i quali sottolineano come il tenore di vita sia migliorato in tutto il mondo nonostante la crescita demografica. Il vantaggio più importante che l’aumento della popolazione assicura all’economia è il maggiore bagaglio di conoscenze utili, ha insistito Julian Simon, il più noto dei cosiddetti “cornucopiani”, morto all’inizio di quest’anno. Il rame potrebbe esaurirsi, ma che importa? La sua scomparsa spingerà qualcuno a inventare un sostituto. “Il principale carburante che accelera il progresso è il nostro bagaglio di conoscenze, e il freno è la nostra mancanza di immaginazione”, ha scritto Simon. “La risorsa maggiore sono gli uomini – uomini capaci, pieni d’energia e di speranze che metteranno al lavoro volontà e immaginazione per il loro stesso bene e così, inevitabilmente, per il bene di noi tutti”.
Simon e quelli come lui devono il loro successo a una cosa soltanto: finora hanno avuto ragione. Il mondo si è comportato come avevano previsto. L’India non è morta di fame. Il cibo costa poco. Ma Malthus non è mai uscito di scena. L’idea che gli esseri umani finiscano col diventare troppo grandi può essere accantonata solo per il momento, non una volta per tutte.
Consumiamo il 38,8 per cento di tutto ciò che può essere mangiato
La tesi che il prossimo raddoppio, quello che stiamo vivendo oggi, possa rivelarsi cruciale è illustrata da Peter Vitousek, un biologo di Stanford. Ma avremmo potuto anche cominciare da altri. Nel 1986 Vitousek decise di calcolare quanta “produttività primaria” della Terra veniva assorbita dagli esseri umani. Sommò il grano che mangiamo, il granturco con cui nutriamo il bestiame e le foreste che tagliamo per avere legna e carta, poi aggiunse le perdite di cibo dovute all’allevamento intensivo che provoca la desertificazione dei pascoli. E quando ebbe finito di sommare, la cifra finale fu 38,8 per cento. Noi usiamo il 38,8 per cento di tutto ciò che non serve alle piante per restare in vita; direttamente o indirettamente, consumiamo il 38,8 per cento di tutto ciò che può essere mangiato. “È una percentuale relativamente alta”, dice Vitousek. “E dovrebbe far riflettere quanti pensano che siamo ancora lontani da ogni limite”.
Per un altro antidoto alle allegre previsioni di un Julian Simon, accomodatevi accanto a David Pimentel, un biologo di Cornell. Lui pensa che siamo nei guai fino al collo. La sua conversazione è costellata di dati curiosi: un bel cespo di lattuga, per esempio, è composto per il 95 per cento di acqua e contiene solo 50 calorie, ma ci vogliono 400 calorie per coltivare questo cespo di lattuga nella Central Valley, in California, e altre 1.800 per spedirlo a est.
Pimentel negli ultimi trent’anni ha studiato la capacità di sostentamento del pianeta, e ritiene che sia già troppo affollato, che alla lunga la Terra possa sostenere solo due miliardi di persone con un tenore di vita borghese, e che cercare di sostenerne di più stia arrecando gravi danni. Ha dedicato lunghi studi, per esempio, all’erosione del suolo. Ogni goccia di pioggia che colpisce il terreno è come una piccola esplosione che lancia particelle di terra nell’aria. In un pendio, oltre la metà del suolo contenuto in questi schizzi viene trasportata a valle. Se i residui dei raccolti – i gambi di mais, per esempio – vengono lasciati nei campi dopo il raccolto, questo contribuisce a proteggere il suolo: le gocce di pioggia non hanno lo stesso impatto.
Ma nel mondo in via di sviluppo, dove la legna da ardere scarseggia, i contadini bruciano i gambi di mais per cucinare. Circa il 60 per cento dei residui dei raccolti in Cina e il 90 per cento in Bangladesh sono conservati e bruciati, dice Pimentel. Quando arriva la stagione della semina, i terreni aridi si volatilizzano. “Le nostre stazioni di rilevamento raccolgono suolo cinese alle Hawaii quando arriva il momento di arare”, racconta. “Ogni anno troviamo terra africana nel vento della Florida quando loro cominciano ad arare”. Sono proprio le cose che hanno reso straordinaria la Rivoluzione verde – quella che ha consentito l’ultimo raddoppio – a provocare problemi.
Provate a pensare all’acqua dolce usata dall’uomo. Sulla superficie della Terra cade molta acqua piovana, ma la maggior parte evapora o confluisce nell’oceano durante il disgelo primaverile. Secondo Sandra Postel, direttrice del Global Water Policy Project, restano disponibili circa 12.500 chilometri cubici di deflusso superficiale che sarebbero sufficienti per le esigenze attuali, ma non sono ben distribuiti in tutto il mondo. E non siamo esattamente dei protezionisti – usiamo quasi sette volte più acqua di quanta ne usavamo nel 1900. Già oggi il 20 per cento della popolazione mondiale non dispone di acqua potabile e le dispute per l’acqua dividono molte regioni.
L’ingegno umano può trasformare la sabbia in chip al silicio, permettendo la creazione di milioni di pagine sull’affascinante World Wide Web, ma l’ingegno umano non può trasformare per sempre sabbia arida in terreno dove sia possibile coltivare cibo. E alcuni segnali indicano che questi scettici hanno ragione: che ci stiamo avvicinando ad alcuni limiti fisici.
Riserve alimentari
Nel libro di Julian Simon The Ultimate Resourse (1981), i diagrammi indicano quanto è stata rapida la crescita e come abbia costantemente ridotto il costo dei generi alimentari. Simon scriveva: “L’implicazione evidente di questa tendenza storica alla diminuzione del costo del cibo – una tendenza che probabilmente risale all’inizio dell’agricoltura – è che i prezzi reali del cibo continueranno a scendere. È un fatto che per il futuro lascia presagire ulteriori cali dei prezzi e ancora meno penuria”.
Alcuni anni dopo la pubblicazione del libro di Simon, però, la curva dei dati cominciò a cambiare. La vorticosa crescita della produzione di grano cessò; gli incrementi diventarono minimi e non riuscivano più a tenere il passo con l’aumento della popolazione. Il mondo ha mietuto il più grande raccolto di grano pro capite nel 1984; da allora il quantitativo di granturco, frumento e riso pro capite è diminuito del sei per cento. Le attuali riserve di grano sono sufficienti per meno di due mesi.
Nessuno sa esattamente perché. Il crollo dell’Unione Sovietica ha contribuito a questa tendenza – le aziende cooperative improvvisamente sono rimaste a corto di fertilizzanti e di pezzi di ricambio per i trattori. Ma ci sono anche altre cause: la salinizzazione dei campi irrigati, l’erosione del suolo, la trasformazione dei terreni agricoli in aree residenziali e tutte le altre cose da cui gli ambientalisti ci mettono in guardia da anni. L’altra grande speranza degli ottimisti è l’ingegneria genetica, e gli scienziati effettivamente sono riusciti a rendere resistenti ai parassiti e alle malattie alcune piante. Per aumentare la resa, tuttavia, bisogna che un solo gambo di mais produca due pannocchie, e l’agricoltura tradizionale può avere esaurito le sue possibilità. Rischiamo di finire contro un muro.
Magari non produrremo meno cibo. Il frumento non è come il petrolio, che un giorno smetterà semplicemente di sgorgare a fiotti per ridursi a un misero rivoletto. Ma forse ci stiamo avvicinando al giorno in cui gli aumenti saranno modesti e difficili da ottenere. Potremmo esserci lasciati alle spalle le crescite spettacolari.
Nei diecimila anni di storia umana documentata, il pianeta – il pianeta fisico – è stato un posto stabile. In ognuno di questi diecimila anni ci sono stati terremoti, eruzioni vulcaniche, uragani, cicloni, tifoni, inondazioni, incendi di foreste, tempeste di sabbia, grandinate, pesti, raccolti mancati, ondate di caldo, freddi eccezionali, bufere di neve e siccità. Ma non hanno mai scosso la sostanziale prevedibilità del pianeta nel suo insieme.
Fra le altre cose, questa stabilità ha reso possibile l’industria assicurativa, ha coperto la sua copertura. Gli assicuratori possono analizzare il rischio di qualsiasi impresa perché conoscono le regole di base. Se volete costruire una casa sulla costa della Florida, possono calcolare con ragionevole precisione la possibilità che sia colpita da un uragano e la velocità dei venti che circondano l’occhio del ciclone. Se non potessero farlo, non avrebbero modo di stabilire il vostro premio: starebbero semplicemente giocando d’azzardo.
E allora come mai le compagnie assicuratrici sono gli unici grandi centri di denaro e potere che cominciano a valutare piuttosto seriamente l’idea di un cambiamento climatico globale? Come mai i rimborsi per i danni provocati dal maltempo sono passati da 16 miliardi di dollari in tutti gli anni Ottanta a 48 miliardi di dollari nel solo quinquennio 1990-1994? Come mai i massimi dirigenti delle assicurazioni europee hanno cominciato a consultarsi con Greenpeace sull’effetto serra? Come mai la Swiss Re, un colosso delle assicurazioni che ha pagato 291,5 milioni di dollari sulla scia dell’uragano Andrew, ha pubblicato un annuncio pubblicitario sul Financial Times con il logo della società piegato da una tempesta?
Queste cose significano, credo, che la possibilità di ritrovarsi a vivere su una nuova Terra non può essere categoricamente scartata come il delirio di un malato. Ho illustrato i tentativi compiuti per calcolare la capacità del mondo come lo abbiamo conosciuto, il mondo in cui siamo nati. Ma se tutt’a un tratto scoprissimo di vivere in un altro pianeta? Sulla Terra-due?
Il nuovo inquinamento
Non è stato difficile rendersi conto che c’erano dei limiti alla quantità di fumi di carbone che potevamo riversare nell’aria di una sola città. C’è voluto un po’ di più per capire che costruire ciminiere sempre più alte significava soltanto spostare la caligine più lontano, provocando piogge acide. Anche a questo, però, stiamo lentamente ponendo rimedio, con i lavatori e con diverse miscele di carburante.
Ma non possiamo ovviare altrettanto facilmente ai nuovi tipi di inquinamento. Questi non sono provocati da qualcosa che non funziona – un motore senza marmitta catalitica, una tubatura senza filtro o una ciminiera senza lavatore. I nuovi tipi di inquinamento dipendono da cose che vanno come dovrebbero andare, ma in dimensioni tali da schiacciare il pianeta. Dipendono dalla vita umana normale – ma siamo così tanti a vivere queste vite normali che oggi sta succedendo qualcosa di anormale. E questo qualcosa è talmente diverso dalle vecchie forme di inquinamento che il ricorso allo stesso termine confonde la questione.
Consideriamo l’azoto, per esempio. Quasi l’80 per cento dell’atmosfera è composta di azoto. Ma prima che le piante possano assorbirlo deve essere “fissato” legandosi al carbonio, all’idrogeno o all’ossigeno. La natura fa questo scherzetto con certi tipi di alghe e batteri del suolo e con i fulmini. Prima che gli esseri umani cominciassero ad alterare il ciclo dell’azoto, questi meccanismi fornivano 90-150 milioni di tonnellate di azoto l’anno. Ora l’attività umana aggiunge altri 130-150 milioni di tonnellate. L’azoto non è inquinamento, è un gas essenziale.
Oppure consideriamo il metano che si sprigiona dal sedere di una mucca, dalla cima di un termitaio o dal fondo di una risaia. In seguito alla nostra decisione di allevare un maggior quantitativo di bestiame, abbattere più foreste tropicali (facendo quindi esplodere le popolazioni di termiti), e coltivare più riso, le concentrazioni di metano nell’atmosfera sono più del doppio di quello che erano state per gran parte degli ultimi 160mila anni. E il metano trattiene il calore – con grande efficacia.
Oppure pensiamo all’anidride carbonica. Meglio ancora, concentriamoci sull’anidride carbonica. Se dovessimo scegliere un problema a cui dedicare tutta la nostra attenzione nei prossimi cinquant’anni circa, faremmo bene a scegliere il CO2, anche se neppure l’anidride carbonica – il biossido di carbonio – è inquinamento. Il monossido di carbonio è inquinamento: se ne respirate abbastanza vi uccide. Ma il biossido di carbonio, il carbonio con due atomi di ossigeno, non può farvi un bel niente. Se leggete questo articolo al chiuso, state respirando più anidride carbonica di quanta potreste mai trovarne all’aperto. Per generazioni gli ingegneri hanno detto che un motore che produceva solo vapore acqueo e biossido di carbonio non inquinava.
Ma il guaio è che quel motore produce tanta anidride carbonica. Quattro litri di benzina pesano circa quattro chili. Quando vengono bruciati in una macchina, fuoriescono scoppiettando dal tubo di scappamento poco meno di tre chili di carbonio sotto forma di anidride carbonica. Poco importa se la macchina è una Chevy del 1958 o una Saab del 1998. E nessun filtro può ridurre questa emissione – è un sottoprodotto inevitabile della combustione di combustibile fossile, ed è proprio per questo motivo che la presenza di CO2 nell’atmosfera è in continuo aumento dai tempi della Rivoluzione industriale. Prima che cominciassimo a bruciare petrolio, carbone e gas, l’atmosfera conteneva circa 280 parti di CO2 per milione. Ora ne contiene circa 360. Se non faremo tutto quello che ci viene in mente per eliminare il combustibile fossile dalla nostra dieta, fra cinquanta o sessant’anni l’aria raggiungerà quota 500 e più parti per milione, che il campione sia prelevato nel Bronx o al Polo Sud.
È importante perché, come ormai sappiamo tutti, la struttura molecolare di questa sostanza comune, pulita e naturale, che stiamo aggiungendo a ogni metro cubo dell’atmosfera trattiene calore che altrimenti verrebbe disperso nello spazio. Ancora più del metano e dell’ossido di azoto, l’anidride carbonica provoca il riscaldamento globale, l’effetto serra, e il clima cambia. Molto più di qualsiasi altro fattore preso singolarmente, sta trasformando la Terra dove siamo nati in un nuovo pianeta.
Vi sembrerà di aver già sentito molto parlare del riscaldamento globale. Ma la nostra percezione del problema è assolutamente inadeguata.
Non possiamo semplicemente andarcene. Dobbiamo recuperare il nostro rapporto con la Terra
Ed ecco l’ultima notizia: i cambiamenti sono cominciati già da un pezzo. Quando i politici e gli uomini d’affari parlano di “rischi futuri”, la loro è retorica superata. Non è un problema che riguarda il futuro remoto o prossimo. Il pianeta si è già riscaldato di un grado e più. Probabilmente abbiamo già percorso un quarto di strada verso l’Era della serra, e gli effetti si fanno già sentire. Da un nuovo eden, pieno di azoto, metano e carbonio, sta nascendo una nuova Terra. Se qualche astronomo extraterrestre ci sta osservando, è senza dubbio perplesso. Tutto ciò è l’effetto più ovvio del nostro numero e del nostro appetito, ed è anche la chiave per capire perché le dimensioni della nostra popolazione improvvisamente rappresentino un tale pericolo.
Com’è questo nuovo mondo? Intanto è più tempestoso di quello vecchio. I dati analizzati l’anno scorso da Thomas Karl, della National Oceanic and Atmospheric Administration, dimostravano che dal 1900 il totale delle precipitazioni invernali negli Stati Uniti era cresciuto del 10 per cento e che “i fenomeni eccezionali ” – i temporali che riversano oltre cinque centimetri d’acqua in ventiquattr’ore e le bufere di neve – erano aumentati del 20 per cento. Questo avviene perché l’aria più calda trattiene un quantitativo maggiore di vapore acqueo rispetto all’atmosfera più fredda della vecchia Terra; dall’oceano evapora più acqua, e questo significa più nuvole, più pioggia, più neve.
Il 20 per cento in più di forti temporali, il 10 per cento in più di precipitazioni invernali – sono numeri enormi. E gli stessi dati sottolineavano anche un aumento della siccità. Secondo Kevin Trenberth, del Centro nazionale di ricerche atmosferiche statunitense, più acqua nell’atmosfera significa meno acqua nel terreno. Le regioni del continente che normalmente sono aride – i fianchi orientali delle montagne, le pianure e i deserti – diventano ancora più aride, perché le temperature medie più alte fanno evaporare più acqua di quanta ne porti la pioggia. “Le piante avvizziscono più rapidamente e la siccità arriva prima”, sostiene Trenberth. E quando finalmente cade la pioggia, spesso è così violenta che buona parte scorre via prima di penetrare nel terreno.
Dunque, la Terra è più umida e più arida. È diversa. I mutamenti sono sostanziali. Il livello di congelamento nell’atmosfera – l’altezza alla quale la temperatura atmosferica raggiunge gli zero gradi centigradi – guadagna altitudine dal 1970 a un ritmo di circa cinque metri l’anno. Non sorprende che i ghiacciai tropicali e subtropicali si stiano sciogliendo a un ritmo che un gruppo di ricercatori dell’Ohio ha definito “sorprendente”.
Con lo scioglimento dei ghiacciai in molti paesi tropicali scompare un’importantissima fonte di acqua dolce. Queste zone hanno già difficoltà di approvvigionamento idrico, ha spiegato l’anno scorso Mosley-Thompson all’Associazione dei geografi americani. Ora potrebbero essere veramente disperate. Così è ai tropici e così ai poli. Secondo ogni modello computerizzato, infatti, ai poli gli effetti sono ancora più accentuati perché con l’aumento dell’anidride carbonica Artico e Antartico si riscalderanno molto più rapidamente dell’Equatore. Gli scienziati che presidiano una stazione di ricerca sul lago Toolik, in Alaska, 270 chilometri a nord del circolo polare artico, hanno visto le temperature medie estive crescere di circa sette gradi negli ultimi vent’anni.
“Quelli che ricordano di aver indossato giubbotti accollati negli anni Settanta – prima che esistesse il termine ‘riscaldamento globale’ – si sono ritrovati in maglietta nelle ultime estati”, ha scritto sul Fairbanks Daily News-Miner la giornalista Wendy Hower. Ha piovuto poco nella base americana di McMurdo Sound, in Antartide, durante l’estate del 1997, un evento strano quanto la neve in Arabia Saudita. Nulla di tutto questo significa necessariamente che le calotte di ghiaccio presto scivoleranno nel mare, trasformando il Tennessee in una spiaggia. Dimostra semplicemente una profonda instabilità in luoghi che sono stati stabili per molte migliaia di anni.
Un pianeta sconosciuto
Gli scenari pessimistici non servono: bastano gli scenari ottimistici a chiarire la questione. La popolazione della Terra si appresta a raddoppiare un’altra volta. Ciò la porterà a un livello che anche la buona vecchia Terra in cui siamo nati faticherebbe a sostenere. Proprio quando avremmo bisogno che tutto funzioni il più normalmente possibile, scopriamo di vivere su un nuovo pianeta e non sappiamo minimamente calcolare il carico di persone che può sopportare. Non abbiamo idea di quanto frumento possa produrre questo pianeta. Non sappiamo che politica avrà, non sappiamo se ci saranno ondate di caldo come quella che ha ucciso oltre 700 abitanti di Chicago nel 1995; non sappiamo se l’aumento del livello del mare e altre conseguenze del mutamento climatico creeranno decine di milioni di rifugiati ambientali; non sappiamo se un balzo di un grado e mezzo nella temperatura dell’India potrà ridurre i raccolti di frumento del paese del 10 per cento o deviare i monsoni.
Le argomentazioni addotte dai cornucopiani come Julian Simon – che l’intelligenza umana ci trarrà da ogni impaccio, che gli esseri umani sono “la risorsa più grande”, che i modelli maltusiani “semplicemente non comprendono il fattore cruciale esseri umani” – si basano tutte sulla stessa premessa: che gli esseri umani in linea di massima cambiano il mondo in meglio.
Se viviamo un momento speciale, la cosa più speciale di tutte potrebbe essere che stiamo degradando le funzioni più basilari del pianeta. Non che prima non avessimo mai cambiato tutto ciò che ci circonda. Ma questa volta è diverso. Negli ultimi dieci, venti o trent’anni il nostro impatto è talmente aumentato che stiamo cambiando persino i luoghi in cui non viviamo – stiamo cambiando le condizioni climatiche, stiamo cambiando le piante e gli animali che vivono ai poli o nel folto della giungla. È una trasformazione totale. Di tutte le cose straordinarie e impreviste che abbiamo mai fatto come specie, questa potrebbe essere la più grande. Le nostre nuove tempeste, i nostri nuovi oceani e i nostri nuovi ghiacciai sono l’ottava, la nona, la decima e l’undicesima meraviglia del mondo moderno, e ne abbiamo in serbo molte altre.
La natura potrebbe venirci incontro a metà strada, ma è un lungo cammino rispetto a dove ci troviamo noi
Siamo diventati molto grandi e molto potenti, e per il futuro prevedibile dovremo far fronte alle conseguenze. I ghiacciai non si riformeranno tanto presto, il livello degli oceani continuerà a crescere. Abbiamo già provocato danni profondi e sistemici. Per usare un’analogia umana, abbiamo già detto quelle parole violente e imperdonabili che ossessioneranno il nostro matrimonio fino alla sua rottura. Eppure non possiamo semplicemente andarcene. Non abbiamo un altro posto dove andare. Dobbiamo recuperare quello che possiamo del nostro rapporto con la Terra per impedire che la situazione diventi ancora peggiore.
Se riusciamo a mettere rapidamente ed efficacemente sotto controllo alcune emissioni possiamo limitare il danno, ridurre sensibilmente la possibilità di terribili sorprese, preservare qualcosa di più della biologia in cui siamo nati. Ma non sottovalutate il compito. Secondo la Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, occorre diminuire immediatamente del 60 per cento il consumo di combustibile fossile solo per stabilizzare il clima al livello di dissesto attuale.
La natura potrebbe venirci incontro a metà strada, ma metà strada è un lungo cammino rispetto a dove ci troviamo noi. E soprattutto non possiamo perdere tempo. Se aspettiamo qualche decennio prima di metterci in moto, tanto vale non cominciare per niente. Non è come la povertà, un dramma che le civiltà hanno sempre dovuto affrontare. Questo è una prova a cronometro. È la prova della nostra generazione, e la popolazione è una parte della risposta.
Esigenze “immodificabili”
Quando pensiamo alla sovrappopolazione, di solito pensiamo prima di tutto al mondo in via di sviluppo perché è là che nascerà il 90 per cento dei nuovi esseri umani durante quest’ultimo raddoppio.
Ma come spiega Amartya Sen, è sbagliato pensare che la popolazione del Terzo mondo produrrà uno squilibrio. Il mondo bianco ha semplicemente avuto il suo boom demografico un secolo prima (quando Dickens scriveva le sue descrizioni di Londra). Se i calcoli delle Nazioni Unite sono corretti ed entro il 2050 asiatici e africani costituiranno poco meno dell’80 per cento dell’umanità, saranno tornati, per dirla con le parole di Sen, “a essere altrettanto numerosi, in proporzione, quanto lo erano prima della Rivoluzione industriale europea”.
E naturalmente asiatici, africani e latinoamericani sono esseri umani molto “più piccoli”: i palloncini che fluttuano sulle loro teste sono minuscoli in confronto alle nostre. Tutti abbiamo sentito ripetere queste statistiche, spesso nel tentativo di inculcarci un senso di colpa. Ma ascoltatele ancora una volta, senza pregiudizi, e cercate di pensare in termini strategici a come scongiureremo i pericoli che incombono sul nostro pianeta. Fingiamo che non sia un problema morale, ma soltanto matematico.
• Un americano usa settanta volte più energia di un abitante del Bangladesh, cinquanta volte più di un malgascio e venti volte più di un costaricano.
• Poiché viviamo più a lungo, l’impatto di ciascuno di noi viene ulteriormente moltiplicato. In un anno un americano usa 300 volte più energia di un abitante del Mali, nel corso della sua vita ne userà 500 volte di più.
• Anche se fenomeni come l’abbattimento delle foreste e l’incendio dei pascoli sono attribuiti ai popoli più poveri, chi vive nel mondo povero è responsabile dell’emissione annuale di un decimo di tonnellata di carbonio, contro la media di 3,5 tonnellate per i residenti delle nazioni “consumiste” dell’Europa occidentale, del Nord America e del Giappone. Il decimo più ricco di americani emette ogni anno undici tonnellate di carbonio a persona.
Nei prossimi dieci anni India e Cina aggiungeranno ciascuna al pianeta circa dieci volte più persone di quante ne aggiungeranno gli Stati Uniti – ma le tensioni a cui la natura sarà sottoposta a causa di questi nuovi americani saranno probabilmente superiori a quelle provocate dai nuovi indiani e cinesi messi assieme. I 57, 5 milioni di abitanti del nord del pianeta che si sono aggiunti alla nostra popolazione in questo decennio immetteranno più gas a effetto serra nell’atmosfera dei circa 900 milioni di nuovi abitanti del sud della Terra.
Queste statistiche non sono eterne. Anche se la diseguaglianza fra nord e sud è aumentata costantemente, le economie delle nazioni povere ora stanno crescendo più rapidamente di quelle occidentali. All’inizio del prossimo secolo la Cina supererà gli Stati Uniti diventando la nazione con maggiore emissione di anidride carbonica nell’atmosfera, anche se ovviamente non si avvicinerà ai livelli occidentali di emissione pro capite.
Per il momento quindi (ed è il momento che conta), possiamo definire gli Stati Uniti la nazione più popolosa della Terra e quella con il più alto tasso di crescita. Anche se la popolazione americana aumenta solo di circa tre milioni di persone l’anno per l’effetto combinato della natalità e dell’immigrazione, ciascuno di questi tre milioni di nuovi americani consumerà in media quaranta o cinquanta volta di più di una persona nata nel Terzo mondo.
La crescita della popolazione in Ruanda, Sudan, El Salvador, nei tuguri del Laos, nei villaggi di montagna del Cile può devastare quei luoghi. Crescendo troppo in fretta potrebbero esaurire la terra coltivabile per sfamarsi, la legna da ardere per cucinare, i banchi di scuola, i letti di ospedale. Ma la crescita della popolazione in quei luoghi non può devastare il pianeta. Noi, al contrario, assorbiamo facilmente il modesto aumento annuale della nostra popolazione. Con il passare degli anni l’America sembra soltanto diventare un po’ più affollata. Riusciamo ancora a trovare parcheggio. Ma la Terra non può assorbire quello che stiamo aggiungendo all’aria e all’acqua.
Perciò se siamo noi del mondo ricco, almeno tanto quanto loro del mondo povero, ad aver bisogno di tenere sotto controllo questo cambiamento della Terra, il vero problema è come. Molte persone si dicono certe che controllare la popolazione sia la soluzione giusta in altri paesi, ma sono ugualmente certe che qui la soluzione è diversa. Se queste persone sono uomini politici e ingegneri, probabilmente saranno favorevoli a una vita più efficiente – a progettare automobili che andranno molto più lontano con un litro di benzina o non ne useranno affatto. Se sono vegetariani saranno probabilmente favorevoli a una vita più semplice – ad andare in autobus o in bicicletta invece di usare le automobili.
I prossimi cinquant’anni decideranno quanto sarà forte e sano il pianeta nei prossimi secoli
Entrambi i gruppi hanno assolutamente ragione. Ho trascorso buona parte della mia carriera a parlare della necessità di tecnologie più intelligenti e di aspirazioni più modeste. Il danno ambientale può essere espresso come il prodotto di Popolazione moltiplicato Ricchezza moltiplicato Tecnologia. Sicuramente la soluzione più facile sarebbe vivere in modo più semplice ed efficiente, senza preoccuparsi troppo per il numero di abitanti della Terra.
Ma io sono arrivato a credere che questi mutamenti nella tecnologia e nello stile di vita non si verificheranno in fretta e con facilità. Nei pochi decenni che contano realmente i cambiamenti cominceranno, ma non saranno portati a termine. Ricordate che l’inquinamento di cui stiamo parlando non è vero e proprio inquinamento, ma piuttosto il risultato inevitabile delle cose che vanno come riteniamo che dovrebbero andare: i nuovi filtri sui tubi di scarico non servono a niente per l’anidride carbonica. Siamo costretti a cambiare veramente il nostro modo di vivere. Siamo costretti a ridurre sensibilmente la quantità di combustibile fossile che consumiamo. E dal momento che gli occidentali moderni praticamente sono macchine che bruciano combustibile fossile, dal momento che tutto ciò che facciamo implica il consumo di carbone, gas e petrolio, dal momento che siamo sposati al petrolio, sarà una separazione difficile e dolorosa.
Forse la nostra salvezza è nella seconda parte dell’equazione, nelle nuove tecnologie più efficienti che potrebbero rendere innocue anche le nostre vite dispendiose e rinviare il problema della popolazione. Per esempio, stiamo convertendo la nostra economia dalla sua vecchia base industriale a un nuovo modello incentrato sui servizi e sull’informazione. Sicuramente questo dovrebbe consentirci di risparmiare energia, dovrebbe ridurre le nuvole di anidride carbonica. Scrivere programmi per computer non può nuocere all’atmosfera più che scrivere poesie.
Dimentichiamo per un momento le necessità materiali di questa nuova economia – la produzione di un disco di silicio da 15 centimetri, per esempio, può richiedere circa undicimila litri d’acqua. Ma tenete presente che un ospedale o una compagnia assicuratrice o una squadra di pallacanestro richiedono una certa base fisica. Anche un ufficio ad altissima tecnologia è costruito con acciaio e cemento, cavi e tubature. La gente che lavora nei servizi comprerà ogni genere di cose – più software certo, ma anche più automobili sportive. Come ha osservato Arthur Rypinski, un economista del dipartimento per l’Energia: “L’era dell’informazione è arrivata, eppure la gente continua ad avere caldo d’estate e freddo d’inverno. E persino nell’era dell’informazione la notte tende a far buio”.
Non solo usiamo troppa energia, ma continuiamo ad aumentare di numero, persino negli Stati Uniti. Se la popolazione cresce di circa l’uno per cento l’anno, allora dobbiamo aumentare la nostra efficienza tecnologica della stessa percentuale ogni anno – mantenendo costante il nostro tenore di vita – solo per restare fermi. Il Consiglio presidenziale per lo sviluppo sostenibile, in un rapporto pubblicato nell’inverno 1996 e assai poco letto, ha concluso che “l’efficienza nell’uso di tutte le risorse dovrebbe aumentare di oltre il cinquanta per cento nei prossimi quaranta o cinquant’anni solo per stare al passo con la crescita della popolazione”. Tre milioni di nuovi americani ogni anno significano molte automobili, case e frigoriferi in più. Anche se tutti consumassero solo quanto hanno consumato l’anno prima, l’apporto annuale di nascite e immigrati farebbe lievitare i consumi americani dell’uno per cento.
Noi pretendiamo che ingegneri e scienziati nuotino contro questa corrente. E la corrente diventerà un’ondata se il resto del mondo cercherà di vivere come noi. È vero che nel prossimo futuro l’abitante medio di Shanghai o di Bombay non consumerà con la stessa voracità di un tipico abitante di San Diego o di Boston, però farà grossi passi avanti – introducendo molta più anidride carbonica nell’atmosfera e costringendoci a ridurre la nostra produzione ancora più drasticamente se vogliamo stabilizzare il clima del mondo.
Le Nazioni Unite hanno pubblicato il loro rapporto completo sullo sviluppo sostenibile nel 1987. Una commissione internazionale presieduta da Gro Harlem Brundtland, all’epoca primo ministro della Norvegia, concluse che le economie dei paesi in via di sviluppo dovevano crescere da cinque a dieci volte di più per far fronte alle necessità del mondo povero. E questa crescita non riguarderà soprattutto il software. Come sottolinea Arthur Rypinski: “Dove l’economia cresce veramente in fretta cresce anche il consumo di energia”. In Thailandia, a Tijuana, a Taiwan, ogni 10 per cento di crescita economica comporta il 10 per cento di combustibile in più.
Quando calcoliamo come uscire da questo pasticcio, faremmo meglio a tenere conto di alcune spinte inarrestabili che vengono dagli abitanti del resto del pianeta, che chiedono le basi minime di una vita decente. Anche se rifornissimo Cina e India di pannelli solari, come dovremmo, questi paesi continueranno a bruciare quantitativi sempre maggiori di carbone e petrolio.
Potersi permettere un frigorifero
I numeri sono così spaventosi da sfidare l’immaginazione. Supponiamo, tanto per ragionare, che decidessimo di tagliare il consumo mondiale di combustibile fossile del 60 per cento – la riduzione che secondo la commissione delle Nazioni Unite potrebbe stabilizzare il clima del mondo. E poi supponiamo di dividere equamente quello che resta. Ciascun essere umano arriverebbe a produrre 1,69 tonnellate di anidride carbonica l’anno, il che permetterebbe di guidare una macchina americana media per quindici chilometri al giorno. Una volta raggiunte quota 8,5 miliardi, intorno al 2025, saremmo scesi a dieci chilometri al giorno. Mettendo insieme più persone nella stessa macchina, avremmo circa un chilo e mezzo di anidride carbonica disponibile al giorno – abbastanza da poterci permettere un frigorifero molto efficiente. Dimenticate il computer, la tv, lo stereo, i fornelli, la lavapiatti, lo scaldabagno, il microonde, la pompa dell’acqua, l’orologio a muro. Dimenticate le lampadine, anche quelle a basso consumo.
Non sto cercando di dire che il risparmio, l’efficienza e le nuove tecnologie non ci saranno d’aiuto. Ci aiuteranno, ma l’aiuto sarà lento e costoso. La tremenda spinta della crescita lavorerà contro di noi. Cambiare i principali combustibili – con l’idrogeno per esempio – sarebbe anche più costoso.
Le macchine elettriche da sole non ci salveranno, anche se potrebbero aiutarci. Ma non faremo in tempo a essere abbastanza evoluti tecnologicamente per risolvere il problema. Una dieta vegetariana non curerà le nostre malattie, anche se potrebbe aiutarci. Ma non faremo in tempo a vivere in modo sufficientemente semplice per risolvere il problema. Neppure ridurre il tasso di natalità porrà fine a tutti i nostri problemi. Ma potrebbe aiutarci. Non esiste una decisione più concreta di quanti figli avere. (E neppure una decisione più mistica).
Il punto centrale è questo: i prossimi cinquant’anni saranno un’epoca speciale. Decideranno quanto sarà forte e sano il pianeta nei prossimi secoli. Fra oggi e il 2050 vedremo lo zenit, o quasi, della popolazione umana. Con un po’ di fortuna non vedremo mai una maggiore produzione di anidride carbonica o di sostanze chimiche tossiche. Non vedremo mai estinguersi altre specie e non assisteremo all’erosione del suolo. Greenpeace recentemente ha annunciato una campagna per eliminare completamente i combustibili fossili entro la metà del prossimo secolo, il che suona decisamente donchisciottesco ma potrebbe avvenire – se tutto andasse bene.
E così, è compito di noi che viviamo oggi affrontare questa fase speciale per superare in qualche modo i prossimi cinquant’anni. Non è piacevole – così come non è stato piacevole per le generazioni precedenti avere a che fare con la Seconda guerra mondiale o la guerra civile o la rivoluzione, o la depressione o la schiavitù. È semplicemente la realtà. Nei prossimi cinquant’anni dovremo lavorare simultaneamente a tutte le parti dell’equazione: allo stile di vita, alle tecnologie e alla popolazione.
Come ha affermato Gregge Easterbrook nel suo libro A Moment on the Earth (1995), se il pianeta riesce a ridurre la sua fertilità “il periodo in cui i numeri umani hanno minacciato la biosfera su scala generale risulterà molto, molto più breve” dei periodi di minacce naturali quali l’era della glaciazione. Può essere vero. Ma il periodo in questione è il nostro tempo. È questo che lo rende un momento speciale ed è questo che lo rende un momento difficile.
(Traduzione di Giuseppina Cavallo)
Questo articolo è uscito il 25 settembre 1998 nel numero 251 di Internazionale, a pagina 21. L’originale era uscito sull’Atlantic. Le illustrazioni sono di Franco Matticchio.
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