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Nelle Filippine i jihadisti prosperano all’ombra della pandemia

Un soldato davanti alla grande moschea di Marawi, nelle Filippine, distrutta dai combattimenti, 11 maggio 2019. (Eloisa Lopez, Reuters/Contrasto)

Sono passati tre anni da quando i miliziani legati al gruppo Stato islamico (Is) occuparono la città di Marawi, nel sud delle Filippine, dando l’avvio a un sanguinoso assedio durato cinque mesi, ma l’estremismo radicale continua a prosperare all’ombra della pandemia di covid-19.

Mentre il presidente Rodrigo Duterte tenta a fatica di ricostruire e far ripartire Marawi, unica città a maggioranza musulmana del paese, i reclutatori dell’Is sfruttano la miseria e il malcontento per arruolare una nuova generazione di miliziani, che secondo i funzionari delle forze di sicurezza sono pronti a colpire di nuovo.

Secondo le autorità e alcuni studiosi i gruppi terroristici stanno anche facendo leva sulla crisi causata dal covid-19 e sulle misure di quarantena imposte dal governo con la forza per mobilitare giovani marginalizzati e disperati intorno alla loro causa.

Il 23 maggio 2017 degli uomini pesantemente armati occuparono Marawi sventolando la bandiera nera dell’Is: il loro l’obiettivo era quello di stabilire una wilayah, cioè una provincia autonoma, nel Sudest asiatico.

L’occupazione jihadista, a cui partecipavano anche combattenti stranieri, ha fatto finire le Filippine meridionali sulla mappa del terrorismo globale, ha provocato la morte di 1.100 persone e costretto alla fuga più di 350mila civili di cui, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, 127.865 sono ancora sfollati.

La campagna militare, sostenuta da regolari bombardamenti aerei sulle postazioni dei miliziani in città, ha ridotto Marawi in rovine. È stato stimato che i costi per la ricostruzione ammontano all’impressionante cifra di 72,2 miliardi di pesos (1,39 miliardi di dollari). Il “ground zero” della città è ancora un ammasso di macerie ed è inaccessibile agli abitanti.

A tre anni dalla fine dell’assedio di Marawi le forze di sicurezza delle Filippine lottano ancora per sradicare l’estremismo islamico.

Le forze armate combattono su più fronti: i gruppi armati islamici affiliati all’Is, i ribelli comunisti e la minaccia invisibile del covid-19

Rommel Banlaoi, presidente del think tank Istituto filippino per la ricerca sulla pace, la violenza e il terrorismo, sostiene che le attività dell’Is siano andate avanti senza sosta durante la pandemia di covid-19 e il rigido lockdown nelle Filippine.

“I jihadisti stanno approfittando delle misure di quarantena contro la pandemia usandole come un pretesto per mobilitare e reclutare nuovi miliziani e diffondere l’idea dell’estremismo radicale e violento, soprattutto nelle aree rurali povere, pesantemente colpite dal confinamento”, spiega lo studioso esperto di sicurezza.

Dal febbraio del 2020 le forze armate di stanza a Mindanao combattono su più fronti: i gruppi armati islamici affiliati all’Is, i ribelli comunisti e la minaccia invisibile del covid-19. I militari sono stati schierati per provvedere alla sicurezza delle postazioni di frontiera e per distribuire aiuti nelle aree in cui è forte l’influenza delle forze ribelli.

Nell’aprile di quest’anno, mentre il paese era sottoposto al rigido lockdown, l’esercito ha subìto un colpo pesante con l’uccisione di 11 soldati e il ferimento di altri 14 in uno scontro durato ore con il gruppo Abu Sayyaf nella cittadina di Patikul, nella provincia insulare di Sulu, noto feudo del gruppo affiliato all’Is.

A maggio i Combattenti per la libertà del Bangsamoro islamico (Biff), un gruppo affiliato all’Is che opera nella provincia di Maguindanao, in un assalto lanciato nella notte nella cittadina di Datu Hoffer, hanno ucciso due soldati impegnati nell’applicazione delle regole della quarantena, mentre un altro militare è rimasto ferito.

Il generale Cirilito Sobejana, a capo del Comando occidentale dell’esercito filippino a Mindanao, ha dichiarato: “Oggi stiamo combattendo contro due diversi nemici”, riferendosi, da un lato, ai gruppi ispirati allo Stato islamico come Abu Sayyaf o i Biff e, dall’altro, alla pandemia di covid-19.

L’ufficiale ha sottolineato che le operazioni militari contro i gruppi ispirati allo Stato islamico andranno avanti, sulla base dell’ordine permanente del presidente Duterte di eliminare il gruppo Abu Sayyaf, gruppo armato nato nel 1991 e classificato come organizzazione terroristica straniera dagli Stati Uniti.

Sotto il governo di Duterte, primo presidente del paese proveniente da Mindanao ed ex sindaco della città di Davao, il gruppo Abu Sayyaf ha continuato a rappresentare un serio problema di sicurezza. Soprattutto per l’affermazione di un nuovo genere di guerriglia che usa gli attentati esplosivi suicidi per colpire strutture sia militari sia civili, azioni rare prima che l’Is prendesse piede nelle Filippine.

Questa tendenza è confermata per esempio nell’attentato del 31 luglio 2018 contro un posto di blocco a Lamitan, nella provincia di Basilan, nel quale dieci persone sono rimaste uccise e in cui il principale sospetto era un tedesco di origini marocchine; o quello compiuto il 27 gennaio 2019 da una coppia indonesiana, con una doppia esplosione che ha ucciso almeno venti persone e ne ha ferite oltre cento in una chiesa cattolica nella provincia di Jolo.

Questi attentati suicidi, spiega Banlaoi, sono un segnale che i combattenti stranieri dell’Is continuano a essere attivi in Mindanao.

I dati provenienti da fonti di intelligence raccolti dal suo think tank mostrano che alla fine del 2019 erano almeno 59 i combattenti stranieri entrati illegalmente nel paese, e calorosamente accolti dai gruppi ispirati allo Stato islamico nella provincia di Mindanao. Secondo lo studioso questi foreign fighters vedono le Filippine come la loro “nuova terra del jihad” da quando l’Is è stato per lo più sconfitto in Medio Oriente, compresi l’Iraq e la Siria.

Molti dei combattenti stranieri che arrivano nelle Filippine provengono dalle vicine Indonesia e Malesia, mentre altri giungono dal mondo arabo, in particolare Egitto e Arabia Saudita, secondo Banlaoi. Spesso, continua l’esperto, vengono per facilitare il trasferimento di finanziamenti e armi ai militanti locali, per portare avanti attività di propaganda violenta ed estremista e per trasmettere competenze sul jihad. Secondo Banlaoi, se il covid-19 ha rallentato l’ingresso di combattenti stranieri, ora questi appoggiano i loro partner locali.

(Traduzione di Francesco De Lellis)

Questo articolo è stato pubblicato sul giornale online Asia Times.

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