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Un mondo senza insetti

Exaerete frontalis, America centromeridionale. (Levon Biss)

Questo articolo è stato pubblicato l’11 gennaio 2019 sul numero 1289 di Internazionale.

Sune Boye Riis stava facendo una passeggiata in bicicletta con il figlio più piccolo, godendosi il sole basso sui campi e i boschi vicino alla sua casa a nord di Copenaghen, quando improvvisamente si rese conto che mancava qualcosa. Era estate. Era in piena campagna, stava andando veloce, ma stranamente non gli era finito in bocca neanche un insetto.

Per un attimo, Riis tornò con il pensiero alla sua infanzia sull’isola danese di Lolland, nel mar Baltico. Allora, andare in bicicletta d’estate voleva dire attraversare nugoli d’insetti, e anche tenendo la bocca chiusa si finiva per inghiottirne qualcuno. Quando andava in macchina con i genitori, spesso il parabrezza era così pieno d’insetti morti che quasi non si vedeva nulla. Tutto questo sembrava ormai lontano. Non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva dovuto togliere gli insetti dal parabrezza. Si era perfino chiesto se nel frattempo le case automobilistiche non avessero inventato qualche tipo di rivestimento che li teneva lontani. Ma ora, si rese conto con un certo allarme, quest’assenza era ovunque. Dov’erano finiti tutti quegli insetti? Quando erano spariti? E perché non se n’era accorto prima? Riis guardò suo figlio, che sfrecciava sulla bici in quella magnifica giornata, senza mangiare insetti, e fu preso dalla malinconia al pensiero che a lui sarebbe mancata quell’esperienza. Certo, era strano provare nostalgia per una cosa simile. Ma non riusciva a liberarsi di quel senso di perdita.

Ho incontrato Riis, un professore di scienze e matematica delle superiori, in una calda giornata di giugno. Era agitato perché non aveva ancora scritto il suo discorso per la cerimonia di consegna dei diplomi, ma prima aveva un lavoro da fare. Aveva recuperato in garage un grande retino per insetti e lo aveva attaccato al tettuccio della macchina. La rete bianca percorreva tutta la lunghezza dell’auto e finiva in un sacchetto rimovibile. Mentre la fissava, Riis si è guardato intorno preoccupato. “Non è legale al 100 per cento”, ha detto, “ma direi che per il bene della scienza si può fare”.

Da quella mattina Riis non aveva più smesso di pensare alla scomparsa degli insetti. Più cose scopriva, più la nostalgia lasciava il posto alla preoccupazione: gli insetti sono gli indispensabili impollinatori e riciclatori degli ecosistemi, e sono alla base delle catene alimentari dovunque. Riis non è il solo ad aver notato il loro declino. Recentemente gli scienziati hanno scoperto che negli ultimi vent’anni la popolazione delle farfalle monarca negli Stati Uniti è diminuita del 90 per cento, il che significa una perdita di 900 milioni di esemplari, mentre nello stesso periodo quella di una specie di bombo (Bombus affinis) che un tempo viveva in 28 stati si è ridotta dell’87 per cento. Per quanto riguarda altre specie meno studiate, un esperto di farfalle mi ha detto: “Non possiamo fare altro che alzare le braccia e dire ‘Non ci sono più’”.

Ma la cosa più inquietante non è la sparizione di certi tipi di insetti: è il timore, condiviso da Riis e da molti altri, che un intero mondo di insetti stia scomparendo, e che questa perdita possa influire sulla vita del pianeta in modi imprevedibili. “Ci accorgiamo delle estinzioni”, dice l’entomologo dell’università del Connecticut David Wagner, “ma non notiamo i cali delle popolazioni”.

Dato che gli insetti sono moltissimi, poco appariscenti e difficili da monitorare, il timore che ce ne siano molti meno di prima è più percepito che documentato. La gente ha cominciato ad accorgersene lungo i canali, nei giardini o sotto la luce dei lampioni, luoghi familiari che sono diventati insolitamente vuoti. Questa sensazione è ormai così diffusa che gli entomologi le hanno dato un nome: il “fenomeno del parabrezza”.

La nuova norma
Per verificare quello che all’inizio era solo il vago sospetto che stesse succedendo qualcosa di strano, Riis e altri duecento danesi stavano passando il mese di giugno in giro per le strade secondarie del paese con i loro retini sulle auto, nell’ambito di uno studio condotto dal Museo di storia naturale della Danimarca in collaborazione con le università di Copenaghen, di Aarhus e del North Carolina.

Nel 2016, quando avevano programmato lo studio, i ricercatori non erano sicuri di trovare dei volontari. Poi un articolo pubblicato da un’oscura società tedesca di entomologia aveva attirato l’attenzione sul problema del declino degli insetti. Dall’articolo emergeva che, in termini di peso, la quantità degli insetti volanti nelle riserve naturali tedesche si era ridotta del 75 per cento in soli 27 anni. Se si considerava il picco massimo delle popolazioni, in piena estate, il calo era stato dell’82 per cento.

Riis aveva saputo dello studio grazie a una ricerca dei suoi studenti. Devono aver sbagliato a citare i dati, aveva pensato. Ma non era così. Quello studio sarebbe diventato, secondo il sito Altmetric, il sesto articolo scientifico più discusso del 2017. E i giornali di tutto il mondo avrebbero cominciato a parlare di un’“apocalisse degli insetti”.

Papilio Paris, Asia sudorientale.

Nel giro di pochi giorni dall’annuncio del suo progetto, il Museo di storia naturale aveva dovuto respingere decine di volontari. Sembrava che ovunque ci fossero persone come Riis, che si erano accorte del cambiamento ma non sapevano come interpretarlo.

Com’era possibile che qualcosa di così fondamentale come gli insetti volanti stesse sparendo? E che ne sarebbe stato del mondo senza di loro?

Chiunque sia tornato sui luoghi della sua infanzia scoprendo che tutto era diventato più piccolo, sa bene che gli esseri umani non sono molto bravi a ricordare il passato. Questo vale in particolar modo per i cambiamenti del mondo naturale. Come osservava Eraclito 2.500 anni fa, è impossibile mantenere una prospettiva stabile. Non è più lo stesso fiume, ma neanche noi siamo più le stesse persone.

Uno studio condotto nel 1995 da Peter H. Kahn e Batya Friedman su come i bambini di Houston percepivano l’inquinamento riassumeva così la nostra cecità: “Il livello di degrado ambientale aumenta a ogni generazione, ma ogni generazione considera quel livello la norma”. La biologa marina Loren McClenachan ha trovato l’esempio perfetto di questo fenomeno nelle foto dei pescatori che mostravano i loro trofei alle Florida Keys. Con il passare dei decenni i pesci diventavano sempre più piccoli, tanto che certi esemplari da trofeo erano più piccoli di quelli che negli anni precedenti venivano ignorati. Ma il sorriso sulla faccia dei pescatori rimaneva lo stesso. Il mondo non ci sembra mai rovinato, perché ci abituiamo alla rovina.

In un certo senso, gli insetti sono il tipo di fauna che conosciamo meglio, gli animali selvatici la cui vita si mescola più da vicino con la nostra: i ragni nella doccia, le formiche al picnic, le zecche attaccate alla pelle. A volte ci sembra di conoscerli fin troppo bene. In un altro senso, però, sono uno dei più grandi misteri del nostro pianeta, e ci ricordano quanto poco sappiamo di quello che succede nel mondo intorno a noi.

Abbiamo catalogato e descritto un milione di specie di insetti, un numero stupefacente di tripidi e lepismatidi, di formicaleoni e tricotteri, di sputacchine e di altre enormi famiglie di insetti che la maggior parte di noi non sa neanche come si chiamino. Quelli che crediamo di conoscere bene, in realtà non li conosciamo affatto: esistono 12mila tipi di formiche, circa 20mila varietà di api, quasi 400mila specie di scarafaggi. Eppure gli entomologi calcolano che questa sorprendente, assurda e poco studiata varietà forse rappresenta solo il 20 per cento di tutti gli insetti del nostro pianeta: ci sono milioni e milioni di specie che la scienza ignora totalmente.

Dati mancanti
Con tutta questa abbondanza, probabilmente alla maggior parte degli entomologi del passato non è mai venuto in mente che l’oggetto dei loro studi potesse restringersi. Mentre studiavano i cicli di vita e le tassonomie delle specie che li affascinavano, ben pochi pensavano a misurare una cosa banale come il loro numero. E poi, calcolare le quantità è un lavoro lento, noioso e oscuro: bisogna preparare e controllare trappole, aspettare anni se non addirittura decenni perché i dati diventino significativi, e farsi domande poco sofisticate. E chi mai avrebbe finanziato una ricerca simile? La maggior parte dei fondi accademici sono per progetti a breve termine, ma quando quello che ti interessa è un invisibile cambiamento generazionale, “un programma di monitoraggio di tre anni non serve a nessuno”, dice Dave Goulson, un entomologo dell’università del Sussex. Questo vale soprattutto per le popolazioni di insetti, che sono per loro natura variabili e di anno in anno subiscono ampie fluttuazioni che non permettono di stabilire una tendenza precisa.

Quando hanno cominciato ad accorgersi del calo degli insetti e a indagare sul fenomeno, gli entomologi si sono lamentati della mancanza di dati sul passato con cui confrontare le loro osservazioni. “Vediamo che ci sono cento esemplari e pensiamo che vada tutto bene”, dice Wag-ner. “Ma se due generazioni fa fossero state centomila?”. Rob Dunn, un ecologo della North Carolina state university che ha contribuito a ideare l’esperimento danese, qualche tempo fa si è messo a cercare studi che riguardano gli effetti dei pesticidi spruzzati nei campi sugli insetti che vivono nei boschi vicini, e ha scoperto che non esisteva nessuno studio del genere. “Non abbiamo tenuto conto di alcune questioni veramente basilari”, dice. “È come se fossimo stati tutti ciechi”.

Se non avevano i dati, gli entomologi avevano però alcuni indizi molto preoccupanti. Oltre all’impressione che ci fossero meno insetti, c’era un calo documentato di quelli ben studiati, compresi vari tipi di api, falene, farfalle e coleotteri. Nel Regno Unito dal 30 al 60 per cento delle specie aveva un’area di distribuzione più ristretta. Le tendenze più generali erano difficili da individuare, anche se nel 2014 la rivista Science aveva cercato di quantificare il calo facendo una sintesi dei risultati degli studi esistenti ed era giunta alla conclusione che per la maggior parte delle specie monitorate la riduzione era in media del 45 per cento.

Gli entomologi sapevano anche che il cambiamento climatico e il degrado complessivo degli habitat naturali danneggiano la biodiversità, e che gli insetti sono minacciati anche dagli erbicidi e dai pesticidi, oltre che dalla scomparsa di prati, foreste e perfino spiazzi erbosi dovuta alla continua espansione delle aree occupate dagli esseri umani. C’erano studi su altre specie più conosciute dai quali si deduceva che anche gli insetti associati a quegli animali stavano diminuendo. Gli ittiologi avevano scoperto che i pesci trovavano sempre meno libellule da mangiare. Gli ornitologi continuavano a constatare che gli uccelli insettivori erano in difficoltà: dalle campagne francesi erano scomparse otto pernici su dieci, mentre gli usignoli e le tortore erano diminuiti rispettivamente del 50 e del’80 per cento. Metà degli uccelli che un tempo popolavano le campagne europee erano scomparsi nell’arco di soli trent’anni. All’inizio molti scienziati avevano pensato che dipendesse dal solito fattore, la distruzione degli habitat, ma poi hanno cominciato a chiedersi se per caso gli uccelli non stessero semplicemente morendo di fame. In Danimarca, l’idea di usare le macchine con le reti per studiare il fenomeno del parabrezza è venuta a un ornitologo di nome Anders Tottrup, il quale aveva notato che i lodolai, i piccoli gufi e i gruccioni – tutti uccelli che si nutrono di grossi insetti come i coleotteri e le libellule – erano improvvisamente spariti.

I segnali erano senza dubbio allarmanti, ma erano solo segnali, e quindi non bastavano a giustificare grandi prese di posizione sulla salute degli insetti nel loro complesso o su quella che poteva essere la causa di un declino generale. “Non esistono dati quantitativi sugli insetti, perciò è solo un’ipotesi”, mi ha spiegato Hans de Kroon, un ecologo dell’università Radboud di Nimega, nei Paesi Bassi. Non è certo il tipo di linguaggio che spinge la gente a fare le barricate.

Poi è arrivato lo studio tedesco. Gli scienziati restano cauti sulle implicazioni per altre regioni del mondo. Ma quello studio presentava esattamente il tipo di dati longitudinali che stavano cercando, e non riguardava una sola specie. Le cifre erano sorprendenti: indicavano un forte impoverimento di tutto l’universo degli insetti, perfino nelle aree protette dove dovrebbero essere sottoposti a una minore pressione. La rapidità e le dimensioni del calo erano scioccanti perfino per gli entomologi che erano già preoccupati per le api, le lucciole e i parabrezza troppo puliti.

Quei risultati erano sorprendenti anche da un altro punto di vista. I dati a lungo termine sulla quantità di insetti – quelli che nessuno riusciva a trovare – non erano stati pubblicati da una rivista prestigiosa né erano frutto degli studi di scienziati affiliati a qualche università, ma provenivano da una piccola associazione di appassionati di insetti che aveva sede nella piccola cittadina tedesca di Krefeld.

Pile di scatoloni
Krefeld si trova a mezz’ora di macchina da Düsseldorf, vicino alla sponda occidentale del Reno. È una cittadina di case di mattoni, con giardini pieni di fiori colorati e uno Stadtwald, un parco comunale, dove ci sono un laghetto, una birreria all’aperto e (non ho potuto fare a meno di notare) sciami di insetti che danzano nella luce del pomeriggio.

Al centro della città vecchia, un cartello indica la sede della società entomologica, che usa come deposito una vecchia scuola di tre piani. Se provate a chiedere di vedere le collezioni, vi sentirete dare risposte del tipo: “Questa stanza è tutta dedicata ai lepidotteri”, alludendo a una stanza piena di quelli che all’inizio pensavo fossero scaffali di libri ma in realtà erano innumerevoli bacheche di legno piene di farfalle e falene spillate.

Sugli scaffali che ospitano davvero libri, ho contato 31 volumi della serie Beetles of middle Europe. Un volume di 395 pagine che catalogava esemplari di pompilidi del paleartico occidentale, recava la scritta “1948-2008”. Ho chiesto alla mia guida, un membro dell’associazione di nome Martin Sorg che era uno dei principali autori dello studio, se quello era il periodo in cui gli esemplari erano stati raccolti. “No”, mi ha risposto, “quello è il tempo che ci ha messo l’autore per scriverlo”. Sorg, che si rolla le sigarette, porta occhiali alla John Lennon e ha i capelli grigi lunghi fino alle spalle, è un tipo estremamente preciso quando si tratta di lavorare sugli insetti. E il suo lavoro sugli insetti è l’unica cosa di cui vuole parlare: “La cosa più importante sono i dettagli sulla natura e sul declino della biodiversità, non quelli sulla vita degli entomologi”.

Sternotomis, Africa.

Ai volontari dell’associazione non piace essere etichettati come “amatori”. È una definizione che, secondo loro, riflette una visione troppo restrittiva di cosa significa essere un esperto o addirittura uno scienziato, di quello che significa essere uno studioso del mondo naturale.

Gli amatori ci hanno fornito buona parte delle frammentarie conoscenze che abbiamo sulla natura. Tutti quegli studi sulle api e le farfalle sono in gran parte frutto della mobilitazione in massa di volontari disposti ad andare a contare insetti, ogni due settimane o una volta all’anno, anno dopo anno. Anche le spaventose cifre sulla scomparsa degli uccelli sono state raccolte così. Per quanto possiamo essere tecnologicamente avanzati, il mondo naturale è ancora un posto enorme e complesso, e l’unico modo per sapere cosa sta succedendo è che molte persone passino molto tempo a osservarlo.

L’associazione di Krefeld è gestita su base volontaria, e molti dei suoi iscritti fanno lavori che non c’entrano nulla con la loro passione. Ma hanno una profonda conoscenza degli insetti, accumulata in anni di quella che altri potrebbero considerare un’attenzione ossessiva.

I loro progetti spesso comportano l’installazione di trappole a rete simili a tende, che incanalano gli insetti verso bottiglie piene di etanolo. In base ai princìpi scientifici dell’associazione, gli iscritti seguono procedure standard: impiegano sempre trappole identiche, costruite seguendo un modello usato per la prima volta nel 1982. Le collocano sempre negli stessi posti. Conservano tutto quello che catturano, indipendentemente dallo scopo principale dell’esperimento in corso (hanno comprato tanto etanolo da attirare l’attenzione della polizia).

Le bottiglie piene di insetti sono raccolte in migliaia di scatoloni. Così, quando i membri dell’associazione, come tutti gli altri entomologi, hanno cominciato ad accorgersi che c’erano meno insetti in giro, hanno avuto una base su cui misurare i loro timori.

“Non gettiamo via nulla, conserviamo tutto”, spiega Sorg. “Questo ci permette di andare indietro nel tempo”.

Nel 2013 gli entomologi di Krefeld hanno confermato che gli insetti catturati in una certa riserva naturale erano circa l’80 per cento in meno rispetto al 1989. Avevano esaminato altri siti, analizzato vecchi dati e scoperto che ovunque succedeva la stessa cosa: dove trent’anni prima avevano bisogno di una bottiglia da un litro per contenere i campioni, adesso ne bastava una da mezzo litro. Ma identificare tutti gli insetti che c’erano nelle bottiglie avrebbe richiesto anni di faticoso lavoro, perfino a entomologi professionisti. Perciò l’associazione usava un metodo standard per pesare gli insetti nell’alcol e capire quanto si era ridotta la loro massa complessiva negli anni. “La riduzione di questa massa”, dice Sorg, “è una cosa molto diversa dal declino di poche specie”.

L’associazione ha collaborato con de Kroon e altri scienziati dell’università Radboud, che hanno analizzato i dati controllando cose come gli effetti della vegetazione circostante e del tempo atmosferico sulle fluttuazioni delle popolazioni di insetti. Lo studio finale del 2017 ha preso in considerazione 63 riserve naturali e ha rilevato riduzioni consistenti in ogni tipo di habitat. Questo, hanno scritto gli autori, fa pensare “che negli ultimi decenni non siano state decimate solo le specie più vulnerabili, ma tutta la comunità degli insetti volanti”.

Per alcuni scienziati è stata una presa di coscienza. “Gli scienziati pensavano che questi dati fossero noiosi”, dice Dunn. “Ma loro li trovavano importantissimi. Sono loro che hanno tenuto d’occhio la Terra al posto di tutti noi”.

Effetto a cascata
La perdita di biodiversità in atto su tutto il pianeta è nota come la sesta estinzione di massa: è la sesta volta nella storia del mondo che un gran numero di specie scompare a un ritmo insolitamente rapido, e questa volta non a causa di un asteroide o delle ere glaciali ma per l’intervento umano.

Quando pensiamo alla perdita di biodiversità, ci vengono in mente gli ultimi esemplari di rinoceronte bianco settentrionale protetti da guardie armate, o gli orsi polari sui banchi di ghiaccio che si stanno sciogliendo. L’estinzione è una tragedia profonda, che tutti possono comprendere. Non c’è modo di tornare indietro. La colpa di aver fatto scomparire una specie unica al mondo è eterna. Ma l’estinzione non è l’unica tragedia che stiamo vivendo. Ci sono specie che esistono ancora, ma sono solo l’ombra di quello che erano un tempo. Nel suo The once and future world, il giornalista J.B. MacKinnon cita una serie di osservazioni fatte negli ultimi secoli che danno la misura di quello che abbiamo perduto: “Nell’Atlantico settentrionale, un banco di merluzzi blocca un veliero in mezzo all’oceano. Al largo delle coste di Sydney, in Australia, una nave veleggia da mezzogiorno al tramonto attraverso branchi di capodogli a perdita d’occhio. I pionieri del Pacifico si lamentano che i salmoni in risalita rischiano di capovolgere le loro canoe”. Si parlava di leoni nel sud della Francia, di trichechi alla foce del Tamigi, di stormi di uccelli che impiegavano tre giorni a sorvolare una zona, di cento balenottere azzurre nell’oceano Antartico per ognuna che ce n’è oggi. “Questi non sono reperti di un’era lontana”, scrive MacKinnon. “Stiamo parlando di cose che gli occhi umani hanno visto, che sono rimaste nella memoria umana”.

Della biodiversità non stiamo perdendo solo diversità, ma anche “bio”, cioè quantità di vita. Mentre scrivevo questo articolo, gli scienziati hanno scoperto che la più grande colonia di pinguini reali del mondo si è ridotta dell’88 per cento negli ultimi 35 anni, e che oltre il 97 per cento dei tonni australi che un tempo popolavano gli oceani non esiste più.

Sentirsi rassicurati dalla sopravvivenza di pochi esemplari simbolici significa non tener conto del valore dell’abbondanza, di un mondo naturale ricco di complessità e di interazioni. Le tigri, per esempio, esistono ancora, ma nel 93 per cento delle terre dove vivevano adesso non ci sono più. Questo è importante non solo per motivi sentimentali: i grandi animali, soprattutto i grandi predatori come le tigri, costituiscono un anello di collegamento tra interi ecosistemi e muovono energie e risorse semplicemente spostandosi, mangiando, defecando e morendo. Uno degli effetti della loro perdita è il fenomeno che è stato chiamato “cascata trofica”: il disfacimento del tessuto di un ecosistema che si verifica quando, in mancanza di predatori, le popolazioni di prede aumentano e c’è uno scompenso nella catena alimentare. Questi luoghi sono più vuoti, impoveriti in mille modi sottili.

Da qualche tempo gli scienziati parlano di estinzione funzionale (in contrapposizione alla più familiare estinzione numerica). Gli animali e le piante funzionalmente estinti sono ancora presenti nell’ecosistema, ma non sono più abbastanza da influire sul suo funzionamento. Non si tratta dell’estinzione di una specie, ma di tutte le interazioni che quella specie aveva con l’ambiente: l’estinzione della dispersione dei semi, dell’impollinazione, della predazione e di tutte le altre funzioni ecologiche che un animale un tempo aveva. Anche se restano ancora alcuni esemplari di quella specie, il fenomeno può essere devastante. Più interazioni si perdono, più un ecosistema diventa caotico.

Un articolo pubblicato nel 2013 dalla rivista Nature, che presentava modelli di reti alimentari sia naturali sia generate dal computer, suggeriva che una perdita anche solo del 30 per cento dell’abbondanza di una specie può essere così destabilizzante da innescare l’estinzione totale di altre specie, anzi, nell’80 per cento dei casi sono proprio quelle che hanno subìto questo effetto secondario a scomparire per prime. Un famoso esempio di questo effetto a cascata è quello che riguarda le lontre marine. Quando nel Pacifico settentrionale sono state quasi spazzate via, le loro prede, i ricci di mare, si sono moltiplicati così tanto da divorare intere foreste di alghe, trasformando un ambiente ricco di diversità in una landa desolata e forse contribuendo ad alcune estinzioni numeriche, come quella della ritina di Steller.

L’era della solitudine
I conservazionisti tendono a concentrarsi sulle specie rare e a rischio di estinzione, ma sono quelle più comuni, proprio a causa del loro gran numero, a far funzionare i sistemi viventi del pianeta. La maggior parte delle specie non è comune, ma all’interno di molti gruppi di animali la maggior parte degli individui – circa l’80 per cento – appartiene a specie comuni. Come per il lento avvicinarsi del crepuscolo, è difficile accorgersi del loro declino. In India, quando ci si è resi conto che stavano scomparendo, i grifoni dorsobianco non c’erano quasi più.

A proposito di questo fenomeno, Kevin Gaston, che insegna biodiversità e conservazione all’università di Exeter, ha scritto sulla rivista BioScience: “Gli esseri umani sembrano per loro natura più capaci di accorgersi della perdita totale di una caratteristica ambientale che non del suo progressivo cambiamento”.

Oltre che dell’estinzione (la perdita completa di una specie) e dell’estirpazione (estinzione localizzata), oggi gli scienziati parlano di defaunazione: la perdita di individui, di abbondanza, della presenza assoluta di animali in un luogo. In un articolo apparso nel 2014 sulla rivista Science, un gruppo di ricercatori sosteneva che questa parola dovrebbe diventare familiare e importante come il concetto di deforestazione. Nel 2017 un altro articolo riferiva che un notevole calo delle popolazioni e della diversità si riscontra anche in specie considerate a basso rischio di estinzione. I suoi autori prevedevano “conseguenze negative a cascata sul funzionamento e sui servizi degli ecosistemi, fondamentali per il sostentamento della civiltà”, e proponevano un’altra espressione per definire la perdita della fauna selvatica del pianeta: “annichilimento biologico”.

Gli insetti sonoil classico esempio dell’importanza dell’ordinario

Si calcola che, dal 1970 a oggi, le popolazioni di animali selvatici si siano ridotte in media del 60 per cento. Se prendiamo in considerazione la categoria che ci è più vicina, i mammiferi, gli scienziati sono convinti che su sei animali selvatici che un tempo mangiavano, scavavano tane e allevavano piccoli, oggi ne rimane solo uno. Al loro posto ci siamo noi. Da uno studio pubblicato quest’anno su Proceedings of the National Academy of Sciences è emerso che, se si considera il peso dei mammiferi terrestri, il 96 per cento della biomassa è costituita da esseri umani e animali da allevamento, mentre gli animali selvatici sono solo il 4 per cento.

Abbiamo cominciato a dire che ormai viviamo nell’antropocene, in un mondo plasmato dall’essere umano. Ma il naturalista e profeta del degrado ambientale E.O. Wilson propone un nome diverso: l’eremocene, o era della solitudine.

Wilson ha cominciato la sua carriera come entomologo tassonomista studiando le formiche. Gli insetti – che sono la cosa più lontana possibile dalla carismatica megafauna – non sono quello a cui di solito pensiamo quando parliamo di biodiversità. Ma sono, per usare le parole di Wilson, “le piccole cose che fanno funzionare il mondo naturale”. Gli insetti sono il classico esempio dell’invisibile importanza dell’ordinario.

Gli scienziati hanno cercato di calcolare tutto quello che gli insetti fanno per noi semplicemente esistendo in grandi numeri. Migliaia di miliardi di insetti che svolazzano di fiore in fiore impollinano circa tre quarti delle colture di cui ci nutriamo, un servizio che vale più o meno 500 miliardi di dollari all’anno. Senza contare l’80 per cento delle piante da fiore selvatiche, che ovunque sono alla base della vita e che sfruttano anch’esse l’impollinazione. Se calcoli economici come questi vi suonano strani, pensate alla valle di Maoxian, in Cina, dove la carenza di insetti impollinatori ha costretto gli agricoltori ad assumere lavoratori, al costo di 19 dollari al giorno ciascuno, per sostituire le api. Ogni persona impollina a mano dai cinque ai dieci alberi di mele al giorno.

Mangiando e facendosi mangiare, gli insetti trasformano le piante in proteine e favoriscono la crescita di tutte le innumerevoli specie – compresi i pesci d’acqua dolce e la maggior parte degli uccelli – che si nutrono di loro, senza contare tutti gli animali che mangiano quelle specie. Ci preoccupiamo di salvare l’orso grizzly, dice l’ecologo Scott Hoffman Black, ma cosa farebbero i grizzly senza le api che impollinano le bacche o senza le mosche che nutrono i piccoli salmoni? E, a dirla tutta, cosa faremmo noi?

Gli insetti sono fondamentali per la decomposizione, che consente il riciclo delle sostanze nutrienti, mantiene sano il terreno, fa crescere le piante e regola gli ecosistemi. Questo loro ruolo è quasi sempre invisibile, finché all’improvviso diventa evidente. Dopo aver introdotto gli animali da allevamento in Australia, all’inizio dell’ottocento, i coloni si trovarono ad affrontare il problema dei loro escrementi: per qualche motivo, lo sterco di mucca impiegava mesi, se non anni, a decomporsi. I bovini si rifiutavano di mangiare vicino a quegli oggetti maleodoranti, di conseguenza ci voleva sempre più terra da pascolo, e le mosche che se ne nutrivano erano così numerose che il paese diventò famoso per i buffi cappelli che gli allevatori indossavano per tenerle lontane. Fu solo nel 1951 che un entomologo capì cosa non andava: gli insetti locali, abituati a mangiare gli escrementi più fibrosi dei marsupiali, non riuscivano a smaltire quelli delle mucche. Nei 25 anni successivi, l’importazione di decine di specie di stercorari diventò una priorità nazionale. Negli Stati Uniti, gli stercorari fanno risparmiare agli allevatori circa 380 milioni di dollari all’anno. In realtà non sappiamo tutto quello che fanno gli insetti. E solo il 2 per cento delle specie invertebrate è stato studiato abbastanza per calcolare se quelle specie sono a rischio di estinzione, senza contare tutti i pericoli che potrebbe comportare la loro estinzione.

Quando gli si chiede di immaginare cosa succederebbe se gli insetti scomparissero del tutto, gli scienziati usano parole come caos, collasso, apocalisse. Wagner, l’entomologo dell’università del Connecticut, descrive un mondo senza fiori, dove le foreste sono silenziose, un mondo di escrementi, foglie secche e carcasse putride che si accumulano nelle città e ai bordi delle strade, un mondo “al collasso in cui il decadimento, l’erosione e la perdita si estenderebbero a tutti gli ecosistemi”, passando dai predatori alle piante.

Anche E.O. Wilson ha descritto un mondo senza insetti, dove la maggior parte delle piante e degli animali terrestri sono estinti; in cui per un po’ di tempo c’è un’esplosione di funghi che si nutrono di marciume e di morte; e in cui “la specie umana sopravvive solo tornando a mangiare pesce e granaglie impollinate dal vento”, tra denutrizione generale e guerre per accaparrarsi le risorse.

Punto di rottura
Ma il punto cruciale del fenomeno del parabrezza è che ci troveremo a rimpiangere gli insetti ben prima che scompaiano del tutto. Uno studio su Puerto Rico appena pubblicato da Proceedings of the National Academy of Sciences presenta dati che vanno dagli anni settanta all’inizio di questo decennio, quando un ecologo tropicale di nome Brad Lister è tornato nella foresta pluviale in cui aveva studiato le lucertole – e soprattutto le loro prede – quarant’anni prima. Lister ha messo delle trappole e trascinato reti tra le foglie negli stessi luoghi in cui lo aveva fatto negli anni settanta, ma questa volta ha raccolto molto, molto meno: a livello di biomassa, da 10 a 60 volte meno artropodi rispetto a prima. È facile leggere questo numero come il 60 per cento in meno, ma in realtà si tratta di 60 volte meno: dove prima aveva catturato 473 milligrammi di insetti, adesso ne catturava otto.

“È stato devastante”, mi ha detto Lister. Ma ancora più spaventoso è il modo in cui quella perdita si sta estendendo a tutto l’ecosistema, con una forte riduzione del numero di lucertole, uccelli e rane. Nell’articolo si parla di “una cascata trofica dal basso verso l’alto, con il conseguente collasso della rete alimentare della foresta”. La posta di Lister si è subito riempita di messaggi, soprattutto di persone che studiano gli invertebrati terrestri e avevano osservato un declino altrettanto terrificante. Nonostante le sue stesse scoperte, Lister ha trovato queste notizie sconvolgenti. “Non immaginavo che ci fosse una crisi dei lombrichi”.

La cosa strana, dice Lister, è che tutte queste perdite sono invisibili agli occhi di una persona comune che attraversa la foresta pluviale di Luquillo. Durante la sua ultima visita, la foresta sembrava ancora “senza tempo” e “fantasmagorica”, piena di “cascatelle e tappeti di fiori”. Solo un esperto avrebbe capito che mancava qualcosa. Ma Lister prevede che queste perdite porteranno la foresta a un punto di rottura, dopo il quale “ci sarà un improvviso e drammatico crollo del sistema” e i cambiamenti diventeranno evidenti. Il posto che ama diventerà irriconoscibile.

Gli insetti della foresta di Puerto Rico non hanno dovuto combattere con i pesticidi e la scomparsa del loro habitat, i due problemi indicati nell’articolo di Krefeld. Lister attribuisce il loro declino al cambiamento climatico, che a Luquillo ha già fatto salire le temperature di due gradi dalla prima volta che è andato a raccogliere campioni lì. Alcuni studi precedenti avevano già previsto che gli insetti tropicali sarebbero stati particolarmente sensibili all’aumento delle temperature. A novembre gli scienziati che hanno sottoposto alcuni coleotteri a un’ondata di calore in laboratorio hanno verificato che diventavano molto meno fertili. Altri scienziati si stanno chiedendo se la causa non potrebbe essere la siccità provocata dal caldo, un’invasione di ratti o semplicemente la somma dei molti cambiamenti nei luoghi dove un tempo gli insetti erano abbondanti.

Come altre specie, gli insetti reagiscono a quella che Chris Thomas, ecologo dell’università di York, ha definito “la trasformazione del mondo”: non solo il cambiamento del clima, ma anche una diffusa riconversione degli spazi naturali in spazi umani, a causa dell’urbanizzazione, dell’agricoltura intensiva e di altri fattori, che lascia sempre meno risorse a disposizione degli altri esseri viventi. E quelle che restano sono spesso contaminate. Secondo Hans de Kroon, oggi la vita di molti insetti è come fuggire da un’oasi che si restringe all’altra, “con in mezzo un deserto velenoso”.

Un motivo di particolare preoccupazione sono i pesticidi neonicotinoidi, a base di neurotossine che si pensava colpissero solo le colture trattate e invece si accumulano nell’ambiente e vengono consumate da ogni tipo di insetto, non solo da quelli presi di mira. Una delle ipotesi più accreditate per spiegare la riduzione del numero delle api è che le neurotossine impediscano agli insetti di ritrovare la strada di casa. È stato dimostrato che perfino gli alveari esposti a bassi livelli di neonicotinoidi raccolgono meno polline e producono meno uova e regine. Da alcuni studi recenti è emerso che ormai le api stanno meglio nelle città che nelle campagne.

La varietà degli insetti è tale che alcune specie riusciranno a cavarsela nei nuovi ambienti, altre prospereranno e altre ancora, costrette a cercare cibo e rifugio in un mondo completamente diverso da quello per cui erano fatte, soccomberanno. Anche se per capire meglio i motivi e i meccanismi che determinano questi alti e bassi abbiamo bisogno di molti più dati, dice Thomas, “la media è comunque un declino”. Da quando è uscito lo studio di Krefeld, gli scienziati hanno cominciato a cercare altri serbatoi di informazioni dimenticati che potrebbero aprire finestre sul passato. Alcuni dei ricercatori dell’università Radboud hanno analizzato i dati raccolti dalle società entomologiche olandesi sui coleotteri e sulle falene in certe riserve, e hanno riscontrato un calo significativo (rispettivamente del 72 e del 54 per cento) che corrispondeva ai rilevamenti di Krefeld.

Roel van Klink, un ricercatore del Centro tedesco per la ricerca integrata sulla biodiversità, mi ha detto che prima dello studio di Krefeld non si era mai interessato alla biomassa. Adesso sta cercando serie di dati storici – molti dei quali sono stati raccolti nell’ambito di studi sugli insetti infestanti in agricoltura, come quello sulle cavallette in Kansas – che potrebbero contribuire a tracciare un quadro più completo su specie che sono al tempo stesso abbondanti e in pericolo. Finora ha trovato 140 serie di vecchi dati che si riferiscono a località nelle quali si potrebbe effettuare un nuovo campionamento.

Nuovi progetti
Si sta anche cercando di lanciare un numero maggiore di progetti per il monitoraggio degli insetti, quelli di cui gli scienzati avrebbero voluto disporre per comprendere meglio la scala dell’attuale distruzione. Uno è un progetto pilota tedesco simile a quello condotto con le auto in Danimarca. Per analizzare i campioni raccolti, i ricercatori stanno coinvolgendo dei naturalisti volontari, amatori come quelli di Krefeld ma con conoscenze sufficienti per capire quello che vedono.

“Non sono specie facili da identificare”, dice Aletta Bonn del Centro tedesco per la ricerca integrata sulla biodiversità, che coordina il progetto. Bonn dice che vorrebbe pagare i volontari per il loro lavoro, ma i finanziamenti non bastano. Questo, comunque, non scoraggia i volontari.

Secondo Goulson, la lunga tradizione europea di naturalismo amatoriale spiega perché tanti indizi sul calo della biodiversità degli insetti vengano proprio da lì. Perché, se sulla situazione degli insetti in Europa non sappiamo molto, sulle altre parti del mondo ne sappiamo ancora meno. “E non sapremmo nulla se non fosse per loro”, i cosiddetti amatori, dice Goulson. “Dovremmo solo basarci sul fatto che non troviamo più insetti sul parabrezza”.

Potrebbero servire cambiamenti profondi come le cause del fenomeno

Thomas pensa anche che questa tradizione naturalistica sia il motivo per cui l’Europa si sta muovendo più rapidamente di altre regioni del mondo – per esempio degli Stati Uniti – per affrontare il problema della sparizione degli insetti: l’interesse porta allo studio, che porta a una maggiore consapevolezza, che a sua volta genera preoccupazione e spinge all’azione. Dopo che sono stati diffusi i dati di Krefeld, ci sono stati dibattiti nel Bundestag tedesco e nel parlamento europeo su come proteggere la biodiversità degli insetti. Gli stati dell’Unione europea hanno votato per estendere il divieto di usare i pesticidi a base di neonicotinoidi e hanno cominciato a finanziare altre ricerche per capire come il numero degli insetti sta cambiando, quali sono le cause di questo cambiamento e cosa si può fare.

I ricercatori chiedono ai governi di collaborare, suggeriscono soluzioni creative come includere habitat per gli insetti nei progetti delle strade, delle linee elettriche, delle ferrovie e di altre infrastrutture, e chiedono nuovi studi. Potrebbero essere necessari cambiamenti tanto profondi quanto lo sono le cause che hanno determinato questa situazione. “È un’altra prova del fatto che stiamo distruggendo i sistemi che sostengono la vita sul pianeta”, dice Lister. “La natura è resiliente, ma la stiamo portando a tali estremi che prima o poi il sistema collasserà”.

Gli scienziati sperano che gli insetti avranno la possibilità di dimostrare questa resilienza. Mentre le tigri mettono al mondo tre o quattro cuccioli alla volta, in Australia un esemplare di epialo del luppolo è arrivato a deporre 29.100 uova, e ne aveva ancora 15mila nelle ovaie. La grande fertilità che li contraddistingue dovrebbe permettere agli insetti di riprendersi, ma solo se avranno l’opportunità e lo spazio per farlo.

“È un discorso che dobbiamo affrontare al più presto”, dice Goulson. “Se perdiamo gli insetti, tutta la vita sulla Terra…”. Qui si ferma, e la pausa sembra durare un’eternità.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è stato pubblicato l’11 gennaio 2019 sul numero 1289 di Internazionale.

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