Questo articolo è uscito sul numero 823 di Internazionale.

Nel 2004 Marian Bakermans-Kranenburg, docente di studi sull’infanzia e la famiglia all’università olandese di Leida, ha filmato la vita di un gruppo di famiglie con bambini di età compresa tra uno e tre anni che avevano un comportamento antagonista, aggressivo, non collaborativo e irritante. Un comportamento che gli psicologi chiamano esternalizzazione: i bambini piangono, urlano, picchiano, fanno capricci, lanciano oggetti e respingono ostinatamente qualsiasi richiesta ragionevole. Un atteggiamento abbastanza normale a quell’età. Ma, secondo alcune ricerche, i bambini che lo fanno troppo spesso rischiano in seguito di essere stressati e confusi, di avere difficoltà nell’apprendimento e nei rapporti con i compagni e di diventare adulti asociali e aggressivi.

Bakermans-Kranenburg e i suoi colleghi avevano selezionato 2.408 bambini, chiedendo ai genitori di compilare un questionario. Poi si erano concentrati sul 25 per cento di bambini che, secondo le risposte date dai genitori nel questionario, si abbandonavano più spesso all’esternalizzazione. La ricercatrice voleva modificare il loro comportamento. Seguendo un protocollo studiato dal suo laboratorio, Bakermans-Kranenburg e i suoi collaboratori dovevano visitare 120 famiglie per sei volte nell’arco di otto mesi. Bisognava filmare la madre e il bambino nelle loro attività quotidiane, alcune delle quali richiedevano obbedienza o collaborazione, e poi scegliere le parti più significative del filmato e mostrarle alle madri. Accanto a questo gruppo, ne avevano formato uno di controllo formato da bambini con caratteristiche simili, ma che non ricevevano le stesse attenzioni.

Gli interventi hanno funzionato. Vedendo i filmati, le mamme hanno imparato a cogliere degli indizi che fino a quel momento non avevano notato e a reagire in modo diverso a certe situazioni. Molte di loro, per esempio, avevano accettato senza troppa convinzione di leggere un libro illustrato ai loro bambini irrequieti, pensando che non sarebbero mai rimasti buoni ad ascoltare. Ma secondo Bakermans-Kranenburg, quando le madri guardavano il filmato “si accorgevano con sorpresa che quell’attività piaceva molto ai bambini e anche a loro”. Quasi tutte hanno cominciato a leggere libri ai figli regolarmente creando, come ha spiegato Bakermans-Kranenburg, “dei momenti di tranquillità che avevano sempre ritenuto impossibili”. Anche il comportamento dei bambini è cambiato. Dopo un anno le esternalizzazioni erano diminuite del 16 per cento, mentre nel gruppo di controllo il miglioramento era stato solo del 10 per cento. La reazione delle madri, inoltre, era diventata più positiva e costruttiva.

Varianti pericolose
I programmi che riescono a modificare la dinamica genitore-figlio sono molto rari. Ma valutare l’efficacia dell’intervento non era l’unico obiettivo dei ricercatori olandesi. L’équipe voleva soprattutto verificare una nuova ipotesi sul modo in cui i geni influenzano il comportamento, un’ipotesi che potrebbe farci rivedere le teorie non solo sulle malattie mentali e sui disturbi comportamentali, ma anche sull’evoluzione umana.

Il gruppo era particolarmente interessato a una nuova interpretazione di una delle teorie più importanti della ricerca sui disturbi psichiatrici e della personalità. Secondo questa teoria, certe varianti di alcuni geni comportamentali aumentano la tendenza a soffrire di determinati disturbi psichiatrici, dell’umore o della personalità. L’ipotesi, confermata negli ultimi quindici anni da molti studi, è chiamata modello della diatesi dello stress o della vulnerabilità genetica ed è ormai molto diffusa tra gli studiosi di psichiatria e di scienza del comportamento. I ricercatori hanno individuato almeno una decina di varianti che possono aumentare la predisposizione di una persona alla depressione, all’ansia, al disturbo da deficit di attenzione e iperattività, a un’elevata tendenza a correre rischi, a comportamenti asociali, sociopatici o violenti, e ad altri disturbi. Questo succede se, e solo se, la persona portatrice di quella variante vive un’infanzia traumatica o stressante, o esperienze particolarmente dolorose in età adulta.

L’ipotesi della vulnerabilità ha già modificato la nostra visione di molti disturbi psichiatrici e comportamentali, perché li spiega non come un prodotto della natura o della cultura, ma di una complessa serie di “interazioni tra gene e ambiente”. I geni non ci condannano ad avere questi disturbi, ma se abbiamo la versione “cattiva” di certi geni e la vita ci tratta male, tendiamo a soffrirne.

Di recente, tuttavia, da questa ipotesi ne è emersa un’altra che quasi la capovolge. Secondo il nuovo modello, è un errore considerare i geni “rischiosi” solo come uno svantaggio. È vero che in un contesto sfavorevole questi geni possono provocare delle disfunzioni, ma in un contesto favorevole possono anche rivelarsi preziosi. Quindi la sensibilità genetica alle esperienze negative, individuata grazie all’ipotesi della vulnerabilità, è solo il lato negativo di un fenomeno più generale: una maggiore sensibilità genetica a tutte le esperienze.

Alla base di alcuni problemi angosciosi dell’umanità ci sono certe varianti di geni

Sono sempre di più le prove a favore di questa tesi. Molte sono disponibili da anni, ma la maggior parte dei ricercatori le ha ignorate perché la genetica comportamentale si è concentrata soprattutto sulle disfunzioni. Come spiega Jay Belsky, uno psicologo dello sviluppo dell’università di Londra, “nel campo della genetica comportamentale la maggior parte degli studi è stata condotta da persone che si occupano di malattie mentali e sono interessate soprattutto alla vulnerabilità. Non vedono il lato positivo, perché non lo cercano”.

Anche se è una novità per la psichiatria biologica moderna, questa ipotesi è confermata dalla saggezza popolare, come hanno sottolineato l’anno scorso sulla rivista Current Directions in Psychological Science lo psicologo dello sviluppo Bruce Ellis, dell’università dell’Arizona, e il pediatra dello sviluppo W. Thomas Boyce, dell’università della Columbia Britannica, in Canada. Gli svedesi, osservano Ellis e Boyce nel loro saggio intitolato Biological sensitivity to contest, parlano da tempo di bambini “soffioni”. I soffioni sono bambini sani e normali, dotati di geni “elastici” che gli permettono di cavarsela bene quasi ovunque, sia che crescano nell’equivalente di una crepa del marciapiede sia in quello di un giardino ben curato. Secondo Ellis e Boyce, ci sono anche bambini “orchidea”, che se sono ignorati o maltrattati appassiscono, ma se vengono coltivati in serra fioriscono in modo spettacolare.

Questa ipotesi, che chiamerò teoria dell’orchidea, potrebbe sembrare a prima vista un’aggiunta a quella della vulnerabilità. Potrebbe significare semplicemente che l’ambiente e l’esperienza possono spingere una persona in una direzione o nell’altra. Ma in realtà è un modo completamente nuovo di vedere la genetica e il comportamento umano. Il rischio diventa potenzialità, la vulnerabilità diventa plasticità e sensibilità. È una di quelle idee semplici che possono avere implicazioni enormi. Alcune varianti genetiche di solito considerate sfortunate possono essere interpretate come scommesse evolutive che implicano forti rischi, ma offrono anche la possibilità di grandi successi. E i genitori favoriti dalla selezione saranno quelli che investono sia nei soffioni sia nelle orchidee.

Secondo questa ipotesi, avere sia figli soffione sia figli orchidea fa aumentare le possibilità di successo di una famiglia (e di una specie) nel corso del tempo e in qualsiasi ambiente. La diversità di comportamenti di questi due caratteri garantisce esattamente quello di cui ha bisogno una specie forte e intelligente se vuole diffondersi e dominare un mondo in evoluzione. I soffioni garantiscono la stabilità di una popolazione. Le orchidee, che sono meno numerose, possono trovarsi in difficoltà in alcuni ambienti, ma eccellere in quelli che gli sono più congeniali. E anche se hanno un’infanzia travagliata, la loro maggiore reattività – la continua ricerca di novità, l’irrequietezza, la difficoltà di concentrazione, la tendenza a correre rischi, l’aggressività – in certe situazioni si rivela utile, come nelle guerre, nei conflitti sociali e nelle migrazioni verso nuovi ambienti. Messi insieme, gli stabili soffioni e le irrequiete orchidee assicurano una flessibilità adattiva che nessuno dei due potrebbe garantire da solo. Insieme ottengono risultati individuali e collettivi altrimenti irraggiungibili.

Questa teoria fornisce anche la risposta a una domanda evolutiva fondamentale, che l’ipotesi della vulnerabilità non può dare. Se le varianti di certi geni generano soprattutto disfunzioni e problemi, come hanno fatto a sopravvivere alla selezione naturale? I geni di questo tipo avrebbero dovuto essere eliminati. Eppure, circa un quarto degli esseri umani è portatore della variante più documentata di gene della depressione, mentre più di un quinto è portatore della variante studiata da Bakermans-Kranenburg, che è associata all’esternalizzazione, all’asocialità, al comportamento violento, al deficit d’attenzione e iperattività e all’ansia. L’ipotesi della vulnerabilità non spiega queste cose, la teoria dell’orchidea sì.

È una visione innovativa e perfino sconcertante della forza e della fragilità umana. Da più di dieci anni i sostenitori dell’ipotesi della vulnerabilità dicono che alla base di alcuni dei problemi più angosciosi dell’umanità – disperazione, alienazione e crudeltà a tutti i livelli – ci sono certe varianti specifiche dei geni. La teoria dell’orchidea accetta questa tesi ma aggiunge, in modo provocatorio, che quegli stessi geni sono anche responsabili dello straordinario successo della nostra specie.

Prove concrete
La teoria dell’orchidea, detta anche ipotesi della plasticità, della sensibilità o della suscettibilità differenziale, non è stata ancora testata ad ampio raggio, perché è ancora troppo recente. Molti ricercatori, perfino quelli che si occupano di scienza del comportamento, ne sanno poco o niente. Alcuni, soprattutto quelli più restii a collegare comportamenti specifici con geni specifici, si dicono preoccupati. Ma da quando sono emerse prove sempre più concrete a suo favore, la maggior parte dei medici e dei ricercatori dimostra un grande interesse. Molti psicologi, psichiatri, esperti di sviluppo infantile, genetisti, etologi e altri scienziati cominciano a pensare che, come dice lo psicologo dello sviluppo Karlen Lyons-Ruth, della facoltà di medicina di Harvard, “è ora di prendere sul serio questa teoria”.

Con i dati raccolti grazie ai suoi interventi filmati, l’équipe di Leida ha cominciato a verificare l’ipotesi per capire se i bambini che soffrono di più nelle situazioni negative traggono anche più profitto da quelle positive. Per scoprirlo, Bakermans-Kranenburg e il suo collega Marinus van Ijzendoorn hanno studiato la struttura genetica dei bambini che partecipavano al loro esperimento. Si sono concentrati su uno specifico “allele di rischio” associato al deficit d’attenzione e iperattività e all’esternalizzazione. Si chiamano allele tutte le varianti di un gene polimorfico, cioè in grado di assumere più di una forma. Un allele di rischio, quindi, è una variante del gene che aumenta le probabilità di avere un certo disturbo.

Bakermans-Kranenburg e van Ijzendoorn volevano vedere se i bambini con un allele di rischio per l’esternalizzazione e il deficit d’attenzione e iperattività avrebbero reagito nello stesso modo sia in un ambiente positivo sia in uno negativo. Un terzo dei bambini del gruppo era portatore di questo allele di rischio, gli altri due terzi ne avevano una versione considerata “protettiva”. Anche il gruppo di controllo aveva una distribuzione simile.

Com’è possibile che sia così facile trasformare in vantaggio uno svantaggio?

Sia l’ipotesi della vulnerabilità sia quella dell’orchidea prevedevano che i bambini del gruppo di controllo con un allele di rischio se la cavassero peggio di quelli che avevano un allele protettivo. E infatti è stato così, ma la differenza era minima. In un anno e mezzo il livello di esternalizzazione dei bambini geneticamente protetti è diminuito dell’11 per cento, mentre in quelli “a rischio” si è ridotto solo del 7 per cento. In entrambi i casi i miglioramenti sono stati modesti, simili a quelli che i ricercatori si aspettavano con l’aumento dell’età. La differenza tra i due gruppi era quasi impercettibile, anche se rilevante dal punto di vista statistico.

Il vero test, però, era quello all’interno del gruppo sul quale erano stati effettuati gli interventi. Come avrebbero reagito i bambini portatori dell’allele di rischio? Secondo il modello della vulnerabilità, avrebbero dovuto rispondere meno dei loro compagni portatori dell’allele protettivo. Il modesto miglioramento prodotto dall’intervento non avrebbe compensato la loro vulnerabilità generale. In realtà i portatori dell’allele di rischio hanno battuto i loro compagni: hanno ridotto il loro punteggio di esternalizzazione di quasi il 27 per cento, mentre nei portatori dell’allele protettivo è diminuito solo del 12 per cento (non molto di più dell’11 per cento del gruppo di controllo con lo stesso allele). L’équipe di Leida ha dedotto che gli alleli di rischio costituiscono non solo un rischio, ma anche una potenzialità.

Ma com’è possibile che sia così facile trasformare in vantaggio uno svantaggio? Secondo il pediatra W. Thomas Boyce, che in trent’anni di ricerche sullo sviluppo infantile ha lavorato con molti bambini affetti da vari disturbi, la teoria dell’orchidea “ha modificato radicalmente il nostro modo di vedere la fragilità umana”. E aggiunge: “Abbiamo verificato che quando i bambini con questo tipo di vulnerabilità sono inseriti nell’ambiente giusto, non solo se la cavano meglio di prima, ma addirittura meglio dei loro coetanei portatori di alleli protettivi. Forse tutte le fragilità umane hanno questo lato positivo”.

Mentre facevo le ricerche per questo articolo, mi sono chiesto quale poteva essere il rapporto tra il mio temperamento e il mio corredo genetico. In passato ho sofferto di depressione e spesso ho pensato di chiedere un’analisi dei miei geni, in particolare di quello del trasportatore della serotonina, detto anche Sert o 5-HTTLPR, che influisce sull’umore. Le due varianti più corte e meno efficienti del gene (quella corta/corta e quella corta/lunga) aumentano il rischio di depressione grave in situazioni difficili. La forma lunga/lunga, invece, sembra avere una funzione protettiva.

Alla fine, però, avevo sempre rinunciato a far analizzare il mio gene Sert. Considerata la mia storia personale e familiare, immaginavo di essere portatore dell’allele corto/lungo, che mi rende moderatamente incline alla depressione. Se lo facevo analizzare, magari mi sarei rassicurato scoprendo di essere portatore della versione lunga/lunga. Ma avrei potuto anche scoprire la versione corta/corta, che è la più rischiosa. E non ero sicuro di volerlo sapere.

Quando ho cominciato a occuparmi della teoria delle orchidee, però, ho cambiato idea. Così ho telefonato a un amico ricercatore di New York che studia il rapporto tra depressione e gene trasportatore della serotonina. Il giorno dopo un corriere ha lasciato a casa mia un pacchetto con una provetta. Ci ho sputato dentro, poi l’ho chiusa bene e l’ho infilata di nuovo nel contenitore di protezione. Un’ora dopo il corriere è tornato a prenderla.

Stretta somiglianza
Tra tutte le prove a sostegno dell’orchidea, forse la più convincente è quella fornita da Stephen Suomi, un ricercatore specializzato nello studio delle scimmie reso. Suomi dirige un ampio complesso di laboratori e habitat per le scimmie nelle campagne del Maryland: il laboratorio di etologia comparata dei National institutes of health. Da quarantun anni, prima all’università del Wisconsin e poi, dal 1983, nel laboratorio del Maryland, Suomi studia le origini del carattere e del comportamento delle scimmie reso, che condividono con noi il 95 per cento del loro dna. Questa stretta somiglianza ci ha aiutato a capire i motivi dei nostri comportamenti e ha contribuito anche alla teoria dell’orchidea.

Suomi è il diretto successore di Harry Harlow, uno degli scienziati del comportamento più influenti del novecento. Negli anni trenta, quando Harlow cominciò le sue ricerche, lo studio dello sviluppo infantile era dominato da un comportamentismo spietato e meccanicistico. Il movimento era guidato da John Watson, che considerava l’amore materno “uno strumento pericoloso”: consigliava ai genitori di lasciar piangere i bambini, di non prenderli mai in braccio per farli contenti e confortarli, di non baciarli troppo spesso, e di farlo solo sulla fronte. La madre non era importante per l’affetto che dava ma per la sua capacità di condizionare i comportamenti.

Dopo una serie di esperimenti ingegnosi, ma a volte inquietanti e crudeli, condotti sulle scimmie, Harlow rinunciò al comportamentismo. Il suo esperimento più famoso dimostrava che i piccoli di scimmia reso allevati da soli o in compagnia di coetanei preferivano una finta “madre” di stoffa pelosa che non li nutriva a una di ferro che dispensava cibo a volontà. Harlow dimostrò così che i piccoli avevano un disperato bisogno di affetto e che, privandoli di un rapporto fisico, emotivo e sociale c’era il rischio di provocare alcuni gravi disturbi psichici. Negli anni cinquanta i risultati delle sue ricerche costituirono la base della nuova teoria dell’attaccamento infantile che, con la sua enfasi sul calore del rapporto tra genitori e figli e sull’importanza di un’infanzia felice, domina ancora oggi le teorie sullo sviluppo infantile.

Dopo aver assunto la direzione del laboratorio di Harlow, all’università del Wisconsin, Suomi ha allargato e approfondito le ricerche avviate dal suo maestro. I nuovi strumenti gli hanno permesso di analizzare non solo il carattere delle scimmie, ma anche le basi psicologiche e genetiche del loro comportamento. Poi, grazie all’ambientazione naturalistica del laboratorio nel Maryland, ha potuto concentrarsi sia sui rapporti tra madre e figlio sia sull’ambiente familiare e sociale che condiziona il comportamento delle scimmie. “In una colonia di scimmie reso la vita è molto complicata”, dice Suomi. Questi animali devono imparare fin da piccoli a muoversi in un sistema sociale gerarchizzato. “Quelli che ci riescono, se la cavano bene”, aggiunge. “Quelli che non ci riescono hanno seri problemi”.

Le scimmie reso maturano di solito a quattro o cinque anni e vivono fino a venti. Il rapporto tra il loro sviluppo e il nostro è più o meno di uno a quattro: una scimmietta di un anno è come un bambino di quattro anni. Generalmente le femmine partoriscono ogni anno da quando ne compiono quattro. Anche se hanno rapporti sessuali tutto l’anno, il periodo di fertilità dura solo un paio di mesi e coincide per tutte. Di solito, infatti, il branco produce gruppi di piccoli della stessa età.

Nel corso del primo mese la madre tiene il neonato attaccato a sé. Quando ha circa due settimane, il piccolo comincia a esplorare il mondo, inizialmente solo a pochi metri dalla madre. Nei sei o sette mesi successivi queste incursioni aumentano di frequenza, durata e distanza. Ma la mamma può sempre vedere o sentire i piccoli. Se qualcosa li spaventa, corrono subito da lei. A volte, invece, è lei a chiamarli se percepisce un pericolo.

Quando la scimmietta ha circa otto mesi, la femmina torna ad accoppiarsi. Prevedendo l’arrivo di un nuovo figlio, la madre permette al piccolo di passare sempre più tempo con i suoi coetanei, con i fratelli maggiori e con qualche visitatore occasionale di un’altra famiglia o di un altro branco. In caso di necessità saranno la famiglia, gli amici e gli alleati a proteggerlo.

Le femmine restano con il loro gruppo per tutta la vita, mentre i maschi se ne vanno intorno ai quattro o cinque anni, che corrispondono più o meno ai 16-20 anni di un essere umano. Spesso sono allontanati dalle femmine, che diventano sempre più rissose e violente. All’inizio si riuniscono in bande di soli maschi e vivono più o meno separati dalle femmine. Dopo qualche mese o un anno lasciano il gruppo e cercano di introdursi in una nuova famiglia o in un nuovo branco. Se ci riescono, entrano a far parte dei maschi adulti che fungono da partner sessuali, compagni e difensori di diverse femmine. Ma solo metà dei maschi ci riesce. Durante il periodo di transizione, quando non sono protetti dalla banda o dal gruppo, se non giocano bene le loro carte sono soggetti agli attacchi di altri maschi giovani, di bande rivali o di nuovi membri del branco, e molti di loro muoiono.

All’inizio del suo lavoro Suomi ha individuato due tipi di scimmie che hanno problemi di relazione. Uno di questi, il tipo depresso o nevrotico, costituisce il 20 per cento di ogni generazione. Queste scimmie tardano a lasciare la madre e da adulti sono insicuri, introversi e ansiosi, di conseguenza stringono meno amicizie e alleanze. Un secondo tipo, di solito maschio, è quello che Suomi chiama prepotente, una scimmia insolitamente aggressiva con tutti. Questi animali costituiscono dal 5 al 10 per cento di ogni generazione. “Le scimmie reso sono piuttosto aggressive in generale”, dice Suomi, “anche quando sono giovani, i loro giochi sono violenti. Ma di solito nessuno si fa male, tranne i prepotenti, perché tendono a fare cose stupide: affrontano spesso le scimmie dominanti, si intromettono tra le madri e i loro figli. Non sanno calibrare la loro aggressività e non sanno capire quando bisogna tirarsi indietro. I loro conflitti tendono sempre a intensificarsi”. Questi attaccabrighe raggiungono un punteggio molto basso nei test sull’autocontrollo, per esempio in quello che Suomi ha chiamato “ora dell’aperitivo”, dove le scimmie hanno accesso illimitato per un’ora a una bevanda alcolica insapore: la maggior parte si ferma dopo tre o quattro bevute, i bulli “bevono fino a cadere stecchiti”.

I nevrotici e i prepotenti vanno incontro a destini molto diversi. I nevrotici maturano tardi, ma se la cavano bene. Le femmine saranno madri un po’ nervose, ma la crescita dei loro figli dipenderà dall’ambiente in cui li allevano. Se l’ambiente è sicuro, diventano individui più o meno normali, se è insicuro, anche loro diventano nervosi. I maschi, invece, restano più a lungo del solito nella cerchia familiare della madre, a volte fino a otto anni. Possono farlo perché non creano problemi. E questo soggiorno prolungato gli permette di acquisire una competenza sociale e un rispetto delle gerarchie tali che, quando decidono di andarsene, riescono a inserirsi in un nuovo branco con meno difficoltà di quelli che si allontanano prima. Non sono prolifici come i maschi più sicuri di sé, difficilmente raggiungono un rango elevato nel nuovo branco e, a causa della loro condizione di sudditanza, rischiano di più in caso di conflitto.

Ma per i prepotenti le cose vanno molto peggio. Stringono poche amicizie anche quando sono piccoli. E a due o tre anni la loro estrema aggressività costringe le femmine del branco a cacciarli via, se è necessario anche con la forza. A quel punto sono le bande di maschi a respingerli, e poi gli altri branchi. Emarginati, nella maggior parte dei casi muoiono prima di raggiungere l’età adulta. Pochi di loro si accoppiano.

Suomi ha capito subito che questi due tipi di scimmie tendevano a nascere da un particolare tipo di madri. I prepotenti avevano madri dure e severe, che gli impedivano di socializzare. Gli ansiosi nascevano invece da madri ansiose, introverse e confuse. L’ereditarietà era chiara, ma quanta parte di quei tratti della personalità era dovuta ai geni e quanta al modo in cui erano stati allevati?

Per scoprirlo, Suomi ha preso i neonati di madri introverse che dai test standardizzati risultavano già nervosi, gli ha dato delle “supermamme” molto affettuose e ha visto che crescevano quasi normali. Intanto Dario Maestripieri, dell’università di Chicago, prendeva i neonati tranquilli, figli di femmine sicure e affettuose, e li affidava a madri violente. In quella situazione le scimmiette crescevano tese e nervose. La conclusione sembrava chiara: i geni avevano una parte di responsabilità, ma l’ambiente era altrettanto importante.

Rischio di depressione
Alla fine degli anni novanta, quando sono stati disponibili gli strumenti per studiare i geni, Suomi ha potuto analizzare direttamente l’apporto dei geni e dell’ambiente nello sviluppo delle scimmie. Ha fatto una scoperta importante grazie a un progetto avviato nel 1997 con Klaus-Peter Lesch, uno psichiatra dell’università di Würzburg. L’anno precedente Lesch aveva pubblicato alcuni dati da cui emergeva per la prima volta che il gene trasportatore della serotonina aveva tre varianti (un allele corto/corto, uno corto/lungo e uno lungo/lungo) e che le due versioni più corte aumentavano il rischio di depressione, ansia e di altri disturbi psichici. Suomi aveva chiesto a Lesch di verificare il genotipo delle sue scimmie e il ricercatore tedesco aveva scoperto che possedevano le tre varianti, anche se la forma corta/corta era rara.

Suomi e Lesch, insieme a J. Dee Higley, un collega del National institutes of health, hanno avviato un tipo di studio che ora è considerato un classico sul rapporto tra geni e ambiente. Quando ha visto i risultati, Suomi si è reso conto di avere finalmente la prova di un’interazione tra geni e ambiente molto importante per il comportamento delle sue scimmie. “Ho dato un’occhiata a quel grafico”, racconta, “e ho detto subito: ‘Stappiamo una bottiglia di champagne’”.

La maggior parte dei primati vive bene solo nel suo ambiente naturale

Suomi e Lesch hanno pubblicato i loro risultati nel 2002 su Molecular Psychiatry, una rivista di genetica comportamentale. Quello stesso anno due psicologi del King’s college di Londra, Avshalom Caspi e Terrie Moffitt, hanno pubblicato i risultati del primo di due grandi studi longitudinali (entrambi basati sulla storia di centinaia di neozelandesi) che si sarebbero rivelati particolarmente influenti. Il primo, pubblicato su Science, dimostrava che l’allele corto di un altro importante gene che sintetizza un neurotrasmettitore (noto come gene Maoa) fa aumentare nettamente le probabilità di comportamenti asociali negli adulti umani maltrattati da bambini. Il secondo, uscito nel 2003 sempre su Science, dimostrava che quando si possiede la versione corta/corta o corta/lunga, si corre un rischio di depressione superiore alla norma se si è sottoposti a una situazione di stress.

Negli ultimi anni decine di questi studi hanno permesso di verificare l’ipotesi della vulnerabilità. Molti contenevano dati a favore della teoria dell’orchidea, anche se all’epoca sono passati inosservati. Molte di queste prove le ha raccolte lo stesso Suomi negli anni successivi al suo studio del 2002. Ha scoperto, per esempio, che le scimmie portatrici della presunta variante rischiosa del trasportatore di serotonina, quando avevano una madre affettuosa e una posizione sociale sicura, svolgevano meglio alcuni compiti importanti (trovare compagni di gioco da giovani, stringere alleanze, reagire in modo sensato nei conflitti e in altre situazioni di pericolo) rispetto alle scimmie altrettanto fortunate ma portatrici del presunto allele protettivo.

Suomi ha fatto anche un’altra scoperta interessante. Con i suoi colleghi ha analizzato i geni trasportatori di serotonina di sette delle 22 specie di macaco, il genere di primati a cui appartengono le scimmie reso. Nessuna di queste specie mostrava il polimorfismo del gene trasportatore della serotonina, che inizialmente Suomi aveva ritenuto responsabile della flessibilità delle reso. Gli studi condotti su altri importanti geni comportamentali dei primati hanno prodotto risultati simili. Secondo Suomi, dall’analisi del gene trasportatore della serotonina negli altri primati studiati finora, compresi gli scimpanzé, i babbuini e i gorilla, non è emerso “assolutamente niente”. Questa scienza è giovane e non tutti i dati sono stati ancora raccolti. Ma finora, tra tutti i primati, sembra che solo le scimmie reso e gli esseri umani mostrino polimorfismi multipli nei geni associati al comportamento. “Solo noi e loro”, afferma Suomi.

Il motivo del successo
Questa scoperta lo ha spinto a pensare a un’altra particolarità che condividiamo con le scimmie reso. La maggior parte dei primati vive bene solo nel suo ambiente naturale. Se viene trasferita altrove muore. Ma ci sono due specie, dette “infestanti”, che sono capaci di vivere quasi ovunque e di adattarsi facilmente ad ambienti nuovi, mutevoli o difficili: gli esseri umani e le scimmie reso. Il motivo del nostro successo potrebbe essere proprio questa adattabilità. E la causa della nostra adattabilità potrebbero essere le variazioni dei nostri geni comportamentali.

A maggio Elizabeth Mallott, una ricercatrice del laboratorio di Suomi, è arrivata al lavoro e ha trovato un gruppo di scimmie nel parcheggio. Si stringevano l’una all’altra, erano nervose e avevano segni di morsi e graffi. Quasi tutte le scimmie che saltano le due reti elettrificate intorno al recinto non vedono l’ora di tornare indietro. Quelle invece non volevano. Dopo aver rinchiuso le scimmie evase in un edificio vicino, la ricercatrice – che nel frattempo era stata raggiunta dal collega Matthew Novak – è entrata nel recinto. La colonia, formata da un centinaio di scimmie, viveva lì da trent’anni. Di solito i cambiamenti all’interno della sua gerarchia avvenivano in modo lento e graduale. Ma quando hanno cominciato a guardarsi intorno, Mallott e Novak si sono accorti che era successo qualcosa di importante. “Gli animali erano in posti diversi dal solito”, mi ha spiegato Novak. “Individui che di solito non stavano insieme, erano seduti uno accanto all’altro. Le norme sociali erano sospese”.

I ricercatori hanno subito capito che un gruppo chiamato Famiglia 3, da anni sottomesso alla Famiglia 1, aveva fatto un golpe. Da qualche anno la Famiglia 3 era diventata più numerosa della Famiglia 1. Ma la Famiglia 1 era rimasta al potere grazie all’autorità e alle doti diplomatiche del suo capo, la saggia matriarca Cocobean. Una settimana prima del golpe una delle figlie di Cocobean, Pearl, era stata portata via dal recinto e ricoverata in una clinica veterinaria per un problema ai reni. Inoltre, il maschio dominante della Famiglia 1 era ormai vecchio e malato di artrite. Pearl era particolarmente vicina a Cocobean e, essendo l’unica discendente senza figli, era destinata a proteggerla. La sua assenza e la malattia del maschio avevano indebolito la Famiglia 1.

“Probabilmente la rivolta era in preparazione da qualche settimana”, dice Novak. “Ma, in base alla nostra ricostruzione, era cominciata solo la sera prima, quando una giovane femmina di nome Fiona, una borderline di tre anni della Famiglia 1 nota per la sua aggressività, aveva cominciato a litigare con qualcuno della Famiglia 3. Il conflitto si era allargato. La Famiglia 3 aveva visto la possibilità di conquistare il potere e aveva cacciato la Famiglia 1. Si capiva da chi era ferito, da chi era seduto nei posti preferiti, da chi era stato allontanato dalla colonia e da chi all’improvviso era diventato ossequioso. Una femmina della Famiglia 1, Quark, era stata uccisa e un’altra, Josie, abbiamo dovuto abbatterla. Avevano attaccato anche tutte le altre figlie di Cocobean. Qualcuno aveva morso il grande maschio della Famiglia 1 con tanta violenza che lui non poteva più muovere un braccio. Anche Fiona era stata maltrattata. Era stato un attacco sistematico. Prima avevano aggredito il capo del gruppo e poi erano scesi lungo la scala gerarchica”.

Novak mi ha accompagnato a fare un giro intorno al recinto. La Famiglia 3 occupava tranquillamente il nuovo centro di potere, una capanna vicino allo stagno. Si pulivano il mantello a vicenda, sonnecchiavano e ci fissavano quando le guardavamo. Un gruppo più nervoso si era riunito in un’altra capanna più in basso. Quando siamo arrivati a dieci metri di distanza, la scimmia più grande del gruppo è saltata sulle sbarre della gabbia, ha cominciato a urlare contro di me, a scuotere le sbarre e a mostrarmi i denti.

Dopo quella visita sono andato nello studio di Suomi per chiedergli cosa ne pensava. Suomi ha riflettuto molto sul golpe. La rivolta metteva insieme tutti i fili che aveva intessuto nella sua ricerca: l’importanza delle prime esperienze, l’influenza dell’ambiente, il rapporto genitori-figli e l’eredità genetica, il primato assoluto dei legami familiari e sociali, l’esito di tratti diversi in situazioni diverse. E ora, alla luce della teoria dell’orchidea, stava cominciando a capire che quei fili potevano essere intrecciati in un altro modo.

“Quindici anni fa”, mi ha detto, “Carol Berman, una ricercatrice che lavorava alla State university of New York di Buffalo, studiò a lungo una grande colonia di scimmie reso che vive su un’isola portoricana. Voleva vedere cosa succedeva quando le dimensioni del gruppo cambiavano. Intorno alle cento unità il gruppo raggiungeva il limite e si divideva in branchi più piccoli”. Questi limiti, che variano in base alle specie, sono chiamati “numeri di Dunbar”, da Robin Dunbar, uno psicologo evoluzionista britannico secondo il quale il limite di gruppo di una specie riflette la quantità di rapporti sociali che i suoi individui riescono a gestire a livello cognitivo. Le osservazioni di Berman facevano pensare che il numero di Dunbar di una specie non riflettesse solo le sue capacità cognitive, ma anche la gamma di temperamenti e di comportamenti dei suoi membri. Berman vide che quando il gruppo era di dimensioni ridotte le madri potevano permettere ai loro piccoli di giocare liberamente, perché gli estranei non si avvicinavano quasi mai. Ma quando il gruppo cresceva, gli estranei si avvicinavano più spesso. Le femmine adulte diventavano più vigili, protettive e aggressive. I piccoli e i maschi adulti seguivano il loro esempio. Quindi un numero sempre maggiore di scimmie riceveva un’educazione che faceva emergere il lato meno socievole delle loro potenzialità comportamentali, i conflitti diventavano più frequenti, le rivalità più forti. Alla fine le cose si mettevano così male che il branco doveva dividersi. “Qui è successa esattamente la stessa cosa”, ha detto Suomi. “Quello che succede a livello diadico, tra madre e figlio, influisce sulla natura e sulla sopravvivenza dell’intero gruppo sociale”.

Gli studi di Suomi e di altri ricercatori dimostrano che le prime esperienze possono cambiare totalmente il modo di esprimersi dei geni, cioè se, quando e con quale forza i geni si attivano o si disattivano. Suomi sospetta che le prime esperienze possano influire sui successivi schemi di espressione dei geni e anche sul comportamento, compresa la flessibilità e la reattività di un animale, contribuendo a stabilire il livello di sensibilità di alcuni alleli importanti. Un’infanzia carica di tensioni, spiega Suomi, induce un atteggiamento di cauta diffidenza o di vigile aggressività in qualsiasi scimmia (i genitori preparano così i loro figli ad affrontare i momenti difficili), ma questo effetto può essere più pronunciato in quegli animali che hanno alleli dei geni del comportamento particolarmente elastici.

Suomi pensa che nella fase di preparazione di quella che chiama “la rivolta di palazzo” sia successo proprio questo. L’incauta aggressione di Fiona si è dimostrata disastrosa per lei e per la Famiglia 1. Ma la Famiglia 3, che per anni era stata diplomaticamente deferente nei confronti della prima, con il suo attacco inaspettatamente aggressivo e prolungato aveva cambiato il suo destino. Suomi ipotizza che nelle condizioni di maggiore tensione e affollamento di una grande colonia le interazioni tra geni e ambiente abbiano reso alcune scimmie della Famiglia 3, soprattutto quelle dotate di alleli “orchidea” più reattivi, potenzialmente più aggressive. Durante il periodo in cui non potevano permettersi di mettere in discussione la gerarchia – prima della partenza di Pearl – l’aggressività avrebbe potuto trascinarle in un conflitto invincibile e forse fatale. Ma in assenza di Pearl la situazione era cambiata, e i membri della Famiglia 3 avevano sfruttato l’opportunità per liberare il loro potenziale di aggressività.

Gli esseri umani sono arrivati a dominare il pianeta grazie a delle mutazioni genetiche

Il golpe aveva fatto emergere anche un’altra cosa: un tratto genetico che è maladattivo in una situazione può dimostrarsi estremamente adattivo in un’altra. Non è difficile accorgersi che questo succede anche negli esseri umani. Per sopravvivere ed evolversi ogni società ha bisogno di alcuni individui che sono più aggressivi, irrequieti, ostinati, docili, socievoli, iperattivi, flessibili, solitari, ansiosi, introspettivi, vigili – ma anche più scontrosi, irritabili o violenti – della norma.

Tutto questo spiega la permanenza degli alleli di rischio nel corso dell’evoluzione. Siamo sopravvissuti non malgrado quegli alleli, ma proprio grazie a loro. Quegli alleli non sono semplicemente sfuggiti al processo di selezione, sono stati volutamente selezionati. Secondo alcuni studi recenti, molti alleli dei geni orchidea, compresi quelli citati finora, sono emersi negli esseri umani solo negli ultimi cinquantamila anni, e ognuno è nato da una mutazione casuale in una sola o in poche persone e poi si è diffuso rapidamente. Le scimmie reso e gli esseri umani si sono staccati dalla loro stirpe comune 25 o 30 milioni di anni fa, quindi questi polimorfismi devono essersi creati e diffusi separatamente nelle due specie. E si sono rivelati utili per entrambe.

Come osservano i due antropologi evoluzionisti Gregory Cochran e Henry Harpending, gli ultimi cinquantamila anni sono anche il periodo in cui l’Homo sapiens ha cominciato a diventare un vero essere umano e le popolazioni del continente africano sono aumentate fino a diffondersi su tutto il pianeta. Anche se non includono l’ipotesi del gene orchidea nella loro argomentazione, Cochran e Harpending sostengono che gli esseri umani sono arrivati a dominare il pianeta grazie ad alcune importanti mutazioni che hanno accelerato la loro evoluzione, un processo che l’ipotesi delle orchidee e dei soffioni contribuisce a spiegare.

Le cose variano in base al contesto. Per esempio, se ci sono troppe persone aggressive, scoppiano continui conflitti, e l’aggressività viene rimossa perché è troppo costosa per la società. Quando si riduce al punto da essere meno rischiosa, l’aggressività diventa un tratto prezioso e si diffonde di nuovo.

Agilità mentale
Anche i cambiamenti ambientali e culturali possono influire sulla prevalenza di un allele. La variante orchidea del gene DRD4, per esempio, fa aumentare il rischio di deficit d’attenzione e iperattività. Ma l’irrequietezza può rivelarsi utile in ambienti che premiano la sensibilità a nuovi stimoli. È probabile che l’attuale tendenza a fare più cose contemporaneamente, per esempio, favorisca la selezione di questo tipo di agilità mentale. Possiamo lamentarci quanto vogliamo che il mondo di oggi è troppo irrequieto, ma a giudicare dalla diffusione dell’allele di rischio DRD4, sembra che sia così da circa cinquantamila anni.

Anche se accettiamo l’idea che i geni orchidea ci garantiscono la flessibilità necessaria per riuscire nella vita, studiare la loro dinamica da vicino e in modo così personale può essere inquietante. Dopo che il corriere aveva portato via la mia fialetta di saliva, ho cercato di non pensarci più. E con mia grande sorpresa ci sono riuscito. L’email con i risultati è arrivata un venerdì sera, mentre guardavo Monsters & Co. con i miei figli. All’inizio non ho capito bene il messaggio. “David”, diceva, “ho eseguito l’analisi del dna sul tuo campione di saliva. È andato tutto bene e il tuo genotipo è corto/corto. Per fortuna né tu né io abbiamo una visione deterministica di queste cose e non pensiamo che abbiano una valenza inequivocabile. Fammi sapere se vuoi parlare del tuo risultato o di altre questioni genetiche”.

Quando ho finito di leggere, la casa mi è sembrata più silenziosa. Mentre guardavo dalla finestra il nostro albero di pero, ho sentito un brivido freddo lungo la schiena. Non pensavo che gli avrei dato tanto peso. Quel freddo non era un brivido di paura: improvvisamente sapevo per certo qualcosa che sospettavo da tempo, ma sapevo anche che significava qualcosa di diverso da quello che pensavo. Secondo la teoria delle orchidee, questo particolare allele, la variante più rara e pericolosa del gene trasportatore di serotonina, non mi rendeva solo più vulnerabile ma anche più flessibile. E quel nuovo modo di vedere le cose cambiava tutto. Non avevo la sensazione di avere un handicap. Al contrario, sentivo di avere maggiore capacità di azione. Tutto quello che avrei fatto per migliorare il mio ambiente e la mia esperienza di vita, qualsiasi esperimento avessi condotto su me stesso, sarebbe stato potenziato. Ora il mio allele corto/corto non mi sembra una trappola, ma un trampolino, per quanto scivoloso e un po’ fragile.

Non voglio far analizzare nessun altro dei miei geni comportamentali. E neanche quelli dei miei figli. Cosa potrei scoprire? Che plasmo il loro carattere ogni volta che siamo insieme? Questo lo so già. Ma mi piace pensare che quando porto mio figlio a pesca di salmoni o quando ascolto il complicato racconto dei sogni di suo fratello minore o quando canto una canzoncina a mia figlia di cinque anni mentre torniamo in macchina dal lago, faccio scattare tanti piccoli interruttori che li illumineranno. Non so cosa siamo quegli interruttori, e non ho bisogno di saperlo. Mi basta sapere che possiamo accenderli insieme.

(Traduzione di Bruna Tortorella)

Questo articolo è uscito sul numero 823 di Internazionale. Era stato pubblicato sull’Atlantic.

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