“Come fanno le persone ad addormentarsi? Temo di aver perso l’abitudine”, riflette l’innominata protagonista del racconto Le ore piccole di Dorothy Parker, pubblicato dal New Yorker nel 1933. “A letto presto, e vorresti essere morta. A letto prima delle undici, pazza prima delle sette”.

Se anche a voi è capitato di avere difficoltà a dormire, quasi sicuramente vi riconoscerete in questa frustrazione. Più cerchiamo di creare le condizioni adatte al sonno, più quello sembra sfuggirci; il desiderio stesso di addormentarsi lo rende impossibile. Il personaggio di Parker prova un’angoscia tale per la veglia non voluta da prendere in considerazione l’idea di darsi l’abat-jour in testa.

È probabile che la sensazione sia familiare a tanti: l’insonnia è un disturbo comune. E ha anche un grande impatto economico e sanitario. Eppure per decenni gli scienziati hanno tentato invano di trovare una soluzione valida. Negli ultimi tempi, però, le ricerche sul sonno sono esplose e hanno contribuito a identificare i processi neurologici e mentali alla base dell’insonnia. La comprensione più profonda di come il cervello possa causare questo malessere debilitante significa che è stato raggiunto un punto di svolta per curarlo.

In sostanza, ora abbiamo più elementi per capire perché una persona abbia difficoltà a dormire e quale sia il modo migliore per aiutarla a riposare come disperatamente vorrebbe. “L’insonnia è un problema risolvibile”, conferma Colin Espie dell’università di Oxford.

Rigidi criteri
Parole che sono una dolce musica per le orecchie di molti. Vista la diffusione dell’insonnia, è probabile che voi stessi (o qualcuno che vi sta molto vicino) possiate beneficiare direttamente di queste nuove scoperte. Secondo diverse ricerche, un terzo delle persone fa regolarmente fatica ad addormentarsi e a rimanere addormentato.

Per essere considerata insonnia, l’inquietudine notturna deve verificarsi almeno tre volte alla settimana per un periodo superiore a tre mesi e, soprattutto, la perdita di sonno non dev’essere legata a fattori esterni, come il pianto di un bambino o le troppe feste. Deve inoltre compromettere lo svolgimento delle attività diurne, per stanchezza, irritabilità o difficoltà di concentrazione. Circa il 10 per cento della popolazione mondiale soddisfa questi rigidi criteri, anche se esistono differenze significative tra uomini e donne.

In un mondo ideale, si potrebbe combattere l’insonnia con sonniferi efficaci per tutti e privi di effetti collaterali. Ma al momento non esistono

L’insonnia ha delle ripercussioni sulla salute: chi ne soffre corre un rischio maggiore di sviluppare depressione, diabete, malattie cardiovascolari e di Alzheimer. Ma le implicazioni finanziarie non sono da meno. Nel Regno Unito, la perdita di produttività dovuta all’insonnia equivale a 1,7 milioni di ore lavorative all’anno, con un impatto economico pari a quasi 50 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti ogni anno vanno sprecate 9,9 milioni di ore lavorative, per un danno economico di 411 miliardi di dollari. La mancanza di sonno costa a questi paesi circa il 2 per cento del loro prodotto interno lordo. Dunque, come si può intervenire?

In un mondo ideale, si potrebbe combattere l’insonnia con sonniferi efficaci per tutti e privi di effetti collaterali. Purtroppo questi medicinali non esistono ancora. All’inizio del 2022, Andrea Cipriani e i suoi colleghi dell’università di Oxford hanno esaminato i risultati pubblicati su trenta sonniferi, con una meta-analisi completa di oltre 150 studi clinici.

Il team di ricercatori ha stabilito che un candidato farmaco può essere considerato efficace se agisce in tempi relativamente brevi (entro un mese) e fornisce sollievo per almeno tre mesi, oltre a essere ben tollerato.

Attenzione ai processi mentali
I risultati sono stati deludenti. In totale, solo due farmaci su trenta hanno dimostrato di recare sollievo sia a breve sia a lungo termine. Uno di questi – l’eszopiclone – potenzia l’azione di un aminoacido chiamato Gaba, che inibisce la segnalazione elettrica nei neuroni. Un altro – il lemborexant – blocca l’azione del neuropeptide orexina, che rende i neuroni estremamente eccitabili. Entrambi i farmaci sono stati approvati negli Stati Uniti, ma non ancora nel Regno Unito.

È significativo che l’équipe di Cipriani abbia scoperto come alcuni dei farmaci prescritti più di frequente per il trattamento dell’insonnia – tra cui le benzodiazepine, che agiscono anch’esse attraverso il Gaba – non sembrino dare alcun sollievo a lungo termine, mentre i loro effetti collaterali indesiderati includono stanchezza diurna, vertigini, nebbia cognitiva e rischio di dipendenza.

Esistono anche pillole che modulano i livelli dell’ormone melatonina o imitano la sua azione nel cervello: nelle persone non affette da insonnia, la melatonina si accumula in modo naturale mentre il giorno sfuma nella notte e diminuisce al mattino, regolando così il ciclo sonno-veglia. Ma il team di Cipriani ha raccolto prove molto deboli su eventuali benefici significativi anche a breve termine legati a queste pillole. “Non ha senso prescriverle come trattamento di prima linea (ovvero somministrarle a pazienti che non siano mai stati curati prima con questa terapia)”, conclude Cipriani.

Se le pillole non sono necessariamente una risposta per chi soffre di insonnia, non lo sono nemmeno gli interventi comportamentali troppo semplicistici. Dagli anni settanta fino a tempi abbastanza recenti, l’opzione principale su questo fronte era l’educazione all’“igiene del sonno”, che prevede l’acquisto di un materasso comodo e di buone tende, in modo da rendere la camera da letto il più riposante possibile, e sconsiglia di bere caffè nel pomeriggio o di guardare la tv a letto, per evitare di sentirsi troppo svegli quando è ora di spegnere la luce. Sembrano tutte scelte di buon senso, ma potrebbero non essere particolarmente efficaci.

È l’esito a cui è giunta una revisione pubblicata nel 2021 dei risultati di 89 studi relativi alla cura dell’insonnia, secondo cui l’educazione all’igiene del sonno come unico intervento produce a malapena un miglioramento dei sintomi.

Ma il modo per fare davvero la differenza esiste. Oggi gli psicologi sanno che devono prestare molta più attenzione ai processi mentali che portano all’insonnia. A partire dagli anni novanta, questo aspetto è stato posto al centro della ricerca e gli sforzi stanno cominciando a dare i loro frutti.

Gran parte degli studi si è concentrata sull’idea che le persone affette da insonnia sperimentino una ipereccitazione alimentata da pensieri ruminativi che provocano in loro ansia e nervosismo, rendendo più difficile addormentarsi quando è ora di andare a letto, e possono impedire di entrare in uno stato di sonno profondo, con maggiore probabilità di svegliarsi durante la notte.

Cervello su di giri
Oggi questa teoria è sostenuta da diverse prove, legate tra l’altro alle misurazioni della struttura e delle funzioni del cervello. Nel 2019, per esempio, Kira Vibe Jespersen e i suoi colleghi dell’università di Aarhus in Danimarca hanno dimostrato che le persone affette da insonnia tendono ad avere una ridotta connettività tra il lobo frontale, la parte del cervello associata all’autocontrollo, e regioni come l’insula, che sono coinvolte nell’elaborazione delle emozioni. “Una conseguenza di questa ridotta connettività potrebbe essere una maggiore difficoltà a regolare gli stati emotivi e le risposte allo stress”, afferma Jespersen.

L’immagine di un cervello ruminante che va su di giri combacia anche con il lavoro pubblicato nel 2021 da Yishul Wei e dai suoi colleghi del Netherlands institute for neuroscience di Amsterdam. I ricercatori hanno scoperto che l’attività cerebrale di una persona affetta da insonnia è generalmente più immobile, quindi meno in grado di variare. Questa “inerzia”, hanno concluso i ricercatori, potrebbe contribuire a spiegare la tendenza delle persone affette da insonnia a bloccarsi in schemi fissi di pensieri negativi e ripetitivi.

Preoccuparsi eccessivamente per la perdita di sonno e per le sue conseguenze sembra peggiorare i sintomi diurni dell’insonnia

Come ci si potrebbe aspettare, la ruminazione rischia di essere particolarmente dannosa se i pensieri si concentrano sull’attesa del sonno, provocando uno stato di intensa eccitazione proprio quando il soggetto avrebbe bisogno di rilassarsi. È stato inoltre dimostrato che le persone affette da insonnia mostrano una maggiore attività dell’amigdala (altra area del cervello responsabile dell’elaborazione delle emozioni) se qualcosa gli ricorda il sonno.

Cosa ancora più importante, preoccuparsi eccessivamente per la perdita di sonno e per le sue conseguenze sembra peggiorare i sintomi diurni dell’insonnia – che comprendono stanchezza e problemi di concentrazione – attraverso un processo noto come effetto nocebo. Analogamente al suo gemello più benevolo, l’effetto placebo, l’effetto nocebo è una sorta di profezia che si autoavvera. Quando entra in azione, le previsioni negative portano a conseguenze ancora più nefaste di quelle che si verificherebbero altrimenti.

Aspettative negative
Diversi studi basati sull’osservazione forniscono prove in linea con questa idea. Quanto più i soggetti coinvolti si preoccupano per la mancanza di sonno, tanto più i loro sintomi peggiorano, a prescindere dal fatto che dormano effettivamente bene. Il dato forse più significativo è che i ricercatori siano riusciti perfino a identificare un gruppo di “buoni dormitori che si lamentano”, ovvero individui che non sembrano soffrire di alcuna privazione oggettiva del sonno, ma che sperimentano tutti i problemi di stanchezza e concentrazione delle persone con insonnia come risultato delle loro aspettative negative. La situazione peggiore, ovviamente, è quella di chi dorme poco e si preoccupa in modo eccessivo delle conseguenze, i “cattivi dormitori che si lamentano”. Le persone che appartengono a questa categoria hanno maggiori probabilità di convivere con i disturbi cognitivi e gli effetti fisici dell’insonnia, come la pressione alta.

La buona notizia è che, arrivando a comprendere più chiaramente le cause dell’insonnia e dei pensieri che attraversano la mente di chi ne soffre, ora sono disponibili terapie psicologiche efficaci.

Una soluzione collaudata è la terapia cognitivo-comportamentale per l’insonnia (Cbt-i). Se viene effettuata in presenza, si svolge in genere nell’arco di quattro-sei sedute, durante le quali il terapeuta discute le strategie per liberarsi dalla ruminazione, quando si presenta. Piuttosto che sforzarsi di dormire, ad esempio, si può suggerire al paziente di concentrare i propri pensieri sul tentativo di stare svegli.

Questa tecnica controintuitiva, chiamata intenzione paradossale, può ridurre l’“ansia da prestazione”, portando a un addormentamento più rapido. Il terapeuta aiuterà anche il paziente a contrastare le convinzioni negative sulla privazione del sonno quando, per esempio, comincia a catastrofizzare gli effetti di disturbi anche minimi. Per andare sul sicuro, la Cbt-i include inoltre l’educazione a concetti come l’igiene del sonno, che può essere utile se combinata con le strategie cognitive. In generale, secondo una recente revisione degli studi, più del 70 per cento delle persone mostra un miglioramento del sonno dopo la Cbt-i e il 40 per cento arriva alla remissione dell’insonnia.

Strategie per dormire
La terapia comportamentale per l’insonnia basata sulla mindfulness (Mbti, consapevolezza) è un altro astro nascente. Come suggerisce il nome, la Mbti si basa sui principi buddisti di consapevolezza e accettazione non giudicante, e i partecipanti vengono allenati a notare i pensieri e le sensazioni che possono provare in prossimità dell’addormentamento senza per forza cercare di cambiarli. “È più importante il modo in cui ci si relaziona con quel pensiero, che il pensiero in sé”, afferma Jason Ong, ex professore della Northwestern university dell’Illinois, negli Stati Uniti, pioniere della tecnica e ora responsabile della medicina comportamentale del sonno per l’azienda statunitense Nox health.

L’osservazione passiva dei pensieri e il riconoscimento della loro natura fugace hanno come obiettivo quello di disinnescare alcune delle frustrazioni di chi soffre di insonnia, evitando che la persona sia trascinata nella ruminazione e nella preoccupazione che aggravano il suo disagio. Gli studi clinici lo confermano. Una ricerca del 2018 ha dimostrato che l’Mbti può ridurre significativamente i sintomi dell’insonnia, mentre uno studio del 2020 ha confermato che questi benefici durano anche dopo la fine della terapia.

La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che l’insonnia di ogni persona differisce nei dettagli relativi alle cause e alle conseguenze. Con il tempo, tuttavia, potrebbe essere possibile identificare la specificità di ciascuno e prevedere quali terapie si riveleranno più utili.

Tessa Blanken dell’università di Amsterdam ha già compiuto alcuni passi importanti in questa direzione. Analizzando una grande quantità di dati sull’insonnia e sulle sue potenziali cause, ha identificato cinque sottotipi distinti del disturbo, ognuno con modelli unici di eccitazione durante il sonno e di sofferenza diurna dei soggetti.

All’inizio di quest’anno, Blanken ha dimostrato che chi presenta alcuni di questi sottotipi ha maggiori probabilità di sviluppare una forma di depressione come conseguenza della privazione del sonno e che la sua salute mentale può trarre particolare vantaggio dalla Cbt-i. In futuro, la studiosa spera che tali scoperte possano aiutare a personalizzare le cure. “Potremmo scoprire quando fattori specifici sono importanti per determinate persone e attraverso quali meccanismi una cura è efficace”, dice Blanken. “Saremmo quindi in grado di dare la precedenza a chi potrebbe ottenere i benefici maggiori da una determinata terapia”.

Ma è improbabile che a breve si riesca a centrare l’obiettivo, soprattutto per la mancanza di terapeuti disponibili. “Per ogni professionista con una formazione in Cbt-i esistono migliaia di pazienti”, conferma Daniel Gartenberg della Pennsylvania state university. Ciò significa che la maggior parte delle persone affette da insonnia continuano a ricevere prescrizioni di farmaci, nonostante le prove a favore delle terapie psicologiche. “Non è giusto che esista un disturbo così diffuso e che una cura la cui efficacia è stata dimostrata non sia disponibile per tutti”, afferma Espie.

Lo scoraggiamento per questa situazione ha portato un numero sempre maggiore di studiosi del sonno, tra cui Espie e Gartenberg, a indagare se i nostri smartphone possano contenere la risposta, grazie a sofisticate applicazioni che forniscono (in genere dietro il pagamento di una piccola somma) il tipo di conoscenze e di consulenza che di solito sono offerte da un terapeuta.

App soporifere
La terapia online presenta alcuni limiti evidenti rispetto alle sedute in presenzia. “Il rapporto umano è molto importante”, dice Cipriani. Ma i risultati di alcune recenti sperimentazioni dimostrano che vale la pena perseguire questi approcci tecnologici. Prendiamo per esempio l’applicazione Sleepio di Espie.

Il programma prevede un percorso di sei settimane incentrato sulla Cbt-i, con un algoritmo di intelligenza artificiale che aiuta a personalizzare l’applicazione a seconda del comportamento del paziente, registrato attraverso un diario del sonno online o tramite dispositivi indossabili. A maggio, il National institute for health and care excellence, che fa capo al ministero della salute britannico e fornisce indicazioni ai medici sulle terapie utilizzabili, ha raccomandato che Sleepio sia messo a disposizione gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale, sulla base dei dati di dodici ricerche svolte negli ultimi anni.

In una di queste ricerche, racconta Espie, il tasso di remissione è stato superiore al 70 per cento. “Nel corso della mia carriera ai pazienti abbiamo sempre prescritto medicinali, quindi si tratta di un vero punto di svolta”.

Gartenberg sta testando un progetto simile con la sua app SleepSpace che, come Sleepio, traccia i dati del telefono o dello smartwatch del paziente per elaborare una forma personalizzata di Cbt-i. Durante la notte, inoltre, attraverso gli altoparlanti dello smartphone SleepSpace fornisce brevi impulsi sonori riposanti, progettati per indurre le corrette frequenze delle onde cerebrali lente associate al sonno, e si può collegare a “luci intelligenti” che cambiano di tonalità per adattarsi alle fasi del ritmo circadiano. Secondo Gartenberg, SleepSpace potrebbe essere utilizzata insieme a terapisti qualificati o come trattamento a sé stante, sempre che la sperimentazione in corso dia risultati positivi.

Forse non abbiamo ancora trovato una soluzione semplice e veloce per sbarazzarci delle notti in bianco, ma la maggior parte delle persone affette da insonnia dovrebbe poter accedere presto a terapie valide e basate su prove scientifiche, senza ricorrere a pillole che possono creare dipendenza. Dorothy Parker, se scrivesse oggi, potrebbe far mettere da parte la lampada alla protagonista del suo racconto. Attualmente esistono soluzioni migliori che darsi l’abat-jour in testa.

Da sapere
Le donne soffrono di insonnia più degli uomini

L’insonnia colpisce circa il 10 per cento delle persone, ma sono le donne a soffrirne in modo particolare (gli studi che hanno indagato la prevalenza dell’insonnia tra le persone transgender sono finora relativamente pochi). Una ricerca pubblicata lo scorso anno da Liang-Nan Zeng e dai suoi colleghi della Southwest medical university di Luzhou, in Cina, ha raccolto i dati di tredici studi provenienti da varie parti del mondo che hanno coinvolto centinaia di migliaia di partecipanti. La meta-analisi ha rivelato che una donna ha circa il 60 per cento di probabilità in più di soffrire di insonnia rispetto a un uomo.

Le ragioni possono essere sia biologiche sia sociali. Circa tre quarti delle donne incinte soffrono di insonnia durante il terzo trimestre di gravidanza. Questi sintomi possono continuare anche dopo il parto, dovuti agli enormi cambiamenti nella vita quotidiana, ma anche alle fluttuazioni del progesterone e della melatonina, che normalmente regolano il sonno. Anche i sintomi della menopausa, come le vampate di calore e la sudorazione notturna, possono portare a disturbi del sonno prolungati.

La ricerca psicologica suggerisce che le donne sono anche più predisposte alla ruminazione negativa, che può impedire un sonno ristoratore.


(Traduzione di Davide Musso)

Questo articolo è uscito sul settimanale britannico New Scientist.

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